Al Signor Abate Metastasio#1
Troppo egli è ver, che instabili le Muse
odiano i pigri studi, e la lunghezza
mesce, e conturba di dolcezza i fonti.
Convien talora alzarsi a volto un nuovo
piacer frugando, e un nuovo cielo, e un nuovo
aere solcar, poi far ritorno ai primi
sentier, già sciolto dalla noia antica.
Tale io, signor, da colti volumi
del più dolce saper raccolto il fiore
spargo versi sovvente all’arme, e all’onore,
il primiero subbietto obblio, e l’acque
cercando altrove, e il fresco fonte, intanto
con la lingua febea ora mi giova
con te parlar, cui spirano gli ingenui
pensier le Grazie, e detta i modi Apollo,
ma donde io muoverò, spirto gentile,
se non, teco in parlar, dalla mia vita,
di cui, io il so, tanto il tenor t’è a cuore.
Qui d’Algarotti mio gli eletti versi
spesso delibo#2, e se m’avvien, che all’aure
ne sparga il suono, la foresta intorno
tiene silenzio, e tacciono gli augelli;
qui con Virgiglio, e Sannazar la bella
sete disbramo#3, e insieme con lui, che a Roma
venìa dall’acque del Benaco azzurro#4.
Nell’ombra folta di più buia notte
m’inselvo, e i foschi più sovvente io cerco
fisici labirinti, e i bei secreti#5
dell’occulta Natura ai carmi ordisco.
Ma la candida tazza a me porgendo
Filosofia par che mi dica, «o figlio
acque cupe, e profonde, ed intralciati
nuovi sentier son da tentar, se meco
ad aver seggio in Elicona aspiri#6.
L’aere, gli animai, la terra, e l’acque
io ministro al cantar: ma a pochi è dato
unir grazia, e beltade ai duri nomi.
Son difficile, e bella; e se animosa
seguo i perigli, di fortuna avversa
tutti non lice a me spuntar gli strali#7».
Allor tutto pensoso, e in me raccolto
cerco, medito, e alfin sento, già desti
da erranti spirti uscir fantasmi#8, impresso
alle tremole fibre un agil moto.
Però non tutti a’ miei desiri intesi
ed all’uopo maggior, a torme io veggio
altri sfumati, e tra la luce, e l’ombre
sbuccan qua, e là, ma usciti appena al folto
fan ritorno del bosco. Io li richiamo,
essi fuggon vieppiù. A non usato
tormento alfin cedon talor, ma è d’uopo
arte, e industria maggior. Scrivo, distorno,
novamente cancello, e faticosi
alla cerca commetto i tardi versi#9.
Sieno servi i concetti, e ad essi imperi
ragione#10 (a); e in vero allor, che io prego e scrivo
io stropiccio la fronte#11, e l’unghie rodo#12 (b).
Ma pur riesce diletta ogni fatica,
purché il metro rivolga ove si attinge
dolcezza, e verità strette in bel nodo,
e a te possa piacer, spirto gentile.
Ma non sempre di Maro, e del Newtono
meco sono i volumi, e carmi intesso.
Perde lena il cursor, s’avvien che il freno
rigido cavalier sempre disciolga.
Quando il Sole declina inverso sera,
passeggio ad or ad or fra verdi, e lunghe
ordinate spalliere in bei filari#13,
e lungi da noiose urbane cure
sotto un cielo tranquillo in villareccio
solingo albergo di goder mi è dato
la bella libertà cara agli dèi.
Sovvente ancor meco i pensier miei dolci
spaziar mi giova a passi incerti, e lenti
lungo il molle Panar, che l’arenose
rive lambendo, al Po superbo adduce
dall’acquoso Apennino il bianco fiotto:
e il glauco capo, che nell’urna immensa
tiene nascoso#14, fuor dall’acqua alzando
i secreti dell’onde a me disvela.
Ed ancor forse allora, che gl’innocenti
piacer delibo, e di pratelli, e d’ombre,
e di schietti arboscei prendo vaghezza#15,
medito, e penso, e ciò che non ignora
ruminando la mente, or l’una, or l’altra
idea richiama, e a sé le trae: mia bella
Italia, a te spesso il pensier si volge.
Ma oimè qual sei da quel di pria difforme
Italia mia#16! Ora divisa, e serva
quasi in funesto egro letargo avvolta
a te non son più nobil cura, e impero
gli antichi studi tuoi, né l’arti belle.
O di matrona or sei fatta bordello#17.
Il vetusto valor non è ancor morto
in te, egli è ver; né i contrapposti arguti,
né più i freddi concetti or sono in voga,
né più lagrima il ciel, né suda il fuoco.
Già i barbari sofismi#18, i sogni, il nulla
spariro, e l’ombre; e più brillanti, e vaghe
empion gli astri di luce il nostro cielo#19.
Ma ciò che val, se d’acque schife un’alta
piena conturba l’ippocrenio umore#20:
ed il lussereggiar folto di loglio,
il crescer quasi, e i bei germogli opprime#21 (c)
al grano eletto#22: tra i Catulli, e i culti
poch’altri Flacchi un nuvolo s’addensa
d’Aquinii, e Cesii#23, e di Natura i pochi
interpreti da lunge un nembo segue
di ignoranti filosofi. Tra questi,
altri la notte, e il dì pende dal volto
di vezzosa fantoccia: ed altri lunghi
portici spazia, e le novelle aspetta,
che il fangoso corrier porta di Francia.#24
O di Flacco nudrice, e di Varron
te fortunata allor, quando i costumi
le sacre leggi, e la favella, e l’arti
davi alle genti in Campidoglio assisa#25!
E quando ai tempi di Leone#26, illustri
cento sursero a te, fabbri d’onore,
e allor che Galileo l’occhio novello
dalle torri sublimi al cielo rivolse#27.
Ma or ben difforme, ed infelice, e solo
quasi di secchi allori ombrata il crine!
[variante I] [...] allori ombrata il crine#28.
E l’arti belle utile parte anch’esse
dell’italo valor spirto gentile
al suol le vedi, e con lor duolo, or forza
di risorger più belle, invan bramose.
Dov’è un Micheli, un Pergolesi, un Vinci#29
il Vinci tuo, onde in sì dolce trono,
tra i dorici strumenti in su le scene#30
sciogliean la voce i gioielli al canto?
E chi un Giulio#31, e un Giorgione, e il delicato
pennelleggiar di Raffaelo immita?
[variante Ia] [...] di Raffaello immita#32.
O Italia mia, con tuo rossore or mira
che Terpsicore in uom l’orme cercando
del tuo prisco valor, supera i monti
lieta volando oltre le nevi alpine,
ove, di liscio marinesco il viso
non sformata la musica, ma è in bello
natio sembiante, l’armonia divina
di Hasse risuona sotto all’agil dito#33.
[ripresa variante I] E a te sì caro un tempo, estrania terra
or tiene, e nutre, ove alti gran poter
l’altro soltanto, che più largo al cielo
piacque sparger tra noi che in ogni etade
a’ Scipi, ai Malburughi ornò la chioma#34.
Un saggio re vedi in Berlino al trono
chiamar Minerva, e Euterpe, e all’arti belle#35
porger la mano, ed a colei che un tempo
in Padova, e in Oxford sedea romita#36.
E più là sotto il Polo, a cui dispensa
tra gli aspri geli avar luce il Sole,
al voler d’un eroe sorta da un fondo
stagno pescoso una città reina:
culta d’ogni saper ricca d’ogni arte.
[variante II] [...] ricca d’ogni arte#37,
Ma se Augusti novelli, e Mecenati
sorgessero tra noi, e di nuovi fiori
li vestiria la terra, e al Lazio suolo
di bei nomi, e d’eroi già lieto un tempo
tornar vedriansi di Pericle i giorni,
e Minerva ai sacri ingegni#38.
E di gloria apririen frondose piante
gli occulti di virtù semi, ch’or l’ozio
e il vile torpor lascian marcire#39
ben tu, spirto gentile, avventuroso,
che l’augusta tua donna, a cui d’interno
siede Urania, e di Minerva assise in trono
te spira, e bea, e a te le varie in lei
di Tito, di Traian virtù presenta#40,
al dolce canto tuo nobile segno.
(a) et mihi res, non me rebus submittere conor. Horat. epistol. 1.
(b) et in versu faciendo saepe caput scaberet, et vivos roderet unges. Hor. sat. 10 lib. 1.
(c) segetem densis obducunt sentibus herbae. Virg. georg. l. 2
Epistola ad Eustachio Manfredi: «Tutti ha spuntati al rio malor gli strali» (ivi, p. 26).
Epistola a M.: «Degli erranti fantasmi ordinatrice» (ivi, p. 18).
In glossa Rovatti cita Hor. epist. 1, 1, 19 («et mihi res, non me rebus subiungere conor»).
Convenzionale rinvio a Purg. VI 76.
In glossa Verg. georg. 2, 1, 411.
Epistola a Gorani: «Dopo i tempi felici di Leone» (ivi, p. 55).
Questa variante è nella c. 371r.