Amico Ornatissimo

Di villa 29 maggio 768

Al Signor Abate Pietro Metastasio#1

Eccovi finalmente, dopo un tanto aspettare, che da voi si è fatto il poema sulle Fontane#2 con la coda lunghissima di lunghe note. Io non vorrei che aveste ragion di dire dopo di averlo totalmente trascorso, che partorirono i monti, e nacque un topo, siccome ho io detto del sistema del Cartesio nel poema medesimo. Ma io so che voi nol direte, purché vi siate d’esso solamente formato quella idea del suo valore, ch’è la verace, né lo crediate l’ottava meraviglia del mondo, ed anco meno. Comunque sia, da voi io spero quell’aggradimento che mi prometto, sicurissimo che avrete riguardo non al valor della poesia, ma al desiderio, ed all’animo ottimamente disposto di chi n’è stato autore. Vorrei essere un Virgiglio, ed un Orazio per soddisfare il vostro intendimento, e per unire al mio canto le vostre lodi: ma che debbo io pretendere, e che dovete sperare da me, mentre mi ha fornita la Natura di uno scarso talento? Dopo aver letto i versi con tutte quante le note, tornate a leggere i versi, ma soli soli, e seguitamente, e ditemi col vostro schietto candore di amicizia se giudicate degno il poema di uscire al publico; ma solamente d’esso intendo, non delle note, che mi sembrano non so qual genere di un far pedantesco, e d’altra parte non ne sono affatto contento, in ciò che spetta alla materia eterogenea alla fontana#3.
          Avrete ancora del mio due sonetti da me fatti voi saprete perché. V’assicuro che null’altro potea accadere per indurmi a lavorar dei sonetti. Avrete per anco l’Epistola in versi sciolti, che vi mandai di villa la scorsa estate, ritoccata, e più connessa; almeno la credo tale#4.
          Non mando il poemetto della Pioggia, a cui ho premesso un fisico Trattatino non ancora compiuto sulla medesima, perché non l’ho ridotto a quella perfezione che vi desidero, e che posso col riandarlo ottennere. È questo appena uscito dal guscio trattenutovi infin adesso, perché nello scorso inverno ho più atteso a studiar, che a comporre; e dalla metà di Quaresima sino al principio di questo mese, con la sola tregua di pochi giorni, ho avuto un lungo corso di febri terzane; e alcune d’esse, particolarmente quelle di mezzo, sono state assai gagliarde: e d’esse già aspetto una nuova uscita, per essere stata da me per ora mandata in santa pace con il germe febbrifugo americano. Lo manderò l’anno venturo#5 accompagnato da altri due scrittarelli che penso di stendere in villa nell’ore che avvanzeranno agli studi filosofici, su i volumi degli autori, e su quello della Natura.
          Terminate queste brevi fatiche poetiche, ho stabilito di comporre una serie di poemetti in verso sciolto sulle eppoche più memorabili della Vita della Beata Vergine#6, per far palese al mondo quell’amore che ho per lei, e per non defraudare me stesso di quel tanto di più che posso promettermi, di patrocinio, impiegando il tempo, e la penna nel celebrare le lodi, e le virtù della nostra amabilissima Madre.
          Dopo questi lavori probabilmente darò un eterno addio alle Muse; riserbandomi solo qualche tempo brevissimo fra l’anno per alcuna epistola in versi, che scriverò agli amici sul gusto delle 2 a voi mandate, e per una brevissima annua composizione minore di 100 versi che da me suol farsi spettante o a Dio, o alla Madonna, o ad alcun santo, o ad argomento morale. E forse, ancorché abbandoni il Parnaso, metterò nuovamente un dì le mani sul poemetto delle Piante, dandogli un aspetto più filosofico, ed impinguandolo d’altre materie spettanti ai vegetabili, lasciate addietro allora quando io lo composi.
          Più volte ho fatto con voi parola di un poema astronomico, che io meditava di fare un giorno, e sopra il quale ho pensato sovvente. Ogni volta che ne richiamava l’idee, io vel confesso, compiacevami meco stesso (e ancora mi piace il disegno), e sperava in quello l’esito il più felice che io potessi compromettermi, di poesia; ma quegli studi di cui fra poco ragionerò, mi tolgono ogni credenza di stendere una tal opera#7. Nondimeno ne farò motto presentemente con voi, e ne avrete, se non una distinta, e precisa idea, almeno un embrione, e non già una sola notizia, come altre volte vi ho data: e ciò, perché siate a parte de’ miei pensieri.
          Il poema sarebbe intitolato il Viaggio de’ cieli. Mi farei strada al poema con un sogno, fingendo essermi apparsa Urania, qual la fingono i poeti, o quale la credette la stolta idolatra antichità, vestita di un manto azzurro, coronata di stelle, con un globo in mano, ed ingombra, e circondata all’intorno di strumenti scientifici. Essa dea sarebbe pure la mia condottiera nel mio viaggio celeste, siccome di Dante furon Virgiglio, e Beatrice nel suo. Impiegherei il primo canto facendo la narrazione dei discorsi avuti con essa spettanti ai sistemi diversi inventati dai filosofi antichi, e moderni intorno ai globi celesti, ed ai principii fisici della materia: e supporrei per veridico il sistema del ciel planetario#8, rinovellato da Copernico, e messo poi più in voga da Galileo: cioè che il Sole sia nel mezzo del nostro cielo, e ad esso intorno, nelle loro orbite, compiano i celesti pianeti le periodiche rivoluzioni: dovendosi mortal danza alla centrifuga, e centripeta forza, l’una stringendosi a fuggire la tangente dell’orbita; l’altra a correre al centro: come ha insegnato ultimamente il gran Newtono#9. Io dissi che supporrei questo sistema#10, perché, oltre non esser certo, ed immune da ogni dubbiezza voi sapete benissimo che non gode l’approvazione della Chiesa; e che noi cattolici non possiamo tener per tesi che il Sole sia in centro, e si rivolga intorno ad esso la Terra. Ma queste supposizioni ed ipotesi verrebber fatte, ed esposte col rigor filosofico soltanto in prosa nel trattato che metterei avanti al poema, di che vi ho ragionato altra volta#11; perché ad un poeta, come poeta semplicemente parlando, è permesso ad allargare la mano, sapendo ognuno che la lingua febea non confessa ingenuamente i pensieri dell’anima di chi ragiona.
          Premesso questo, mi sembra che sarebbe d’uopo per meglio comprendere l’esposto solar sistema, che Urania per valore della sua divinità, mi facesse salire dirittamente nel Sole: e quivi mi facesse vedere per sua potenza senza inganno dell’occhio la diversa tra loro, ma insieme verissima posizione dei pianeti celesti, il che non puossi ottennere rimirandoli stando in Terra, la quale secondo l’ipotesi mentovata ha parte nel loro numero, siccome anch’essa pianeta. Salito in quell’astro fiammeggiantissimo, la mia maestra, e condottiera cominciarebbe ad istruirmi, e meco ragionar del medesimo, e ciò saria la materia del secondo canto. Indi per gradi ascenderei in Mercurio sempre guidato da Urania; dippoi in Venere nella Terra, nella Luna (in questa o prima, o dopo d’essere montato nella Terra, secondo che essa fosse o in congiunzione, o in opposizione#12), in Marte, in Giove, in Saturno, nelle comete, e nelle stelle fisse; i quali viaggi fornirebbero il mio poema di altri 8 canti, che in tutto sarebber dieci.
          A prima vista due canti sembrano inutili: quello in cui ragionerei della Terra, perché io sono abitatore della medesima; e l’altro, in cui ragionerei della Luna, perché satellite: e nel poema in vero non ho fatto disegno di stendere canti a parte per l’altre lune: le 4 di Giove, e le 5 che fanno guardia a Saturno#13. Ma cessano le credenze d’inutilità al dire che in quanto alla Terra null’altro direi che della sua mole considerata matematicamentte, vale a dire della sua figura, della sua grandezza, e misura; dell’inclinazione all’eclittica, delle zone, dei clima, e dei paralleli: e per riguardo alla Luna io ciò farei, per aver campo di chieder ragione ad Urania di tante leggiadrissime favolette inventate dalla credula, e misteriosa antichità: cioè che questa sia piena di fuoco, come volle Anassimandro, al riferir di Plutarco De placitis phylosophorum#14: o una nube stipata, qual la credette Senofane#15; o un temperamento di fuoco, e d’aria; come gli Stoici volean dare ad intendere#16; ed altre opinioni favolosissime io moverei, atte a poter riuscire felici in verso. Alcuni pochi, anco oggidì, le donano cose non sue, volendo che splenda di luce propria, ingannati da una certa oscura luce che chiamasi secondaria, e che mirasi nella Luna, oltre l’argentee corna, quando è vicina ad unirsi col Sole, e quando è già uscita di congiunzione: ma questo oscuratto chiarore da null’altro dipende, se non dal lume del Sole riflesso dalla Terra nella Luna, e nuovamente dalla Luna medesima mandato in Terra#17. Cert’altre cose sappiam del nostro satellite che non si sanno di que’ di Giove, e Saturno, come dell’atmosfera, che quantunque non da tutti sia ammessa#18, molti non sapendola argomentare, però muovansi le quistioni, e le opinioni stabilisconsi non per nulla; delle macchie, e del moto, che chiamasi di librazione#19, indicatosi dal Galileo, ed osservato dippoi accuratamente dal Langreno, dal Gassendo, e con maggiore accuratezza dall’Evelio.
          Mirate che bei campi, e spaziosi di poesia. Felice l’Italia, se i nostri poeti invece di faticare inutilmente a sfigurare le dolci, e leggiadrissime idee del Petrarca, ed intuonare noiosamente in altro suono i casti sospiri di quel melifuo poeta#20, spendessero le loro fatiche cantando le opere ammirabili, e stupendissime dalla mano uscite, o per dir meglio dal voler possentissimo del Creatore! Ma solo intenti di piacere alle fanciulle, lascian marcire que’ semi occulti di virtù, che metteriano frondose piante di gloria, confidando di aver fatto gran cose tessendo una canzona, o un sonetto. Ma per venire al particolare della materia de’ canti, dirovvi che parlerei delle macchie del Sole scoperte dal nostro Galileo#21, le quali vengono prese da alcuni#22 per piccioli pianeti, che si ravolgano intorno al corpo solare in gran vicinanza del medesimo: altri fabricando altre conghietture le suppongono cagionate da vulcani che son nel Sole oppure ve li credono almeno que’ filosofi che si scopersero, o si inventarono, la prodigiosa quantità di fumo, e d’altre opache materie formando delle macchie scure, che poi degenerano poi, decrescendo per gradi, in ombre, ed in nuvoli, e finalmente queste macchie, o nei del Sole, come un filosofo le chiamò#23, dissipate interamente, si veggono a comparire le fiamme orribili de’ vulcani, e formansi alcune macchie brillanti, che alla scure succedono, siccome attestan gli astronomi. Ma queste, se par vi sono, debbono essere rarissime adesso, al dire dell’inglese Martin#24, perché non gli è accaduto giammai di vederne una sola. Farei parola della immutabilità de’ raggi solari, che nel rifrangersi non vengono modificati, ed alterati dal mezzo, ma conservano il vigor proprio, onde sviluppansi, dirò così, e nascono i 7 principali colori, dipendenti da 7 angoli invariabili della rifrazione#25: della sostanza, della grandezza, e del moto vertiginoso, e dell’atmosfera del Sole; dell’eclissi di diversi pianeti, e delle lune; della sostanza, della grandezza, della figura, della distanza de’ pianeti medesimi, e dei tempi che impiegano nel condurre a termine i periodi delle loro rivoluzioni; dell’ampiezza dell’orbite loro; delle cinture di Giove; dell’anello di Saturno, che si ha per un prodigio notabilissimo della Natura, largo 7000 leghe, e distante egualmente dal suo pianeta, come vogliono alcuni, o com’altri pretendono, lungi dal corpo di Saturno 70088 leghe, e largo 9733#26: e variante nel suo aspetto, or apparendo come un’ellissi, ed ora come una linea diritta, e tavolta nascondersi interamente#27; della sostanza di questo anello mirabile, che secondo Cassini il giovine consiste in una schiera di picciole lune, che tutte trovansi nel medesimo piano, e si rivolgono intorno a Saturno#28; o al pensare del dottissimo Maupertuis nel Discorso sopra le differenti figure degli astri#29, è delle stessa materia, onde sono formate le code delle comete; o come vuole il Cheyne è composto di certa sostanza, ed è di tale figura che in guisa di specchio riflette al pianeta il calore, e la luce, e con invenzione meravigliosa del sommo Artefice supplisce alla massima distanza di Saturno dal Sole#30: opinioni tutte ingegnosissime, e che meritano gran lode, ma con la loro insussistenza danno a comprendere, esser la cosa tuttora oscurissima, e ravviluppata in dense tenebre; e delle tre fasce medesimamente dallo stesso Cassini il figlio osservate in Saturno il dì 25 di marzo del 1715 e seguenti#31. Ragionerei de’ supposti abitatori de’ globi; della teoria delle comete, toccando le diverse opinioni immaginate da Anassagora, da Democrito, da alcuni Pitagorici, da Zenone autore e principe, come vuolsi communemente, della setta Stoica, da Seneca, da Apollonio e dai moderni fra quali si contano il Cassini, il Newtono, Keill#32, Gregori#33, che più sanamente pensarono che non gli antichi; intorno alle fisse metterei in campo la distanza loro da noi, la lor grandezza, e sostanza; quell’adunamento di stelle che formano la Via Lattea; le nuove stelle sbucate finora, dirò così, ed osservate alle età di Adriano, di Valentiniano, di Onorio, e di Ottone, e ne’ tempi più a noi vicini veduta d Tycon Brahe, da David Fabricio#34, dal Bayer#35, dal Giansono#36, dal Keplero, da Mario#37, dal Montanari#38, dal Cassini, dal Flamsteed, e da altri dotti astronomi sudatissimi nelle osservazioni celesti; dei loro moti diversi, dei loro periodi; e della cagione del loro tremolo scintillamento: e potrei pur anco oltre le mille altre cose che ho tralasciate, chiedere alla mia guida, e maestra da qual forza sia stato imposto il moto agli astri: cosa che scura è tuttavia, ed ignorata dagli uomini, perché avviluppata, e racchiusa in un recondito arcano. Opinioni moltissime abbiamo intorno a ciò, e tante io direi quasi, quante sono i filosofi e i padri che hanno cercato di rinvenire una qualche via dentro ad un labirinto così intralciato: ma tutte sono o contro alle regole del sano filosofare, o contrarie alla religione; e perciò indegne di essere ammesse da un cattolico, ed ingenuo filosofo.
          Ma io non sarei contento della sola astronomia. In ogni canto vorrei parlare di materie particolari, purché non fosser contrarie alle sane, e vere regole della poesia. Nel Sole, ragionando della sua luce, si potrebbe mettere in campo l’anima solare kepleriana, avendo voluto il Keplero che i raggi solari fossero come tante leve che librassero, e conducessero i pianeti: ma queste leve erano incorporee. L’immagine è affatto poetica, e non meno che la catena che secondo Omero, esce dal trono di Giove#39. Inoltre nel corpo del Sole riporrei un luogo tormentatore, ed ivi i padri dell’idolatria, e dell’atesimo, e d’altre empietà, fra quelli sono celebri per infamia Crizia#40, Teodoro#41, Protagora, Abderite#42, il Pomponazio, il Vanino, Giordan Bruno#43, il Tolland, e l’olandese Spinosa#44. Un tal pensiero non è chimerico, ma fondato, se non sul vero, sulla credenza di alcuni filosofi che hanno pensato di por l’Inferno nel Sole, di che veggasi lo Suiden Sulla natura, e sulla luogo dell’Inferno#45: e questo è sufficientissimo, a mio avviso, per un poeta.
          In Mercurio io porrei il tempio della Gloria. L’elemento in Mercurio che corrisponde alla nostr’acqua, io lo concepirei affatto metallico, e di metallo il più prezioso. L’eccessivo calore che ivi regna scioglie il metallo e le parti sciolte, e divise si propagano ne’ vegetabili, onde crescono alberi che rassembrano di argento, o di oro, l’uno, e l’altro. Questi ben disposti, ed ordinati, co’ loro tronchi formano il vivo, ossia il fusto delle colonne, e i rami a vicenda, e regolarmente intrecciandosi formano gabinetti, ed altre stanze del tempio. Ivi porrei diversi eroi in pace illustri, ed in armi. Ivi sarebbero fregi d’oro, bassi rilievi dimostranti diversi emblemi, armi, strumenti e trofei militari, e tutto ciò che può alludere alla milizia, e alla toga. Io convengo che l’imbeversi, ed il nutrirsi le piante in Mercurio di succhi d’oro, e d’argento, siano conghietture che non abbiano né quella certezza, né quella verisimiglianza, che ricerca, e pretende la vigorosa filosofia, ma non può negarvisi la leggiadria, e la vaghezza poetica, e ancora quel grado di verisimile bastevole per sostenere non favolosa l’immagine di un poeta. Tollerate di udire per mia discolpa uno squarcio di lettera dell’erudito, ed ingegnoso abate Conti a Monsignor Cerati. «I chimici con misure, dissoluzioni, cristallizzazioni di spirito, di nitro, e d’altri principi, imitano le vegetazioni dell’oro, e dell’argento configurando degli alberi che paiono guerniti di rami, di foglie, a’ quali stanno appese delle picciole pallottoline, che rassomigliano i frutti. Senz’altre preparazioni chimiche si può supporre che il caldo attivissimo» (egli dice di Venere, ed io con maggiore verisimiglianza dirò di Mercurio) «sciolga, ed attenui la materia del globo, ed indi ne germoglino quelle piante, delle quali abbiamo qualche analogia ne’ nostri paesi caldi. A Londra nel gabinetto di curiosità di K. Slone io vidi quantità di pietre minerali coperte d’erbe d’argento, che pareano vegetar l’une sull’altre, e stendere i loro rami: e mi pare di aver letto, se non m’inganno, nel Bernie, che un ambasciadore degli Abissini portò al Mogol da parte del suo re un albero d’oro che avea vegetato nella miniera, ed avea tronco, rami, nudi, e parea che volesse andar sempre germogliando, e crescendo. Io credo che quella fosse cristallizzazione naturale non dissimile dalle chimiche, e da quella di ferro, ch’era nel museo del signor Vallisneri; ma ciò che nelle nostre miniere è sterile, e vuoto, può fingersi nelle miniere di Mercurio impinguato di succo sostanzioso, e multiplicante all’infinito il vegetabile#46».
          In Venere ragionerei della Bellezza attenendomi agli autori che vi hanno in miglior modo trattato; tra quali si contano Platone, Leonardo da Vinci nel suo Trattato della Pittura, il Filibien#47, l’Huctson#48 nel Trattato del bello, e della virtù; e l’abbate Conti in più luoghi#49.
          Nel canto della Terra parlerei del gran corpo magnetico che, secondo il dottore Halley#50, occupa il centro terrestre; donde derivano le variazioni, e le declinazioni de’ nostri aghi calamitati, che sempre di per sé stessi alla posizione conformansi, e alla direzione della calamita centrale, ch’egli suppone scostarsi dal Nord, e dal Sud, e dalla situazione orizzontale riguardo a noi.
          In quello della Luna non mancherebbero leggiadre immagini per adornare, e rallegrare, per così dire, il poema. In questo globo vi si è trovato in un’ampolla il cervello di Orlando; là trovansi i sogni degl’inferni, le promesse de’ cortigiani, secche farfalle, gabbie per musciolini, cappi per pulci, i tomi de’ leggisti, e, se vuolsi, diciamolo, purché resti fra noi, né alcuno ci intenda, i puttaneschi visi, e mill’altre cose di simil fatta. Ma io non vorrei, giusta il sentimento, ed i precetti d’Orazio, sovra al collo di un cavallo innalzare una testa d’uomo#51; vale a dire accoppiare alla varietà di un poema astronomico le leggiadrissime favolette chimeriche inventate da messer Lodovico, e da Alessandro Pope nell’Orlando, e nel Riccio rapito. Piuttosto io figurerei la Luna amena, ridente, sempre verde, per vezzosissime erbette, ed ornata di vaghi, odorosissimi fiori con pratelli, con selvette, con ombre, con laghi, con spaziose valli, e colline, ove albergano o in eterno riposo, o in aspettazione dell’intero rivolgimento dell’anno magno di Platone#52 quelle anime veracemente felici, ed elette, che viveano in Terra unite al mortal velo allora, quando correva la fortunata età dell’oro. Quivi semplici pastorelli, innocenti nimfe, ed abitatori delle selve, e dei campi, che mai sempre contenti furono di scarse ghiande, sempre liete, e tra loro uniti con socievole, e pacifico nodo; e descriversi nel poema, quali sarebbero veracemente, se l’uomo tuttora fosse nello stato invidiabile della innocenza.
          In Marte verrebbero collocate altre genti. In un emisfero gl’inventori dell’arti belle: della pittura, della scoltura, della architettura, e della musica, e con essi i migliori seguaci; e probabilmente ragionerei della teoria di queste arti in succinto, ma brevissimamente della musica, riserbandomi di parlarne, come udirete, in altro luogo. Al più direi, dopo di aver parlato dei primi inventori delle inventori delle teorie, della prima delle quali malamente si attribuisce a Pitagora, avendola per avventura questo filosofo imparata in Egitto#53 non meno che l’applicazione della legge dell’armonia al moto dei celesti pianeti e all’altre cose della Natura, al più, dissi, direi dei modi antichi della medesima, gli ordini della quale, secondo viene stimato da alcuni serratissimi in tale scienza, erano alla musica ciò che gli ordini di architettura sono alla architettura medesima, troncando i capricci, e le idee fantastiche di coloro che non contenti di quindici modi#54 per certe combinazioni addotte per darci un modello dei modi istessi, o li moltiplicano, o possono multiplicarli all’infinito: poiché a quelle divinità, alle quali tempi si costruivano di dorica architettura, destinavasi pur anco il modo dorico per i canti della musica. Nell’altro emisfero verrebbero da me posti i letterati: i filosofi, i poeti, gli storici, ecc., divisi in altrettante schiere, e chi in selve racchiusi, chi abitatori di collinette, o di prati, o di rive di ruscelli, e di fiumi, secondo il loro talento, e la lor natura.
          Porrei in Giove coloro che cercaron vivendo la trasmutazion de’ metalli, il dissolvente di tutti i corpi, il rimedio di tutti i mali, le luci esterne, il moto perpetuo, la trasfusione del sangue che ringiovanisce i vecchi, ed altre simili chimere professate dai cabalisti, e dai visionari, i quali trasportati dalla follia, e dall’interesse si applicarono così vani lavori: ed il branco di questa razza fingerebbesi tormentata, a proporzione dei loro demeriti, e non godentesi la bella scena ornata da vaghissime produzioni, e meraviglie della Natura#55.
          Avrei potuto dividere questo globo in due emisferi, siccome ho fatto di quello di Marte. Fingere in uno le descritte anime tormentate, nell’altro i non tormentati cacoetici verseggiatori, che mai sempre han faticato a ricantare in noioso stile cose di già cantate#56, e degnissime dell’obblio, per compilare i volumi immensi delle raccolte ultima peste dell’italica poesia; indi coloro, onde fu guasto nel passato secolo il buon gusto del poetare#57, cangiando in perle le amare lagrime, la bocca in vaso di bei rubini, ed in uscio gemmato dalla reggia del viso#58, il naso in obelisco, la luna in frittata celeste#59, le pulci in capre saltanti, le stelle in ardenti zecchini del banco di Dio#60, atque alia, atque alia, con mille et cetera appartenenti; quei che hanno fatto sciocchissimi, e larghi brodi, e gelatine con il Petrarca; che credettero aver l’ambio, ed il portante#61 del gran signore dell’altissimo canto#62, per essersi appigliati senza natura, e senza dottrina al peggio di quel sovrano poeta, senza sapere il suo camino, ed hanno repleta di bolge ogni canzona#63; e che vollero aggiugner canti di loro versi ai poemi di Virgiglio, e del gran Torquato: cosa veracemente degna di riso, e tanto folle, che potrebbe da chi in petto sentissesi l’anima del Salvini far nascere il desidero di proporre, e sviluppare il problema, se maggiore è la follia il credere que’ duo poeti bisognosi di supplemento, o il creder se stesso atto a supplire a que’ due#64. Si potrebbono ivi fingere il Borromini, che a scranna siede, autore di una nuova, e capricciosa architettura; i pittori che si sono scostati dalle vere regole, indomiti, e nemici della antica simplicità, e del disegno; i moderni assassini musici; coloro che introdussero nelle scuole uno strano filosofare, sformando, e dando un novello, oscuro, e totalmente dissomigliante aspetto ai testi di Aristotile, che per altro eran lungi in gran cosa dal vero; ed altri molti, che in riguardo alle lettere spirano un odore maligno, e cacoteo. Potrei, dissi, introdur questo nel poema, ma nol farei, per non mischiare il lepido, ed il satirico all’astronomico, e per essere queste non tutte gravi, e sublimi idee. Ma andiamo avanti.
          In Saturno sarebbero condannati a maggiori pene coloro che orme stamparono più pericolose, e che l’uomo ravvilupparono in labirinti più foschi, e in dannosissimi errori. Quelli cioè che cercarono le macchine automate che si montan da sé, la nascita, e il risorgere artificiale dell’uomo, quei che trassero il mondo dal cieco Caos; i scettici, gl’idealisti, i materialisti, i genetliaci, tutti coloro che con erbe hanno tentato di riuscire nell’arte magica; e quei che hanno scritto altre follie intorno alle simpatie, ed antipatie; quale è celebre ma ridevole insieme quella che insegnavasi in un certo libro Dell’antipatia, che Columella attribuisce a Democrito, cioè il segreto di far morire i bruchi che guastavano l’erbe, facendo intorno ad essi girare tre volte una donna mestruata, e scapigliata a piè scalzi#65.
          Nel canto delle comete chiederei ad Urania, se in esse hanno origine tutti que’ mali che spargonsi poi in Terra, simulando di credere i folli pensieri dei più folli filosofanti che immaginaronsi, e gli insegnarono agli altri, o almeno dimostrerei di averne alcun sospetto, per introddurne con la dea il discorso: ma da essa sarei ripreso, e si farebbe ad instruirmi sulla vera teoria di questi corpi celesti, che anch’essi rivolgonsi in orbite assai bislunghe intorno al Sole; celandomi sempre ciò che finora dagli astronomi non è scoperto.
          Nelle stelle che si chiamano fisse, ragionerei della musica. Platone colloca le sirene su gli orbi celesti#66. Se egli inteso siasi di questi, oppure dei pianeti che si dicono stelle erranti, poiché in vero son orbi anch’essi, e spaziano negl’immensi campi del cielo, veramente nol saprei determinare. Ma poco importa. Io potrei metterle nelle fisse, perché più opportune al mio bisogno. Vero è che secondo opinioni moderne altro non son le stelle, se non altrettanti soli enormemente tra lor distanti, il che a noi non appare per la grandissima lontananza che v’ha, da esse alla Terra: e intorno a queste, siccome al nostro sole, si ravvolgon pianeti illuminati dalle medesime, i quali a noi sono totalmente invisibili. Onde par che la collocazione delle sirene, ed il ragionar della musica non troppo andasse a pelo, dovendosi, per ciò fare, supporre piuttosto il sistema antico, siccome più confacente: vale a dire che sieno come appese ad una volta solida di cristallo; e né così grandemente tra lor distanti. Indi un viaggio sì lungo per que’ globi superni, centri di altrettanti cieli planetari, sembra che dovesse pretendere più di un canto. Ma guai chi fosse costretto a impiegar nove canti per ogni cielo che visitassi, siccome farei nel nostro, giusta il disegno espressovi nella lettera. Io però procurerei di ritrovare un qualche espediente per uscire d’impaccio: o montando solamente in una stella, e dell’altre essere instruito dalla dea mia condottiera, e maestra; o regolandomi in altro modo, che forse non mancherebbe per mezzo di un pensar lungo, e di un lungo esame: e ciò per quello che spetta a tanta materia racchiusa in un sol canto. Intorno alla musica oltre il ragionarne in maniera più convenevole, mi fornirebbe di più belle, e grandiose idee il sistema antico celeste, è verissimo, che il moderno ma non solo in quanto alle stelle che credeano immobili, bensì in risguardo anche alle mobili sfere che supponevano urtarsi, mentre compivano i loro giri: e voi nel Sogno di Scipione#67 l’avete espresso con un dotto, e nervoso pensar profondo, e per mezzo di un colorito delicatissimo, ed insieme robusto. E di colà si udirebbe l’armonia, ed il concento sonoro delle mobili sottoposte sfere cagionatovi dalla ineguaglianza proporzionata del loro moto, e quantità. Ma io, che mi atterrei a quello che si pensa oggidì, nullostante potrei ragionarne con Urania, narrandole quanto ho letto, ed udito albergando in Terra.
          Eccovi abbozzato, ed esposto tutto quanto il disegno del gran poema astronomico che io farei. Voi vedete che le materie, dirò così, eterogenee che mi piacerebbe di spargere in ogni canto per maggiore anima della poesia, non le ho divise, ed immaginate secondo il carattere, ed il potere attribuito dagli astrologi ai pianeti: attenendomi a una tal regola, non avrei dovuto disegnare di porre in Marte la pacifica gente inventrice dell’arti belle, e le anime fortunatissime di coloro che navigarono in vita l’immenso mar delle lettere, ma piuttosto eroi guerrieri, inspirando secondo loro il pianeta Marte potentemente il gusto dell’armi, ed il valor militare. Così in Giove distribuzioni di scettri, di grandezze, ecc. Ma nulla badando alle sognate potenze, ed ai deliri di codesti pazzi, di cui non avvi più folle e chimerica gente al mondo, non ho procurata analogia tra le materie, ed i nomi, ed ho pensato a mio talento.
          Quegli studi che mi distolgono dalla amabile, e dilettevole poesia, sono gli studi a me più dolci, che medito nel gran volume della Natura: e particolarmente in quella provincia che risguarda gli insetti#68. In villa nell’ultima scorsa estate raccolsi dei vermi, e dei bruchi, li alimentava, osservava gli andamenti del loro vivere, e dei loro svilluppi, e mi godeva un mondo intero spiando i secreti della natura col rimirare le membra esterne, gli sviluppi, ed altro di quelle innocenti creaturine, che sono scala per chi ben le intende, al sovrano Artefice che le creò. Pure allora non avea gran mire. Ma per non so quali rifflessioni da me fatte, lo studio degl’insetti è divenuto un furore, ed un impeto in me, e sentita a gran voce la vocazione della Natura, non ho dubitato di falsità, ed ho fatta l’elezione di qual nave ho da navigare nell’immenso, e grandioso Oceano delle lettere: e per correre maggiormente quell’acque ombrose, mille volte me fortunato, se trar potessi i giorni della mia vita che ancor mi restano, se pur mi restano veracemente, sempre negl’innocenti, ed amici soggiorni della campagna, ove suole prodigamente palesarsi la Natura, e mostrarsi all’uomo, quanto è feconda nelle multiplici sue produzioni. Io vi assicuro, per quanto sembrami, che più altro non restarebbemi a desiderare. Nulla mai allettano le grandezze, le lodi, i piaceri, gli amori, ma dopo Dio, e una coscienza tranquilla io trovo la mia pace nell’indagare, e nel conoscere fra le tenebre della cieca ignoranza che mi circonda que’ producimenti meravigliosi, onde all’uomo per la via de’ sentimenti ha voluto far mostra del suo potere, e della sua sapienza l’adorabilissimo, e benefico sempre, ed ammirabile Creatore: e sovventi volte compiacciomi meco stesso di aver scelto uno studio che, oltre il dilettevole, mi guida ad uno evidentissimo conoscimento della essenza di Dio.
          La provincia degli insetti è la più grande, la più feconda, e la più ammirabile di quante vengono comprese nei tre gran regni della Natura: il minerale, il vegetabile, ed animale.
          È un piacere ineffabile l’osservare la provida cura delle madri industriose nello sciogliere siti opportuni, onde possa nutrirsi, e crescere la cara prole. Alcune nascondonsi inosservate in seno alle piante, ed ivi fabbricano con gentile, ed ingegnosa architettura i loro nidi dentro le canne, o in altre cave, e fistolose piante, ed ivi depongono, in distinte celle, le uova, da cui scappano i piccioli viventi, che si cibano non della pianta, o degli umori che gemono, e stillano da’ pori suoi ma di un cibo distinto portatovi dalle saggie, e tenere madri prima di chiuderli, e di spalmarli, il che pur fanno con accortezza incredibile, ed ammirabile per schermirli dagl’insulti stranieri o d’altre razze di pellegrini insetti, o d’altro che tendessero a divorarli, o a loro nuocere.
          Altre cavano il midollo, in quelle lunghe, dirò così, cavernette, con ordine le uova loro depongono, le disgiungon le une dall’altre con creta, e con resine di legno, invischiate, o con altro, e prima ripongonvi il cibo pei propri feti che loro serve di opportuno, e bastevole nutrimento sino alla perfezione destinata.
          Altre le pongono sulle foglie che servono di un ottimo, e convenevole cibo alla prole, come le vaghe, e graziose farfalle, che partoriscono gli ovicini, da cui sprigionansi i bruchi dei cavoli. Altre fendono i teneri rami, e vi depongon le uova, ma solamente al covaticcio, perché vi nascano, ed assorban soltanto quel pocolino di nutrimento che loro è d’uopo, qual da utero della madre, onde sviluppisi, e cresca il vermicello, ma esca poi con propria cura industriosa assistito dalla Natura, madre sempre benefica, a cercare altrove un maggiore nutricamento. Tale è la mosca rosisega#69, di cui ha data una storia esattissima, e curiosa il nostro dottissimo Vallisneri, e di cui ier l’altro potei vedere i fatti più mentovabili della lor vita: avendo viduto i brucolini, i vermi eruciformi di varie grandezze, rami trivellati dalla galantissima mosca, ov’eran gli ovi vicini al nascere; la mosca partoriente; e maschio, e femmina uniti insieme all’opera della generazione, i quali tutti portai a casa, e li racchiusi in vaselli, e di cui scrivo in giornali le osservazioni. Mancommi solo di vedere i gentilissimi bozzoletti, ma ben presto saran veduti da me, purché non muoiano, i brucolini, che peraltro son vispi, ed allegri.
          Un’altra turba innumerabile d’ingegnosi insetti sono cagione che le fibre del ramo, che dovean crescere, della pianta si contornino, si trasformino in calici, in varie spugne, in gallozzole, e persino in mentiti fiori.
          Altre madri pur anco gli ovetti loro depongono su foglie che piegano, ed accartocciano in guisa di un fardelletto, legando i margini delle medesime con fili di seta che si cavano dalla bocca, e cio perché non restino le uova ludibrio dell’aria, o esposte all’ingiuria degli animali, o non cadino rotolone per terra.
          Altre li depongono nei sozzi fanghi nei letamai, nelle terre bagnate, secche, lavorate, incolte, campestri, ortensi, pratensi, magre, venose, o pingui, in luoghi sotterranei, ne’ sepulcri, nelle fogne, in carni putride, in fiori, e in erbe marcite, e in altri luoghi, tutti proporzionati all’indole dell’insetto, che ne de essere l’ospite albergatore.
          Altre si partoriscono negli animali viventi: fra quali sono celebri, e notissimi i vermi che annidano nella caverna della fronte delle pecore di daini, e delle capre, negl’intestini de’ puledri, de’ cavalli, e de’ giumenti, e d’altri quadrupedi; quelli che stanno sotto la pelle dei vitelli, delle vacche, dei cavalli non governati, ma che vivono sempre liberi alla campagna, e nelle valli; de’ cervi, delle volpi e d’altri animali abitatori delle foreste, e d’incolti, e barbari luoghi: ed alcune madri ne cacciano persin ne’ fianchi, nel dorso, e nel ventre, trivellandoli, d’altri insetti, o delle loro nimfe, o crisalidi nude, o chiuse dentro i bozzoletti, nidi di terra, di legno, di creta, o d’altro. Ma non sarebbe un finirla mai, se volessi tutte descrivere le industrie delle madri in deporre le uova, da cui scappano a tempo proprio le loro proli: e basta d’averne dato di volo un leggerissimo indizio.
          Non meno ammirabile#70, anzi assai più, della sagacità delle madri, è la trasformazione, o, per dir meglio, sviluppamento della maggior parte del popolo degl’insetti, di una forma in un’altra giunti che siano alla destinata grandezza. Dissi sviluppo, e non trasformazione, non essendo una verace metamorfosi come alcuni malamente credettero, ma uno strigamento dell’insetto volante dal verme, o dal bruco: onde si posson dire le farfalle, le mosche, le vespi, i calabroni, le pulci, ed altri molti un vivente racchiuso in un altro vivente.
          Tutti questi animaletti hanno nel primo stato, ed aspetto di bruchi, e di verme tutte quelle parti che per il moto, e pel nuoto, se sono vermi acquaiuoli, vi vogliono, ed ancor quelle tutte che si ricercano per condurre i giorni suoi allor da verme; cioè corredati sono di fibre, di muscoli, ed organi interni, ed esteriori, per le presenti funzioni da quelle differentissime del racchiuso, e ravviluppato volante: hanno la bocca particolare per cibarsi di frondi, o di carni, o d’altro; il loro ventricolo, ed intestino, e tutti gli ordini meravigliosi per fare la elaborazione del chilo, perfezionarlo, separarlo dalle materie più grossolane, e meno spiritose che formano gli escrementi, e mandarle pei destinati meati alle parti che non sono imprigionato, e chiuso vivente, ma verme, o bruco. Hanno i burchi, ed altri simili viventi trachee differentissime per lo respiro; vene, arterie, nervi, tendini, legamenti, membrane, ed altri lavori meravigliosissimi destinati per la nutrizione, ed accrescimento delle parti, per dar loro il necessario moto, e conservarle nel loro tono. E queste sono cose differenti dalla farfalla, dalla mosca, dalla vespa, che esce, e che riceve per particolari canali suoi la nutrizione, onde cresca, e si sviluppi, e sprigionisi in fine, come appare dalla notomia, che con pazienza incredibile, ed immortale han fatto, fanno oggidì, e nei tempi avvenire faran gli Autori: e questa, dice un nostro valentissimo italiano, è la nature delle cose che parla, non io#71.
          Negli sviluppi che fannosi di terrestri, e vili, come li chiamano, non perché vili siano, animaletti in grazioso volante cittadino dell’aria, e del cielo, non va di balzo, né salta la Natura, ma opera, dirò così, come dicea il gran Leibnizio, a sfumamenti#72. La Natura adunque per operare in tal guisa con gran sua lode riconosciutasi da chi svolge, e ravvisa nel vero lume i suoi tesori, ha voluto un mezzo per il verme o bruco od altro, e il volante, che non è questo, né quello, ma un terzo che ha per così dire lineamenti dell’uno, e dell’altro, che chiamasi crisalide, aurelia, o nimfa#73. Divenendo tale, si spoglia della buccia esterna di bruco, o verme, questa crepando, o squarciandosi per l’ordinario, se non sempre, sopra il dorso vicino al capo, e talora nella parte medesima che involve il capo, come io ho più volte osservato in certi bruchi; ed apparisce un animale diverso da quello ch’egli era, e vi si cominciano a scoprire, e discernere le fatezze del futuro volante, e quelle a perdersi del primerio, e passato suo aspetto, e forma. Giunto a tal grado, e tenore di vita, progressivamente più non si move, e quasi vincolandosi, e scuotendosi solamente alcuna volta per qualche accidente; e più non mangia, sta in sito più asciutto, onde secchisi la spoglia, o buccia che lo involve, e si stacchi, e lo abbandoni, pian piano va maturando, e strigansi a poco a poco le strette, e avviluppate sue parti, e forza acquista, e cresce di lena, e di vigore, finché svolto del tutto lacera, e squarcia quest’altra secca, e sdruscita spoglia, esce in sua perfezione, e dippoi vola, e cerca il cibo, e la via per propagare la specie.
          In tale stato rimangonvi quale soli, e pochi giorni, quale un mese, o più mesi, ed ho letto, se non mi inganno, nel Redi#74, che alcuni tardano ad uscire persin due anni. Io tengo una nimfa che dall’esser di bruco divenne tale nel passato settembre, e quantunque dia manifestissimi segni di vita, non è per anco uscito il volante, siccome usciti sono molt’altri in questo mese, che hanno passato lo scorso inverno entro la buccia ninfale che li avvolgea.
          Prima di manifestarsi sotto tal forma, ed aspetto è pur anco mirabile l’industriosa la cura nel fabricarsi il bozzoletto, o nell’attaccarsi con pochi fil a qualche tronco, o foglie, o rami di piante, o ad erbe, o a muri, e nel coprirsi con altre materie, e cercar luoghi non troppo esposti al cocente raddio del sole, o dominati sovverchiamente dal crudo, e nemico soffio dei rigidi aquilini nel tempo del loro mirabile sviluppamento. In quanto al coprirsi nel loro stato nimfale di materie, dirò così, straniere, e non cavate dal proprio corpo, come la seta, onde fabricansi il bozzoletto, od altro, osservai nella scorsa estate che un certo brucolino di spoglia verdetta giunto al tempo del suo sviluppo, coricossi bellamente in fondo al vasello, in cui lo tenea racchiuso, in un angolo, e senza fabricarsi altro follicolo, o tela, o attaccarsi alla parete del vaso con poca bava ricoprissi mirabilmente, e con somma industriosa sagacità di una certa stomacosa poltiglia, formata di rimasugli delle frondi piuttosto tenere onde pascevasi, e si nutriva, e de’ suoi escrementi, tutto insieme artatamente impiastricciato: e per esser tale la sua natura, o perché la materia, che dovea servire pel bozzolo, o soli semplici fili, erasi viziata; mentre tutto il restante del corpo suo era perfetto: siccome alcuna volta è accaduto ai bachi da seta, con sommo danno di chi teneali, per avere lor dato, così accadendo, il mangiare, senza l’utile che dal follicolo ne risulta. Ma sarà forse, e senza forse questa la lor natura, non potendo io concepire, come abbia un individuo codesto istinto non conceduto a tutta quanta la loro specie: e in vero que’ bachi che non costruironsi la casetta, rimasero nude crisalidi, nulla badando a riparare quel danno che loro avvenne.
          Mirabile è il loro moto: e mirabili sono l’armi, e le loro industrie, onde difendonsi; e mirabile la loro generazione: alcuni accoppiandosi maschio e femmina; altri prolificando, senza accoppiarsi, come le piante (se pur le piante non si congiungono) e questi chiamansi ermafroditi: alcuni de’ quale, come i lumaconi ignudi, sono una certa razza differente d’ermafroditi, che quando vogliono congiungersi spingono, ed arrovesciano fuori del corpo i loro membri, ed insieme l’un l’altro intreccianli, rimanendo per lungo pezzo in un tale avvitichiamento, e sempre que’ loro membri fuor dal corpo ciondoloni pendendo, si divincolano a vicenda, si attorcigliano, si allungano, si accorciano, e in tale movimenti s’imbrodolano di certa spuma viscosetta, e bianchissima, che giù cala, per tutta quanta la lor lunghezza, e fermasi sull’estremo in grosse falde: così l’un altro fecondansi, ma senza intrudere nelle vagine quelle armi lunghissime generatrici. Altri, quali sono i lombrichi di terra, ed alcune chiocciole servono ad amendue i sessi, ciascun guerniti del femmineo, e maschile ordigno; e sono nel tempo stesso amante, e amata; marito, e moglie. Ma quello che soprendente è in alcuni generi degl’insetti, sono le riproduzioni delle loro parti perdute. Tagliata ad un lombrico la testa, o la coda, ad esso una nuova se ne sviluppa, impiegandovi più, o meno di tempo secondo che il numero degli anelli recisi sarà stato picciolo, oppur grande. Il lumacone ignudo riproduce le corna, persin la testa, ed altre parti: e alla salamandra acquaiuola torna a pullulare la coda, le gambe, e queste moltissime volte in poco tempo, e le mascelle; e le gambe alle botte#75, alle rane, ed ai rospi ancor teneri. Intorno a queste riproduzioni animali attualmente si stampa in Modena un’opera grande uscita dalla penna del nostro dottissimo, ed erudito signor abate Spallanzani ingegnoso e felice, ed ingenuo storico della Natura#76.
          Che bei mezzi sono questi, onde giugnere in qualche modo a conoscere il vero, e fornirsi di un’utile, e deliziosa letteratura; e spendere con saggia utilità quel tempo che resta all’uomo dopo avere compiuti i doveri del Cristianesimo.
          Or sono in villa, e potete immaginarvi quali siano i miei trastulli in un tal luogo, in un tal tempo, e in un anno tra noi fecondissimo di molti insetti; e che quanto, almeno in apparenza, dannosi a tutta la società, tanto utili, e cari agli storici, ed osservatori della Natura. Per ora osservo attentamente, scrivo il tutto in giornali, e quando sarò assicurato da una mano copiosa di osservazioni, le unirò, farovvi sopra delle riflessioni, le ornerò di qualche erudizione, e stenderò sopra tali materie alcuni dialoghi, o lettere, o altre operette, non impegnandomi ad una storia compiuta, non essendo fatica per le mie spalle.
          Vorrei parlare con voi di un’altra opera#77, assai utile a mio credere, che voglio in mente di stendere, subito dopo aver compiuto il numero de’ poemetti su la Madonna: ma lo riserbo ad altra occasione, avendovi bastevolmente annoiato con una lettera per avventura senz’altra riuscitami troppo lunga.
         Seguitate ad amarmi, datemi nuove di voi, e notizie del dramma che avrete fatto per gl’imenei napoletani; ditemi il vostro parere su i miei studi intrapresi, sul disegno del poema astronomico, e ponete me il primo tra quelli che vi amano, e vi stimano, poiché sono fra tutti veracemente 

Il Vostro Umilissimo ed Obbligatissimo Servitore
Giuseppe Rovatti

Indicazione aggiunta successivamente, con altra penna.

Dell’origine delle fontane.

La prima versione qui proseguiva con «reputandola adesso sovverchiamente prolissa».
 

L’epistola in versi Troppo egli è ver, che instabili le Muse; cfr. a Pietro Metastasio, 10 agosto 1767.
 

Il poemetto verrà inviato a M. nell’aprile del 1770.
 

Il ms. γ X.3.1. presso la Biblioteca Estense comprende effettivamente numerose cantate indirizzate alla Vergine.


L’opera astronomica non verrà infatti mai realizzata dal Rovatti, e a parte gli abbozzi di cui parla a M. nel carteggio non ne sopravvivono testimonianze. Oltre ai naturali riferimenti al viaggio conoscitivo nel canto X dell’Adone di Marino, agli Entretiens di Fontenelle e al Micromégas volterriano, ma anche al contenuto dei dialoghi algarottiani del Newtonianesimo per le dame, una fonte d’ispirazione primaria per il poemetto mitologico-didascalico del mai troppo originale Rovatti è anche il Globo di Venere di Antonio Conti (1739, ma prima edizione nel 1732 come Il sogno), per il quale rimando a Duccio Tongiorgi, La migliore armonia. Dialoghi e interlocutori per Il globo di Venere, in Antonio Conti: uno scienziato nella République des lettres, a cura di Guido Baldassarri, Silvia Contarini, Francesca Fedi, Padova, Il Poligrafo, 2009, pp. 189-209, e ID., Gravitazioni di Venere. Teoria d’amore e attrazione newtoniana nella poesia del Settecento, in Letteratura e scienze. Atti del XXIII Congresso dell’ADI, Pisa, 12-14 settembre 2019, a cura di Alberto Casadei, Francesca Fedi, Annalisa Nacinovich, Andrea Torre Roma, Adi editore, 2021. 

Riguardo al sistema eliocentrico, anche se ormai ne era informalmente riconosciuta la fondatezza, l’argomento rimaneva comunque delicato, tanto che ancora per tutto il Settecento abbondano le pretese di semplici ipotesi fisico-matematiche per i testi in cui si parla del nuovo ordine cosmico. Solo nel 1835 la Chiesa riconobbe ufficialmente l’eliocentrismo, quando dal nuovo Indice di Gregorio XVI furono escluse le opere di Copernico e Galileo (si veda 
Walter Brandmüller, Egon Johannes Greipl, Copernico, Galilei e la chiesa. Fine della controversia (1820): gli atti del Sant’Uffizio, Firenze, Olschki, 1992).

Nel primo libro dei Philosophiae naturalis principia mathematica.
 

Anche Rovatti, conscio dell’ostilità della Chiesa ancora vigente verso l’eliocentrismo, sceglie il consueto mascheramento dell’ipotesi e della supposizione, topos che risaliva già alla prefazione di Andreas Osiander (Ad lectorem de hypothesibus huius operis) al De revolutionibus copernicano.


«Quello che sarà poeticamente, e con brevità toccato nel verso, verrà apposto in una assai lunga dissertazione, o trattato preliminare in prosa per intelligenza del poema, siccome adesso si usa» (a Pietro Metastasio, 18 ottobre 1767).

La Luna in congiunzione con la Terra (quando cioè è nuova) si frappone tra il Sole e la Terra, ed è quindi collocata, nella successione dei pianeti, immediatamente dopo Venere; quando è in opposizione, e cioè è piena, è situata prima di Marte.

Fino al 1892 (scoperta di Amaltea da parte dell’astronomo americano Edward Emerson Barnard), le uniche lune di Giove conosciute rimasero quelle galileiane, ovvero Io, Europa, Ganimede e Callisto; le cinque lune di Saturno allora note erano invece Titano (scoperta da Huygens nel 1655) e quelle di Cassini, i sidera Lodoicea Teti, Dione, Rea e Giapeto. William Herschel scoprirà nel 1789 Mimas ed Encelado.


Testo pseudo-plutarcheo nei Moralia. «Secondo Anassimandro, il cerchio della luna è diciannove volte quello della terra, e, come <quello> del sole, pieno di fuoco; si verificano eclissi a seconda dei rivolgimenti della ruota, la quale infatti è simile a quella di un carro, che ha un cerchione cavo e pieno di fuoco, e una sola fessura attraverso cui espira» (Plutarco, Tutti i Moralia, a cura di Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, Milano, Bompiani, 2017, p. 1711).

«Per Senofane, è una nube condensata» (ibidem).

Ancora il De placitis: «Per gli Stoici, è un misto di fuoco e di aria» (ibidem).

Nel Sidereus Nuncius Galileo aveva chiarito la questione del «secundarius fulgor» o «secunda claritas»: «Cum itaque eiusmodi secundarius fulgor nec Lunæ sit congenitus atque proprius, nec a Stellis ullis nec a Sole mutuatus, cumque iam in Mundi vastitate corpus aliud supersit nullum, nisi sola Tellus, quid, quæso, opinandum? quid proferendum? nunquid a Terra ipsum lunare corpus, aut quidpiam aliud opacum atque tenebrosum lumine perfundi? quid mirum? maxime: æqua grataque permutatione rependit Tellus parem illuminationem ipsi Lunæ, qualem et ipsa a Luna in profundioribus noctis tenebris toto fere tempore recipit» (Galileo Galilei, Sidereus Nuncius, a cura di Flavia Marcacci, Città del Vaticano, Lateran University Press, 2009, pp. 122-123).

Lo stesso Galileo dapprima ipotizza l’esistenza dell’atmosfera lunare, poi, all’altezza del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tende ormai per l’ipotesi opposta.

La librazione è il movimento apparente della Luna per il quale un osservatore terrestre non vede sempre lo stesso emisfero per la rotazione sincrona, ma una superficie complessivamente maggiore, pari a circa il 59%. Galileo dà a l fenomeno il nome di «titubazione lunare» e lo descrive in una lettera del 20 febbraio 1638 ad Alfonso Antonini (Galileo Galilei, Opere, vol. XVII, Firenze, Barbèra, 1966, pp. 291-296). Michael van Langren mostrò di conoscere il fenomeno della librazione nella legenda della sua mappa lunare pubblicata nel maggio 1645 a Bruxelles, così come Pierre Gassendi (le sue osservazioni della Luna, utilizzate anche da Hevelius, vennero pubblicate nell’Opera omnia lionese del 1658). Johannes Hevelius, infine, scoprì la librazione longitudinale e ne parlò diffusamente nel suo Selenographia, sive Lunae descriptio del 1647, il testo che fondò la topografia lunare. (cfr. Jarosl Wlodarczyk, Libration of the Moon, Hevelius's Theory, and Its Early Reception in England, «Journal for the History of Astronomy», XLII, 2011, pp. 495–519).

Cfr. l’epistola in versi del 25 febbraio 1768: «pur di Petrarca in mille guise è intento / i dolci versi, ed i caldi sospiri / a sformar, ricantando in stil noioso / cose che i buon cantor muovono a riso».

Complessa fu la disputa per la scoperta delle macchie solari, osservate dal 1610 sia dal gesuita Cristoph Scheiner che da Galileo, il quale rivendicò la precedenza nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, comprese in tre lettere scritte all'illustrissimo signor Marco Velseri del 1613 (in Roma, appresso Giacomo Mascardi).
 

Era appunto la tesi di Scheiner, che permetteva al gesuita di salvaguardare il dogma dell’incorruttibilità dei cieli.
 

Leibniz alla regina Sofia Carlotta di Hannover, come si legge nella prima edizione del Newtonianesimo per le dame dell’amato Algarotti: «L’adulazione forse le fece già malamente prendere ad alcuni astronomi cortegiani per piccoli pianeti, che si frappongono tra il Sole e noi, e si servì di costo per trasportare in cielo i casati di que’ principi da’ quali aspettavan qui in Terra una picciola pensione in contraccambio dell’investitura di migliaia di pianeti: e la gentilezza filosofica le trasformò ne’ nei del Sole; se vi piacesse più l’idea, sotto a cui le rappresentò alla regina di Prussia il famoso Leibnitz, egli che credeva di dover ammollir la filosofia per le regine» (Francesco Algarotti, Il newtonianesimo per le dame ovvero dialoghi sopra la luce e i colori, Venezia, Pasquali, 1737, p. 33). 
 

Rovatti si riferisce probabilmente a Benjamin Martin (1705-1782), lessicografo e scienziato, che scrisse nel 1745 The Philosophical Grammar: Being a View of the Present State of Experimented Physiology, or Natural Philosophy in Four Parts, pubblicata nel 1750 nella sua versione italiana, Gramatica delle scienze filosofiche, o breve analisi della filosofia moderna, In Venezia, nella stamperia Remondini, 1750, che ospita a pp. 131-135 un dialogo sulla natura delle macchie solari (dove, per la verità, Martin non dice di non averne mai veduta nessuna, ma solo che la loro frequenza è molto irregolare). Qui peraltro Rovatti può aver tratto anche le sue notizie sull’identificazione delle macchie solari come vulcani, approvata dall’autore e attribuita al teologo William Derham (1657-1735), che scrisse alcune Observations upon the Spots that Have Been upon the Sun, from the Year 1703 to 1711 («Philosophical Transactions of the Royal Society of London», I, 27, 1710, pp. 270-290): «Il sottile M. Derham con molta ragione suppone che le macchie solari sieno cagionate dai vulcani che sono nel sole, che la prodigiosa quantità di fumo, e d’altre materie opache, formi delle macchie scure, che per gradi decrescendo degenerino in ombre e in nuvole» (Benjamin Martin, Gramatica delle scienze filosofiche, ci.t, pp. 132-133).
 

Argomenti che costituiscono la materia del quarto dialogo nel Newtonianesimo delle dame.
 

Ancora dal libro di Martin: «Si pretende che la distanza dall’estremità inferiore di quest’anello al corpo di Saturno, sia uguale alla larghezza dell’anello medesimo, e stimasi l’un come l’altro a 7000 leghe: altri nondimeno fanno ascendere l’intervallo che avvi fra l’anello e il corpo di Saturno a 70088, e la larghezza dell’anello medesimo a 9733 leghe» (ivi, p. 152).
 

«Il suo aspetto varia; or egli appare come una grande ellisse, ora più picciolo; talvolta come una linea retta, e talvolta si nasconde interamente» (ibidem).


Jacques Cassini (Cassini II), figlio di Gian Domenico Cassini e sostenitore della teoria che ipotizzava una natura meteoritica dell’anello di Saturno.
 

«Le nombre de satellite qu'a Saturne, et la grandeur de son anneau, peuvent faire croire qu'il les a acquis aux dépens de plusieurs cometes. En effeti, il faut que cet anneau, tout mince qu'il nous paroît, soit formé d'une quantité prodigieuse de matiére pour pouvoir jetter sur le disque de la planete l'ombre que les astronomes y observent; pendant que la matiére des queües des cometes paroît si peu dense, qu'on voit ordinairement les etoiles à travers; il est vrai aussi que la pesanteur que la matiére de ces queües acquiert vers la planete, lorsqu'elle est forcée de circuler autour, la doit condenser» (Pierre-Louis Moreau De Maupertuis, Discours sur les differentes figures des astres, à Paris, de l’Imprimerie Royale, 1732, p. 81).


George Cheyne (1672-1743), fisico, filosofo e matematico scozzese. «As to Saturn as he is yet farther from the Sun, than Jupiter, and has but the hundredth part of our heat, he is accordingly provided with more satellites (at least five if not more), adjusted much after the same manner, and appointed for the same ends and purpose with those of Jupiter, we have now describ’d. But he has still a further provision made for him, and that is his ring the most surprizing and singular appearance in all the celestial regions: its size is prodigious, being more than twice as broad in diameter, than Saturn is: and the breadth of the ring it self about a fourth part of Saturn’s diameter: and its distance from his body about the same length, whereby the Sun’s heat and light has a free admittance between the planet and its ring, while other heat and light is at the same time reflected in upon it, by this ring. Its thickness is scarce perceivable, which prevents its throwing any great shadow on Saturn. But its smoothness and reflecting faculty, is very considerable, as is evident from the exceeding brightness and illustration it reverberates on its planet: so that it seems not unlikely, that it may be a king of specular contrivance, for reflecting heat and light on its central sovereign, in his great distance from the source of light and heat» (George Cheyne, Philosophical Principles of Religion: natural and revealed, London, George Strahan, 171, p. 242)


Gian Domenico Cassini osservò per primo la separazione presente nel sistema di anelli di Saturno che porta il suo nome (divisione di Cassini); nel 1715 il figlio Jacques osservò eccezionalmente tre bande invece di due («Le 25 mars de cette année 1715 à 10 heures trois quarts du soir, nous apperçûmes sur le disque apparent de Saturne trois bandes obscures paralleles» (Histoire de l’Academie Royale des Sciences, année MDCCXV, à Paris, de l’Imprimerie Royale, 1715, pp. 42-43).


John Keill (1671-1721), allievo di Newton e iniziatore della polemica (con la sua epistola del 1708) con Leibniz sulla priorità del suo maestro nella scoperta del calcolo infinitesimale.
 

David Gregory (1659-1708), astronomo e diffusore del pensiero newtoniano.
 

David Fabricius (1564-1617), astronomo olandese (citato anche da Leopardi nel Dialogo della Terra e della Luna) allievo di Tycho Brahe.
 

Johann Bayer (1572-1625), astronomo tedesco e autore del fondamentale atlante celeste Uranometria Omnium Asterismorum, il primo a coprire l’intera volta celeste (1603).


Willem Janszoon Blaeu (1571-1638), cartografo e allievo di Tycho Brahe.
 

Simon Mayr (1570-1624), astronomo dell’elettore di Brandeburgo e allievo di Tycho Brahe, polemizzò con Galileo sulla precedenza nella scoperta delle lune di Giove.
 

Geminiano Montanari (1633-1687), astronomo e matematico, successore di Gian Domenico Cassini.
 

Come spesso accade con Rovatti, anche questo è un prelievo quasi letterale, dalle annotazioni del settimo sonetto filosofico di Antonio Conti, Levommi Apollo là dov’ei diffonde. «[...] poscia che ho esposto che i pianeti, le lune, le comete girano intorno alle stelle fisse, considerati come tanti soli, centri de’ loro sistemi, o mondi, io richiedo se questi soli sieno appesi a quella catena che secondo Omero esce dal trono di Giove, o pure se da loro spargendo una virtù incorporea qual è l’attrazione newtoniana, o l’anima solare kepleriana, mantengano unito il lor mondo. Voleva il Keplero che i raggi solari fossero come tante leve che librassero e conducessero i pianeti, ma queste leve erano incorporee. Se l’idea della catena d’Omero è affatto poetica, quella di Keplero non lo è meno; ed io temo molto che coloro i quali pretendono di far fisica l’attrazione newtoniana, non la cangino intieramente in poetica» (Antonio Conti, Prose e poesie, in Venezia, presso Giambattista Pasquali, 1739, vol. I, p. 95). Sulla celebre immagine della catena d’oro come motore immobile in Omero (Il VIII 21-22), cfr. Pierre Lévéque, Aurea catena homeri: une étude sur l'allégorie grecque, Paris, Les Belles Lettres, 1959.


Crizia il Giovane, politico e scrittore ateniese, a cui si attribuiva il dramma Sisifo in cui si sosteneva che la religione fu un’invenzione del legislatore per tenere a bada gli uomini.


Il filosofo greco Teodoro Ateo, seguace di Aristippo e negatore dell’esistenza di qualsiasi divinità.
 

Qui Rovatti considera erroneamente due personaggi diversi «Protagora» e «Abderite», quando si tratta ovviamente del solo Protagora, nativo di Abdera.
 

La lista di Pietro Pomponazzi, Giulio Cesare Vanini e Giordano Bruno è quasi proverbiale per indicare i grandi atei Cinque-secenteschi.
 

Tradizionali anche i richiami a Baruch Spinoza e a John Toland.
 

Probabilmente qui Rovatti, visto il riferimento abbastanza oscuro (An enquiry into the nature and place of Hell di Tobias Swinden, del 1727) legge ancora direttamente da Martin: «Osservate il libro di Suiden, Sulla natura e sul luogo dell’Inferno», in glossa a «per questa ragione [il corpo solare fatto di fuoco] alcuni in esso hanno riposto l’inferno» (Benjamin Martin, Grammatica delle scienze filosofiche, cit., p. 111).
 

La citazione è tratta dalla prefazione al Globo indirizzata a Gaspare Cerati: Antonio Conti, Prose e poesie, Venezia, presso Giambattista Pasquali, 1739, vol. I, p. XXVI (l’ultimo «Mercurio» nel testo originale è naturalmente «Venere»). Per i versi del Globo di Venere a cui si allude, cfr. ivi, pp. XLVII-XLVIII.
 

André Félibien (1619-1695), storiografo e segretario dell'Académie royale d'architecture.
 

Rovatti legge la grafia scorretta dalla prefazione di Conti; si intende il filosofo scozzese Francis Hutcheson (1694-1746) e la sua An Inquiry into the Original of Our Ideas of Beauty and Virtue del 1725.
 

Cfr. ancora la prefazione al Globo di Venere.
 

Cfr. la teoria del nucleo centrale terrestre di Edmond Halley in An Account of the Cause in the Variation of the Magnetic Needle; with an Hypothesis of the Structure of the Earth nel 1692.
 

Anche Rovatti si dimostra lettore dell’Ars poetica.
 

Probabilmente dalla Nereidologia di Algarotti: «E che cosa divenissero dopo morte, se restassero in mare, tragittassero ai campi Elisi, salissero in qualche stella, o si rimescolassero con l’anima del Mondo degli Stoici, oppure aspettassero, per tornare nel primiero stato, il rivolgimento dell’anno magno di Platone» (Francesco Algarotti, Sinopsi di una introduzione alla Nereidologia, in Venezia, presso Giambattista Pasquali, 1758, p. 23). Il Grande Anno platonico, di cui si parla nel Timeo (39d), aveva una durata supposta di 36.000 anni solari, ai termini dei quali tutti i sette pianeti e le stelle fisse tornavano al loro punto di partenza.

 

A partire dalla Busiride di Isocrate si diffonde il mito, poi popolarissimo, del viaggio di Pitagora in Egitto (cfr. Silvio Accame, Pitagora e la fondazione di Dicearchia, in Settima Miscellanea greca e romana, Roma, Istituto Italiano per la Storia antica, 1980, pp. 3-44; Christiane L. Joost-Gaugier, Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull’arte, Roma, Arkeios, 2008, pp. 29-31).
 

Secondo l’Εἰσαγωγή μουσική di Alipio, trattato fondamentale per la notazione della musica greca, le scale tonali sono quindici.
 

Nella prima versione del manoscritto si legge l’appunto «R. meraviglie della Natura (dopo il tratto di Giove)».
 

Cfr. ancora l’epistola in versi del 25 febbraio 1768: «[...] ricantando in stil noioso / cose che i buon cantor muovono a riso».
 

L’elenco successivo è una rassegna proverbiale di argutezze barocche: Rovatti le preleva probabilmente dall’elenco negli Avvertimenti circa l’uso delle metafore nell’Introduzione alla volgar poesia di Giovanni Battista Bisso, recensita dal Baretti nella Frusta letteraria nella prima edizione veneziana del 1762 («allora si cangiavano in perle le lagrime, e gli astri in delfini; i denti erano gemme, la bocca un vaso di rubini, e il baso un obelisco»; cito dall’edizione romana del 1777, Giovanni Battista Bisso, Introduzione alle volgar poesia in due parti divisa, in Roma, nella stamperia Zempel, 1777, p. 61).


Adone VIII 122, 1-2: «Quella bocca mi porgi. O cara bocca, / de la reggia del Riso uscio gemmato».
 

Tommaso Stigliani nel Desiderio di luna: «Matarazzi del cielo, oscure nubi / ch’or tenete celata / la celeste frittata» (Il canzoniero del signor cavaliero Fra’ Tomaso Stigliani, in Roma, per l’erede di Bartolomeo Zannetti, 1623, p. 266); il tutto a fini però parodici (cfr. Andrea Lazzarini, La «maraviglia» e il «riso». Reazioni primo-seicentesche alle metafore «sregolate», in La misura del disordine. Miraggi e disincanti nella poesia barocca europea, a cura di Carmen Gallo, Pisa, Pacini, 2020, pp. 131-158).


Sempre Stigliani negli Amori giocosi, con L’amante disperato «Nel gran banco del ciel zecchini ardenti», ivi, p. 224. Il verso venne prelevato dal canto XII dello Scherno degli dèi di Francesco Bracciolini, tra le argutezze di Tamiri, ma anche qui l’intento era dichiaratamente satirico: «Sino a chiamar le stelle alte, e lucenti / su la banca del ciel zecchini ardenti» (o. 61, 7-8).


L’andatura (detto del cavallo).
 

If IV, 95.
 

Cfr. la polemica contro gli imitatori di Dante in Saverio Bettinelli, Le raccolte al nobilissimo signor Andrea Cornaro nelle sue nozze con la nobilissima signora Maria Foscarini, Venezia, s.t., 1751: «Che seguaci di lui v’ha mille stolti, / ch’han repleta di bolge ogni canzona» (III, 37, 1-2); ma Rovatti probabilmente leggeva dall’edizione 1767 dei Sei poemetti di Diodoro Delfico (vedi nota successiva). Si ricordi che Cacoete è un personaggio delle Raccolte.
 

Dalle Annotazioni al canto quarto delle Raccolte, in Saverio Bettinelli, Sei poemetti in ottava rima di Diodoro Delfico, in Padova, nella stamperia del Seminario, 1767, p. 66. 
 

Citazione diretta da Vallisneri, dalla Prefazione al Saggio di istoria medica, e naturale: «Ma qual giudizio formeremo del testimonio di Columella, il quale attribuiva a Democrito un certo libro Dell’antipatia, in cui s’insegnava il segreto di far morire tutt’i brucchi che guastavano l’erbe, facendo girare all’intorno di loro tre volte una donna mestruata, e scapigliata a piè nudi?» (Antonio Vallisneri, Opere fisico-mediche, in Venezia, appresso Sebastiano Coleti, 1733, vol. 1, p. 347).
 

Nella Repubblica, 617c.
 

Dal dialogo di Scipione e Costanza: «SCIPIONE. E chi mai tra le sfere, o dèe, produce / un concento sì armonico e sonoro? COSTANZA. L’istessa, ch’è fra loro, / di moto e di misura / proporzionata ineguaglianza. Insieme / urtansi nel girar; rende ciascuna / suon dall’altro distinto; /e si forma di tutti un suon concorde» (Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., vol. II, p. 239).
 

È a questo periodo che risale la predilezione di Rovatti verso l’entomologia, che diverrà sempre più preponderante nei suoi interessi, e, di riflesso, anche nel carteggio. Nelle osservazioni dirette, pur rimanendo sempre debitore di Vallisneri, Rovatti non si limiterà più a citare – in modo più o meno manifesto – soltanto auctoritates ma anche il proprio originale lavoro di studio.
 

O mosca dei rosai, come la chiama anche Vallisneri nelle Esperienze ed osservazioni intorno all'origine, sviluppi, e costumi di varj insetti, altro testo fondamentale per Rovatti. Le Osservazioni intorno alla mosca de’ rosai, cioè, come, e dove deponga le uova sue, come da queste nascano brucolini; cibo loro, costumi, spogliature, struttura, e particolarmente del mirabile loro aculeo, e finalmente sviluppo in mosche simili a’ genitori occupano tutta la prima parte (pp. 1-33) del testo (Antonio Vallisneri, Esperienze ed osservazioni intorno all'origine, sviluppi, e costumi di varj insetti, con altre spettanti alla naturale, e medica storia, in Padoa, nella stamperia del Seminario appresso Gio. Manfrè, 1713).
 

Da qui e fino a «mirabile è il loro moto» nel manoscritto originale si trova: «Ma non meno ammirabile della sagacità della madri è la loro trasformazione e l’industria nel fabricarsi il bozzoletto o nell’attaccarsi con pochi fili a qualche tronco, o foglia di pianta, o ad erbe, o a muri, o nel coprirsi con altre materie, e cercar luoghi non troppo esposti al cocente raggio del sole, o sovverchiamente dominati dal crudo, e nemico soffio dei rigidi aquilini, nel tempo del loro mirabile sviluppamento. In quanto al coprirsi nel loro stato nimfale, di materie, dirò così, straniere, e non cavate dal proprio corpo, come la seta, con cui si fabbricano il bozzoletto, od altro, osservai nella scorsa estate che un certo brucolino di spoglia verdetta, giunto al tempo del suo sviluppo, coricossi bellamente nel fondo del vasello, in cui lo tenea racchiuso, in un angolo, e senza fabricarsi altro follicolo, o tela, o attaccarsi alla parete del vaso con poca bava, ricoprissi mirabilmente, con somma industriosa sagacità di una certa stomacosa portiglia, formata di rimasugli delle fronde piuttosto tenre onde nutrivasi, e tutto insieme artatamente impiastricciato: e ciò o per esser tale la sua natura, o perché la materia che dovea servire per bozzolo o soli semplici fili erasi viziata; mentre tutto il restante del corpo suo era perfetto: siccome alcuna volta è accaduto ai bachi da seta, con sommo danno di chi teneali per avere lor dato, così accadendo, il mangiare senza l’utile che dal follicolo ne risulta. Ma sarà forse, o senza forse questa la lor natura, non pretendo io concepire, come abbia un individuo codesto istinto non conceduto a tutta quanto la loro specie: e in vero que’ bachi che non costruironsi la casetta, rimasero nude crisali, nulla badando a riparare quel danno che loro avvenne con qualche industria inventato».
 

Antonio Vallisneri, Istoria della generazione dell'uomo, e degli animali, Venezia, appresso Gio. Gabbriel Hertz, 1721, p. 64 (poi in Opere fisico-mediche, cit., p. 129).
 

Dalle Lettere sopra l’architettura di Algarotti: «La Natura non va per salti, dice il Leibnizio, ma per isfumamenti insensibili passa da cosa a cosa» (Francesco Algarotti, Opere del conte Algarotti, Livorno, per Marco Coltellini, vol. VI, p. 189).
 

«Ci vuole un mezzo fra quello, e questo, che non è verme, e né meno volatile, ma un terzo dell’uno, e dell’altro, per così dire, partecipante, che si chiama crisalide, aurelia, o nimfa» (Antonio Vallisneri, Opere fisico-mediche, cit., vol. 2, p. 129). 


«Ma gli animaluzzi di certune aspettano l’altra futura primavera, quegli di cert’altre la state, ed alcuni amano di stagionarsi per entro la gallozzola lo spazio intero di due anni e oltre» (Francesco Redi, Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, in Firenze, all’insegna della Stella, 1668, p. 146).
 

I rospi.
 

Lazzaro Spallanzani, Prodromo di un'opera da imprimersi sopra le riproduzioni animali, in Modena, nella stamperia di Giovanni Montanari, 1768. È del dicembre 1768 la prima lettera a Spallanzani da parte di Rovatti conservata nel carteggio alla Biblioteca Estense.
 

L’opera sulla connessione, di cui parlerà diffusamente la Lettera seconda.