Al signor Abate Metastasio a Vienna
Pensato a 30 gennaio 68, cominciato a 1° febbraio
Certo a me non potea, spirto gentile#1,
sorgere in cuor più bel piacere allora,
che si svolse in mio sen quel dolce amore,
che per te nel mio petto infuse Apollo,
e in te fissai lo sguardo, e te conobbi:
e quando allor, che il nettar dolce, e puro
bere potei al tuo bel fonte elletto,
che da ricca a noi scende argentea vena,
e l’italico suol bagna, e ristora.
Tu da verd’anni tuoi franco potesti
l’arduo sentier, col nobile tuo volo,
seguire di colui, che all’Adria in seno,
d’ingegno, e di saper colma la mente,
e in mezzo ai numi, ed agli eroi sbandìo
le larve, i sali, i detti arguti; e in essi
vide il suo Galileo#2 l’ausonia scena.
Se non che già crebbero in lui più bello
decoro, maestà, non finti vezzi
pei sonanti tuoi modi, e il mondo vede
per te surta fra noi l’età dell’oro.
Non più in viso deforme, e incolta il crine,
ma renduta ad onore, e in lungo manto
ed in aureo coturno a te dall’alto
Melpomene#3 sorride, e lieta plaude,
qual dall’aurata sua magion celeste
a Newtono fa plauso Urania bella.
Con la colma tua tazza, a cui l’intorno
soave licor cosparse Apollo#4,
cui l’aureo Campidoglio a te scolpìo,
ora dall’Istro#5 ne intingi i nostri labri
di eterna ambrosia, e ne sattolli il petto.
Tu dell’italo onor custode, erede
silenzio imponi a#6 chi non d’Arno, o Tebro,
ma del Sequana#7 in riva alza la voce,
giudice ingiusto incontro a Italia, e sclama
quasi un terzo Caton dal ciel caduto (a)#8.
Del culto Flacco in sulla dotta lira
te canta Apollo, e le faville, e l’ampia
tua ricca vena ai dì venturi adombra (b).
Chi sì barbaro cuore in petto asconde,
che la patria non ami, e i tronchi, i sassi
del Temistocle tuo, o nol compunga
suo cuor, sua fede allor, che della tomba
prende il cammino in sua virtù sicuro,
e l’amor della patria ai figli insegna#9?
Pur che non può dell’uomo ai danni intesa
cieca invidia nel petto de’ mortali,
cui manca ai membri eletto succo, e priva
di sangue nutritor l’etiche vene?
Zannii incontro a te surgon talora,
che d’invidia, e livor rodonsi il cuore.
Ma te felice, che il reo mostro infame
in te vede virtù d’invidia degna,
e d’eletto saper pascer tua mente.
Il redivivo mostro il dente volge
non a colui che non riempie, e bea
di suo nome, e valor la terra, e il mondo;
ma a chi solo tra noi giammai non muore.
Qui fu talun, cui sebben >non< più i vezzi
di fanciulla dipinta, e il riso a cuore,
pur di Petrarca in mille guise è intento
i dolci versi, ed i caldi sospiri
a sformar, ricantando in stil noioso
cose che i buon cantor muovono a riso,
e di Parnaso omai sfrondan gli allori:
e più sovvente con lo stile, e il metro,
opponendo gli estinti, a quanti in terra
vivon cigni canori incontro è volto:
e a qual più dolce erge su gli altri il canto,
lo stral più avventa, e n’ha più sdegno in cuore.
Tu, signor, perché dotto, all’empia via
sei confine sovvente. Acceso il petto
ei d’invidia, e di sdegno a campo uscire
contro te il vidi con volume in mano,
che Megera dettogli, ed ei lo scrisse
nemico al tuo valor. Vidi, e non tacqui
vendicator del nome tuo, ma vano
fu il mio parlar, che sol dispregio, ed onta
merta colui che la ragion nol guida,
e nel buio sentier franco si avvolge
di selva fonda e nega il nume al sole.
D’arti, e frodi pasciuto ei l’altro ingegno,
di fantasmi, e di sogni in un confusi
con impronto garrir empì le carte.
O scimia d’Aristarco#10, o sciocco, o vano
censor maligno, con il reo veneno
del livido tuo labro or alto forse
dispieghi, ed ergi sovra ogn’altro il volo
mercé un vile di te traffico, e merco,
che l’artefice, e l’arte disonora?
Credi tu forse, o testa frale, e indegna
d’esser nata tra noi, che ascolti, e adori
il tuo parlar la Terra, e teco omai
tutto s’allegri il ciel? Ma tu balordo,
sbadigli intanto, e non intendi il vero,
e non curi il mio dir. Le nebbie impure
alza pur quanto vuoi da infetti stagni,
ché ad oscurar dell’aureo sole i raggi
fia vana sempre, e inutile fatica.
Miri intanto costui di bocca in bocca
te volar vincitore, a te far plauso
Tebro, Dannubio, e l’argenteo Tamigi,
e là insino cantar tuoi modi ascolti,
dove surse un eroe, che audace, e saggio
all’industria, al sapere, all’arti belle
stese la mano, e in riva all’ampio Neva
fa salir Petroburgo al ciel più bello#11.
Te le foreste suonano, e le rupi,
ed ogni lingua un dolce canto snoda
del tuo nome ripieno, e sei ben degno,
che a dir di te surga un novel Plutarco.
Già del tempo maggiore, e dell’oblio
pel spianato cammin te in bel decoro,
vegga di eternità poggiare al tempio,
e d’Ausonia i sentier segnar di luce:
mentr’egli oppresso dal ferreo sonno
il suo nome sarà spento e con lui,
o vivrà sol, qual tra noi vive, e splende,
di Cefiso il tiranno#12, ed ei, che in fumo,
e in faville rivolse il tempio d’oro#13.
Al Signor Abate Metastasio a Vienna (in fine di una lettera in versi sciolti)
Non vorrei che vi scandalizzaste di me, avendo declamato nell’epistola in versi, se non in tono terribile almeno con qualche forza contro al galantuomo nemico al vostro nome, ed al vostro valore. Per mia giustificazione vi dirò due cose. La prima, che se un giorno usciranno le mie epistole in versi, egli non sarà punto riconoscibile, non dirò dagli altri, ma neppur da se stesso, avendo con artificio dato un aspetto in qualche modo differente a quel suo traffico indegno che tanto disonora l’artefice, e l’arte. L’altra cosa è che quei titoli, con cui l’onoro, sono effetto di quell’amor sincero che ho per voi, non di sdegno, e di odio, che io abbia con lui, amando tutti, come me stesso, e per tutti darei il sangue, e la vita come dee farsi da chi professa la vera fede. Da voi savio, e discreto mi prometto di sfuggir quella taccia che io non merito, ma che sarebbe difficilissimo di evitare con chi pensa audacemente sull’altrui intenzioni.
Mille ringraziamenti a precipizio del parer vostro sulla mia Festa. Sempre più vi conosco per quell’amico sincero, ed amabile, che vi siete dichiarato, ben lungi dall’imitare la turba communissima de’ lusinghieri, che con una barbara adulazione, o per un timore inopportuno contribuiscono alle giuste critiche, ed ai risi obliqui di una Nazione sull’opera di un amico tradito. Non potrò mai lodarvi, e ringraziarvi abbastanza di così ingenuo, ed amichevol candore#14. Se manderovela un’altra volta, spero che voi la riceverete in altra guisa.
Con la spedizione del mio picciol poema delle fontane avrete nel tempo stesso l’epistola che vi mandai dalla villa il passato agosto, rabbellita, e più connessa.
Ho moltissime cose da scrivervi, ma allora in un fascio tutto riceverete#15. Vi avviso intanto presentemente, perché possiate armarvi di una costantissima tolleranza per sofferirle. Addio. Conservatevi, amatemi, e non cessate di credermi che io giammai non cesserò di protestarmi il vostro ecc.
Modena 25. febraio 1768.
Musa della tragedia e, per estensione, del melodramma insieme a Euterpe, musa della poesia lirica.
Lo zar Pietro il Grande, fondatore di Pietroburgo sul delta della Neva nel 1703.
Ercole, che secondo Pausania deviò il corso del fiume Cefiso inondando la pianura di Orcomeno.
Probabilmente Rovatti allude a Erostrato, che in cerca di fama bruciò il tempio di Artemide a Efeso.
«Ingenuità» e «candore» sono qualità che Rovatti loda spesso anche in Antonio Vallisneri.
Primo accenno alle due lunghe lettere inviate a M. nell’estate del 1768.