Al Signor Abate Pietro Metastasio, Vienna
 
Sul principio del mese scorso ricevei un’obbligantissima lettera sua in risposta alla mia data di Modena il 2 di aprile. Io le sono veramente, com’è dovere, obbligato, della continuazione de’ suoi favori, e della sofferenza che ha di me. Ma duolmi invero di non potermi prevaler del rimedio che vostra signoria illustrissima mi ha proposto, per addolcire in parte il dolore che soffro, dal non potere innoltrarmi ai gelidi Trioni per visitarla. La ragione di non potere usare la propostami medicina è che non ho per anche licenza di leggere i libri proibiti#1; e le Satire del gran Lodovico si contan fra questi, almeno fra noi#2: dall’altra parte non voglio mettermi fra la turba pur troppo numerosa di que’ begli, e forti spiriti, che si fan lecito ciò ch’è interdetto.
          Ho sentito dire da non so chi che dopo un lungo viaggio per varie parti d’Europa, è giunto finalmente a Vienna chi avea l’incarico di portarle il mio poemetto. Mi è convenuto di cambiare una nota, che molto ne abbisognava. La spedisco a vostra signoria illustrissima, perché abbia il tutto simile alla copia che tengo io. Tra quel Quasi che la luna possa agire con l’altro Non si tratta di una mera impossibilità, vi è una forza, dirò così, ripulsiva, e non vi è rettitudine di discorso, la qual cosa si dee fuggire da ognuno, ma in modo particolare da chi tratta cosa di filosofia. Ma giacché vi ho messo le mani, di molto l’ho accresciuta, per confermar sempre più la mia proposizione; ond’ella avrà nel tempo stesso e correzione, e supplemento.
          Questa mutazione è l’unica cosa che abbia fatto dall’aprile in qua. Non ho letto neppure un sol libro. Un gagliardissimo stiramento di nervi al capo mi ha impedito ogni studio. Io non credo di soffrire mai più tanto rammarico, se non sarà per somigliante cagione. Tutti gli affetti i più malenconici, e tristi mi aveano sulle prime assalito, ed ancora in gran parte continuano. Sto adesso un poco meglio, non però troppo bene, e dubito che fin a tanto che tiri il caldo, potrò far cose che richieggano qualche, benché minima, applicazione. Or sono in villa, per vedere, se mai potessi in miglior aria risanarmi. Iddio lo voglia, perché ars longa, vita brevis#3.
          Mi dica un poco, la prego, che cosa sono quegli argomenti refrigeranti lasciatici dalla felice memoria del cardinale de’ Medici, de’ quali vostra signoria illustrissima fa menzione in una delle sue lettere scritte al Riva mio zio#4. L’ho chiesto, ma invano, a diversi. Me ne voglio, quando saprò che sieno, munire anch’io, per tollerare con minore incommodo la noiosissima sensazione del caldo tormentatore.
           Avea disegnato di comporre nella presente estate un dramma, che avrei intitolato l’Enea in Cartagine#5; ma ho bandito dalla mente un tal pensiero. Conviene che io attenda a guarire, perché poi nel prossimo inverno possa in versi trattare qualche cosa filosofica. Ho già scelto il soggetto, ma d’esso ho letto pochissimo, onde mi converrà studiar molto; tanto più, perché vi sono da abbattere due sistemi, il peripatetico, e il cartesiano.
          Dicesi che alcuni dotti teutonici mettan fuori delle bell’opere la filosofia. Mi dia, la prego, notizia chi sono, e sarebbemi grato che s’informasse ove il padre Laskanis#6, suo amico della venerabile Compagnia di Gesù, ha stampato quella o dissertazione, o altro, qualunque siasi, sopra il grado che ha misurato del meridiano, per ordine del morto Cesare#7.
          Ella frattanto mi dia l’incontro felice de’ suoi comandi; seguiti ad amarmi, e mi credo pieno di stima, e di amore per cui sarò sempre costantemente ecc.
 
Di villa 9. luglio 1766
 

Sulla questione della licenza per la lettura dei libri proibiti si veda Spaggiari, Scheda per l’epistolario di Metastasio, p. 105.

Le vicende legate alla censura delle Satire ariostesche sono ricostruite in Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII), Bologna, Il Mulino, 2019.

La ben nota massima è la traduzione del primo degli Aforismi di Ippocrate, resa celebre anche nella versione di Seneca del De brevitate vitae («Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens volgus ingemuit; clarorum quoque virorum hic affectus querellas evocavit. Inde illa maximi medicorum exclamatio est: “vitam brevem esse, longam artem”», Sen., brev. I).

Il riferimento è alla lettera scritta da M. a Giuseppe Riva, appena giunto a Praga, il 25 luglio 1732 (la n. 44 dell’edizione Brunelli): «Basta: siete arrivati sani, e non è poco; conciossiafossecosaché in questa caldissima stagione si dura una fatiga da cani a stare allo scuro ed in camicia nella propria camera, anche muniti di tutti gli argomenti refrigeranti che inventò la felice e gloriosa memoria del cardinal Francesco de’ Medici» (Brunelli, Lettere, p. 69). Il riferimento non verrà chiarito da M. (cfr. la lettera del 15 settembre 1766); un’ipotesi è che si tratti di un accenno scherzoso alle abitudini proverbiali di Francesco Maria de’ Medici, noto come un «vero campione pantagruelico, dedito a gozzoviglie di ogni genere», che «avrebbe passato buona parte della propria esistenza “in mezzo al brio e al libertinaggio” della villa di Lappeggi dove, secondo una certa tradizione storiografica, avrebbe trovato il rifugio più adatto a fuggire le incombenze derivanti dai suoi numerosi compiti istituzionali» (Francesca Fantappiè, Per una rinnovata immagine dell’ultimo cardinale mediceo. Dall’epistolario di Francesco Maria Medici (1660-1771), in «Archivio Storico Italiano», CLXVI, 3, 2008, pp. 495-531: 495).

Non c’è traccia di questo componimento tra le carte di Rovatti.

Non è chiara l’identificazione di questo personaggio, che nelle diverse lettere (31 dicembre 1765, 20 febbraio 1766) viene chiamato «Padre Lascanis» o «Laskanis» (la grafia è incerta anche nei copialettere). 

Il «morto Cesare» è evidentemente Francesco I di Lorena, morto il 18 agosto 1765, ma non ho trovato iniziative da lui patrocinate sul meridiano di Vienna.