Amico Carissimo

Di villa 29. luglio 1768.

Dal garbatissimo signor segretario Brandoli#1 ho ricevuto i vostri saluti, de’ quali io vi rendo giusti, e dovuti ringraziamenti accompagnati da quella riconoscenza che ben merita la sincerità della vostra amicizia. Gli ho ricevuti sedendo al mio tavolino, ed attorniato da un numero non molto picciolo della famiglia insettile, che meco abita, e sempre viaggia con me dalla villa in città, vale a dire con tutta quella più magnifica e grandiosa solennità, onde si potean ricevere da un naturale filosofo, che salvatico, sempre solo, e diviso dal rimanente dell’umanità studia soltanto gli autori, e la Natura, e si appaga di quei lampi che van folgorando, del vero, sdegnoso. Si vive sempre tra le oscure tenebre dell’ignoranza, che regna principalmente in que’ luoghi, e fra quelle persone, che dalla comune degli uomini sono stimate attissime ad avvivare gli ingegni, ed arrichire la mente di vezzosissime, e spiritosissime idee. Mi giunsero ancora nell’atto appunto che inferociva con nuovo assalto la febre: ma non potevano arrivar più opportuni, essendo questi stati per avventura un potentissimo farmaco contro il velen febrile, che sterminollo allora che sprigionato, ed uscito dalla sua da tana, e da suoi più reconditi nascondigli era inteso ad offendere, non a schermirsi da quegli effluvi usciti dalla sfera novella per me d’attrazione, per esso di ripulsione, che ad esso pure furono senza dubbio fatali. Ma voi stanco sarete di questo giuoco, ed è pur stanca la rigida filosofia che con volto mi guarda tutto spirante un’austera severità. Novellamente adunque io vi ringrazio, e mi congratulo meco stesso di avere trovato in voi un amico sì caro, sì amabile, e di me ricordevole.
          Non so se abbiate ancora ricevuto il mio poema sulle fontane. Comunque vadi la cosa, vi mando in un foglio a parte alcune leggerissime mutazioni, altre utili, altre necessarie, che incontrarete, leggendolo, con il poema, se non l’avete per avventura ancora letto.
          In questa lettera destinata non poco lunga, vi ho da communicare due cose lasciate nell’ultima lunga anch’essa: una per inavvertenza, l’altra per non stancarvi di troppo, e prolungarvi la stanchezza ad altra volta, ch’è la presente, dopo un breve riposo.
          Per ciò che spetta alla prima, vi dirò la nuova mia giustificazione, che non troppo veridicamente pensate a credere che la mia Musa irritata dall’amicizia#2 non sia castigata bastevolmente che non vi rimangano le tracce dell’esaltato irascibile. Altro è l’essere, dirò così per spiegarmi, costretto a dir cose che da un animo incollerito, e perverso derivano; altro a volerle dire a sangue freddo per nerbo della poesia (giacché il galantuomo non è punto riconoscibile), e per non cantar freddamente, e con rozza semplicità, che costui non conosce il vero dal falso, la Luna prende pel Sole. Credete sinceramente alle mie parole, e siate certo che non solamente non seguita a mantenersi in fermentazion la mia bile, ma non vi è stata giammai, dipendendo il tutto dalla libera volontà non irritata, non lusingata, e delusa dall’intelletto, ma, dirò così, dolcemente, e senza maschera, e senza nebbia di sdegno in volta stimolata ad acconsentire a volerlo fare, non conoscendovi ombra neppure minima di lieve colpa.
          L’altra cosa che debbo communicarvi, è il disegno di un’opera utilissima, e degna di un cristiano filosofo, che medito di stendere dopo aver compiuto il numero de’ sacri poemetti ad onore della Madonna, di cui ho fatto con voi parola nell’ultima mia lettera a voi diretta. Opera che medito con gran piacere, perché in essa hanno gran parte gl’insetti (e neppur mi divide il restante dalla storia della Natura), e perché avrò campo di lodar Dio, e di cavare utile immediato da’ miei studi.
          È questa una viva dimostrazione della progressione, e mirabilissimo annodamento, onde tra loro scambievolmente sono connesso, ed unite insieme le cose create.
          L’anno scorso#3 vi scrissi che volgea di fare un supplemento al Saggio di storia medica, e naturale del nostro immortal Vallisneri, e premettervi un trattato, mostrando in esso questa connessione#4, e nodo meraviglioso, che le cose create annoda, e fa sì che da un regno con un gran salto non si balzi ad un altro. Il supplemento va avanti con lentezza, però va avanti. Ma ho cambiato idea (per averla ampliata) per il trattato preliminare. La materia, ond’esserne dovea costrutto, è, come vedete, la presente, da cui debbo cavar l’opera di cui ragiono: e perciò tal materia in esso trattato non ha più luogo: e farò solo al Saggio ecc. una picciola prefazione. Ho ampliato, dissi, l’idea, dovendo essere assai più lungo quest’opera che non saria stata la prefazione, o trattato al saggio medico, e naturale. Vi dirò pure, per comunicarvi candidamente, e con schiettezza i miei pensieri, che non sarà sì grandiosa, come la meditava, quando mi venne talento, che più non servisse per prefazione al saggio ecc., ma fosse opera solamente da sé; per essermi messo totalmente nella provincia naturale dei soli insetti, e per i grandi intralciamenti facilissimi ad incontrarsi da un talento se debole, come il mio, e in una età, in cui non vedesi la Natura per anco in quel suo vero lume, ch’è in gran parte a noi ignoto, e non offuscato da niuna tenebre per condur l’opera, grandissimamente trattata, a perfezione. Un uomo solo non può vedere tutto nel gran volume della Natura, tanto meno replicare le osservazioni, e le esperienze#5 per non restare ingannato, e per non ingannare; né tutti quanti, o gran parte almeno dei naturalisti sono sì schietti, alla cui fede si possa abbandonare senz’ombra minima minima di sospetto. Il mondo è ancor giovine per questa parte. Le favole immaginate dalla superba antichità, che su tutto volea decidere a forza dell’intelletto, non della mano, e dell’occhio, ed a noi tramandate, fatte maggiori dell’obblio, e del tempo, a costo del nostro danno, sono troppo in gran numero; e quel ch’è peggio, credute, ed approvate da molti del passato secolo, e da alcuni, lo dico con gran rossore, ancor del nostro; ma da gente insieme che hanno veduti lampi del vero, e le cui opere, stanti le presenti constituzioni, non sono da rigettarsi del tutto: onde per trovare in esse una sola verità si leggono negli autori pur troppo moltissime solenni favole con enorme perdimento di tempo; e con la tema di restarne preso, e ingannato. Vi vorrebbero mille Swammerdam#6, e Vallisneri uomini veramente infaticabili, che campassero tre, o quattro secoli; si spargessero per tutta la terra, si dividessero le provincie, e le suddivisioni delle provincie della Natura, fossero robustissimi, e salvatici filosofanti, favoriti amplamente da principi mecenati, compilassero la storia naturale del mondo, e con l’accompagnamento di lieti viva, e di giubilo di tutta la terra s’incendiassero tutti i contaminati volumi o molto, o poco degli autori passati, né più restasse memoria delle immaginate lor fole. Ma veniamo all’opera.
          Io comincio col mio per altro debolissimo intendimento a conoscere nella Natura un non so che di grandioso, di armonico, di ammirabile, di maestoso, e un nulla d’inutile, che ad evidenza dimostra, oltre le testimonianze irrefragabili delle Scritture, dei Padri, e della Chiesa, custode non meno delle Scritture stesse, che de’ lor sensi, ed oltre la metafisica, che l’intelletto persuade sino a un dolce costringimento, che ad evidenza, dissi, dimostra, la mole dell’Universo, e segnatamente questa nostra Terra essere non opera del cieco Caso, ma uscita veracemente da quella mano che tutto può, e con arte inimitabile sa reggere i tuoni, e le tempeste: ed avervi Iddio, quando creolla, trasfuso un lampo di unità, per cui sono tra lor connessi (ora prescindo dal restante dell’Universo) i tre gran regni della Natura: il minerale, il vegetabile, ed animale. Vedrete in queste pochissime mie parole, come insensibilmente e per gradi si passi senz’alcun balzo dalla pura, e, dirò così, terra vergine, cosa la più semplice, e men complicata di tutte, all’Uomo, macchina la più mirabile, e nobile fra quanti appariscono nell’immenso, e grandioso teatro dell’Universo: opera meravigliosa, e che oltre il poter sovrano dimostra a chiare note la sapienza, e mill’altri attributi del sommo Artefice. Io vi darò così, in generale alcune notizie, e seguitando io, come è dovere e come io mi son proposto di fare, gli ordini prescritti dal gran Vallisneri, seguitando esso quegli della Natura, voi facilmente conoscerete qual sarà l’ordine del mio libro. Altre notizie voi avrete frattanto, più generale, e che generalmente all’istesso modo saran gettate nella mia opera, non volendovi, né potendovi porre estesamente il possibile, per le ragioni addotte, e per altre simili che sentirete in appresso.
          In primo luogo adunque è da considerarsi la pura, e vergine, terra, o primigenia, come alcuni la chiamano, ed indi insensibilmente, e per gradi le altre terre tutte che seguono, semplici, e meno semplici, men colorate, e più colorate, minerali, e non minerali. In queste terre entrano tutte le argille, le marghe, le tripole, le crete, i fanghi, i lezzi, le terre sterili, e meno sterili, le dure, e più o meno lubriche, e quante se ne ritrovano su i colli, sulle montagne, nelle pianure, nelle valli, sotto l’acque, e lontano a queste, e dentro, e fuori del grembo della terra, e quante ne mostra in ogni luogo il volume amplissimo della gran Madre#7. In questa serie hanno luogo le terre bibaci, ma l’hanno nell’ultimo, accostandosi queste all’arena, siccome mostra il giudice più sicuro, il microscopio. Indi seguono le diverse arene visibili, che anch’esse vogliono il luogo loro distinto, avuto riguardo alla qualità, al colore, al peso, e alla figura. Dopo queste seguono i sassi, e le pietre maggiori, e i marmi secondo la loro durezza e colore. Si accompagnano a questa serie le selci, le pietre calcarie, le stalactiti, i tufi, le pietre calaminari, le comensi, le frigie, le pomici, l’ammirabile calamita, che secondo l’Halley#8 occupa il centro terrestre. Indi vendono i semiminerali, e i minerali, i sughi agri, e pingui terrestri, i sali, come i nitri, gli allumi, i vitrioli, i sali marini, e non marini, e gli altri, che chiamansi subalterni: e tutti secondo la loro classe, venendo dal meno al più figurato, dal men nobile al più nobile. Fra i corpi figurati si annoveran da molti che trattano di tali materie ne’ loro scritti, le pietre specolari, gli ammianti, i talchi, i gessi, le belemniti, i bassalti, i crisoliti, ecc., alle quali le altre seguono che dagli uomini più si hanno in pregio, e sono il fomento, e l’anima, dirò così, delle pompe, e del lusso: cioè le diverse spezie, e generi di cristalli, le granate, i rubini, i diamanti, gli ametisti, gli smeraldi, a quali si possono aggiugnere, benché di minor pregio le corniole, le agate, le turchine, gli jaspi, le nefritici, e le altre gemme, e pietre, che hanno figura apparente, e percettibile dall’occhio umano, senza l’aiuto del microscopio.
          Sin qui vedete che non siamo usciti dal regno minerale che in 3 gran provincie dividesi, cioè in quelle delle terre, de’ metalli, e delle pietre. Da questa si passa al secondo più nobile del primo, ma meno nobile del terzo, vale a dire al vegetabile. Se la Natura o per dir meglio se Dio non avesse connesse, ed unite tra loro le cose create, voi osservate che immenso balzo sarebbe questo, uscendo da’ corpi non animati, e non prolifici co’ senni, ed entrando in un altro qual è il vegetabile animato, benché di anima non sensitiva, siccome alcuni malamente credettero, e riparatore dell’annichilamento della sua spezie, mediante i semi, onde la stirpe propagasi di padre in figliuolo, e così di mano in mano è succeduto dal primo volgere dell’umane cose, e accaderà in tal guisa sino al totale disfacimento della gran machina.
L’anello che tien salda, e connette la gran catena, sono le petrose piante del mare, che si frappongono alle pietre, e ai vegetabili, e la catena rendono successiva, e non interrotta.
          È questione indecisa per anco tra i botanici se il nobilissimo genere de’ coralli sieno pietre ovvero piante#9. Ma non importa. Le loro liti servono a rendere veridicamente incontrastabile la connessione dei tre gran regni, e a dimostrare la succession progressiva, e non interrotta del meraviglioso annodamento. 
          La durezza di questi che io ora chiamo col solo titolo di marittimi producimenti, il peso, la lor sostanza, e la maniera di assorbire l’eletto patrizio sugo non per mezzo delle radici, ma per opera di laterali pori, ben mostra attennersi questi alle pietre, ma l’artifiziosa struttura, la facoltà di cui sono dottati, di un principio sensibilissimo di vegetazione, i numerosi tubercoli ripieni di un glutinoso sugo, i loro fiori, ed i semi che si suppongono esser trovati, mostrano risguardare per questa parte le piante. È adunque patentemente, e a chiusi occhi o una pianta che ha molto di analogia con le pietre, o una pietra che per più capi si accosta a una vegetabile produzione.
          Ragionando di questi vi sono da notare i diversi generi, alcuni de’ quali sono rossi, altri bianchi, altri neri, e quali più, quali meno, altri pallidi, altri lionati, altri scuri; vi sono i più, i meno duri, i più, i meno ramosi, e i più, e i meno accostantisi alla legnosa sostanza, quali sono i coralloidi. Altri marini producimenti si trovano, che tutti vogliono il loro nicchio addattato, quali sono le millepore, le madrepore, i pori cervini, le retepore, le tubularie, le cerebiti#10 e tante, e tanti altri, che troppo lungo sarebbe, e non materia di una sola lettera ad annoverare. Da queste vuol l’ordine della connessione che si passi alle vere, non contrastate piante marine di sostanza tenera, le quali pur vanno di spezie in spezie intenerendo, serbando un ordine progressivo di connessione, non solo generale, ma ancora particulare.
          Indi passare all’altre acquatiche, ma non di mare, bensì palustri. Dipoi a quelle di terra; alle pratensi, alle campestri, e montane colle dovute divisioni de’ generi, e delle spezie. Questo popolo informato da un’anima solamente vegetativa, non sensitiva, come volle favolosamente mostrare il Redi (sbanditore per altro di moltissime menzognere naturali istorie e dei nascimenti spontanei) nell’ardito, e politissimo suo trattato sopra la Generazione degl’insetti, per riconoscere da quest’anima non solamente secondo lui vegetativa, i vermi delle frutta, le mosche, e i moscherini delle gallozzole delle quercie#11; questo popolo, dico, animato, ma non sensibile, è giunto a un numero sì sterminato nella cognizion de’ botanici, che fa spavento. Ai tempi di Teofrasto#12 solamente 600 piante eran note, e monsù Scherard#13 sino del 1719 disse che sperava dover essere il suo catalogo ricco di dieci, e nove mila piante in circa. Quanta non è già stata la diligenza degli accorti moderni su tale affare? E quanto non vi hanno affaticato il Mattioli#14, il Colonna#15, il Buahain#16, il Vaillant#17, il Tournefort#18, che il viaggio di levante intraprese, il Boerhaave#19, il Buxbau#20, il Comeli#21, e tant’altri, fra quali il Weinmanno, che stampò una botanica in foglio con i savi rami guerniti di naturali colori, che ha per titolo Phytantozoiconographia, nome da fare veramente spiritare i cani#22? Ma andiamo innanzi.
          Dalle piante non si fa uno sbalzo enorme agli animali. Anche qui Iddio ha voluto porvi un mezzo, che partecipa in qualche modo e dell’uno, e dell’altro, che serve di anello alla prodigiosa, ed evidente catena. I piantanimali, o zoofiti, hanno qui il loro luogo addattato per riempire il campo vuoto che posto non darsi la connessione di cui parliamo, saria pur grande, e tanto, quanto è grande la differenza di un corpo puramente organico da un altro organico anch’esso, più complicato, se movente, e di sentimenti dottato per l’informazione di una sostanza spirituale. Nega il Lemery darsi veri zoofiti#23: o sono vere piante, egli dice, o veri animali. Ma quanto vadi errato il Lemery, non si dà chi l’ignori#24. Per zoofito non s’intende una macchina che partecipa egualmente dell’animale, e della pianta; non sia questa, né quella, e nel tempo medesimo sia l’uno, e l’altro. Se in tal modo si ragionasse, avrebbe ragione il sig. Lemery, ma non si ragiona in tal modo. Per nome di zoofito null’altro intendo se non qualche pianta (se pur ne si ha) che abbia alcun animale proprietà, o qualch’animale, che in alcun suo costume si rassomigli alla pianta, o anche a queste si accosti per qualche tessitura men gentile di viscere. Intendendosi così la cosa, il sig. Lemery non può negarlo, e questo basta per noi, ed è sufficientissimo al nostro intento.
          Per proseguire con ordine, a me sembra che debbasi cominciare la storica narrazione de’ zoofiti dalle piante che hanno proprietà d’animali, e dippoi dagli animali che hanno costumi, e proprietà delle piante: e non già prima da questi, e poi seguire la narrazione da quelle; quando tra le piante zoofiti si diano.
          Quivi si debbon porre il genere dell’erbe che si chiamano sensitive. Vero è che non si dipende da senso, ma da un solo mechanismo delle parti, irritate per avventura le fibre dagli effluvi che scappano dal continuo dalla mano di chi le tocca. Ma questa sola apparente proprietà di sensazione è bastevole a parer mio per potersi riporre tra zoofiti il genere di queste erbe, e se fra questi non si vuol porre, può servire di introduzione per ragionarne: dovendosi porre solamente per certo il certo, e non già combattuto così chiedendo il rigor filosofico.
          O lasciato, o posto tra zoofiti questo genere d’erbe chiamate col vocabolo di sensitive che adesso io non decido, maggior lume aspettando, passiamo ai veri piantanimali, de’ quali ve n’ha di spezie moltissime e in terra, e in mare. Altri si muovono, altri stanno mai sempre fermi, ed immobili, e questi più dei primi si accostano al genere delle piante, particolarmente se hanno qualche configurazione, e similitudine con queste, come le stelle arboree, e le spume ramose.
          A queste quelle spugne succedono di più maniere, colla divisione de’ loro gradi, ponendo prima quelle che più alle piante si accostano, ed indi quelle che più discostansi dalle medesime. A questi rozzi piantanimali succedono gli altri, che quantunque non si muovano da luogo a luogo, ma stiano tenacemente piantati dal loro nascere sino al dileguarsi della lor vita, però discostansi dalle piante per qualche figura di viscere, per organizazione più complicata, e gentile, per un moto di accorciarsi, e distendersi, che li accusa di una vita sensibile. Altri a questi succedono gradatamente che più discostansi dalle piante, e con arte bellissima del sapere, e della potenza del sommo Artefice, degnissimo, ancora per questo capo, di una lode insazievole, più si avvicinano agli animali. Tra questi in primo luogo si presentano quelli che hanno poter di moversi, molti de’ quali hanno insino la bocca, e siccome nota Aristotile nella Storia degli animali, vanno a caccia di pesciolioni. Tra gli zoofiti si contano il satiro marino, nome osto ad una certa curiosa razza di costoro dal Donati nel suo trattato De’ semplici pietre, e pesci marini del lido di Venezia#25 per la sua somiglianza ad una testa di satiro; la mela, la pera, il cocomoro, il fungo, la penna, la lorica, l’uva marina, ed altri, nomi dati a costoro dalla semplice antichità per qualche rozza somiglianza a queste cose; e alcuni persin, da questa furon chiamati impudentemente col titolo di potta, e mentula marina a dispetto delle orecchie più caste.
          Agli zoofiti succede il vasto genere di certi crostacei che stanno sempre attaccati agli scogli, ed ai legni, ed essendo da se stessi prolifici senza il concorso del maschio fecondatore, si chiamano ermafroditi, come l’ostriche, ed altri armati di croste, di buccie, e di scorze durissime. Altri crostacei anch’essi ermafroditi si trovano, ma che si accostano più agli animali, movendosi con moto progressivo, e vagante, ma che partecipano nel tempo stesso della pianta, non unendo maschio, e femmina alla grand’opera, e per una rozza struttura di parti, però men rozza, più gentile, e distinta dai vari piantanimali memorati di sopra.
          Dippoi pretendono dopo questi la loro nicchia altri zoofiti, che allignano sulle piante, che sono, a vederli, animali verissimi, ma da sé si fecondano, e poco dopo il loro sviluppamento, più non si movono, e si rimangon piantati, e fermi nel sito da essi scelto, terminato il loro giro. Di tal natura sono la nobilissima grana Kermes#26, le cimici degli agrumi, la grana dell’elice, che alligna nelle campagne di Livorno, come scrive al sig. Vallisneri il generoso, e fedele suo amico il sig. Cestoni#27, dalle quali non scappa alcun volante, ma uscendo di sotto il ventre della propria madre un numero innumerabile di minutissimi animaletti guerniti di due antenne sul capo, e di sei piedi, camminano questi per pochi giorni su, e giù pei rami della pianta, su cui albergano, e dopo questi si fermano terminate le loro peregrinazioni, e si piantano fra le vaghe sottilissime, e fra i solchi della scorza esteriore degli elici stessi, ed insensibilmente crescendo, perdono a poco a poco la figura animale, ed infine diventano come un globetto, o a guisa di una picciola gallozzolina, e divenuti simili alla madre, più non si chiamano animali (quantunque animali siano) ma grane, che a tempo destinato si trovano piene zeppe di minute uova, per ischiudersi in tanti animaletti simili alla lor genitrice, quand’era nella sua infanzia, e così rinnovare la successione, e mantenerla sino al totale disfacimento dell’universo. Somiglianti a questi sono l’ignobil plebe de’ pidocchi de’ fichi, che infestano i rami più teneri de’ medesimi; i quali cresciuti anch’essi alla destinata grandezza loro, tutti quanti si veggono ripieni d’uova, che contengono un umor sanguigno, e dopo 15 o 20 giorni si sviluppano, indi pasteggiano, si fermano, crescono, diventano simili a quelli, da cui si svolsero, ed esercitano le loro funzioni, cioè di schiudere a dovuto tempo altr’uova per mantener sempre viva la loro spezie.
          Dopo questi ordin vuole che abbiano la loro nicchia altri animali, che sono veri animali, ma pure al genere sono ascritti degli ermafroditi, come i lumaconi ignudi, che rovesciano i loro membri fuori dal corpo, e gli avviticchiano insieme, e si fecondano senza intruderli nelle naturali vagine; e gli altri, che dentro il loro corpo hanno le parti e del maschio, e della femmina, come vi ho scritto in altra lettera; gli ultimi de’ quali sono simili ai vegetabili per essere forniti d’amendue gli ordigni, ma più si accostano agli animali per l’intrusione dell’armi generatrici. E qui riflettete che le cose che si frapongono ai tre gran regni, e che insieme li legano, come anch’esse sono legate tra loro, e per grandi si avvanzano sino a rassomigliarsi moltissimo a quel regno che lor vien dietro.
          Dopo il genere, e le spezie diverse dei zoofiti ecco omai giunti al regno degli animali; regno non meno degno d’ammirazione pei nobilissimi suoi natali, quanto stimabile per l’ampia immensità, trovandosene immense turbe nell’aria, nella terra, e nell’acqua, e in tutti, o in quasi tutti i corpi organici, ed inorganici, che si veggono in terra.
          L’ordine della catena più sempre ammirabile (quanto più mirasi), e prodigiosissima vuole che prima si osservin gli insetti, dippoi li muti abitatori dell’infido elemento, come chiamaronli i poeti#28, indi i volatili, e finalmente i quadrupedi: i quali tutti, benché il corpo si varii, di andamenti, e costumi così diversi, pure sono connessi tra loro con mirabili nodi della gran catena.
          Il genere generalissimo dei soli insetti è sterminatamente sì vasto che a descriverli tutti, ed ordinarli, non che a scoprire cogli occhi proprii le origini, gli sviluppi, ed i loro più minuti costumi e andarne in traccia là, dove allignano, e prolificano, e consumano il tempo del viver loro, non basterebbe l’intera età di un uomo, quando l’umanità non continuasse a godere que’ privilegi che godevano al tempo antico i patriarchi dell’uman genere.
          Se volgiamo il pensiero ai bruti, noi vedremo che questi albergano solo in terra; se agli uccelli, li troveremo soltanto volar per l’aria; e vediamo i pesci essere solo abitatori dell’acque. Ma gl’insetti tutta quanta occupano la Natura. Con gran stupore di noi, e con un ordin di essi che pare tanto disordinato, ma che ha un grande, e un non so che di maraviglioso, e sublime, che sempre più mostra ad evidenza a chi mira dappresso le leggi, e gli arcani della Natura, la sapienza, e il gran potere del saggissimo, immenso, e potentissimo Creatore, noi vediamo che questi si trovano in copia grande e nell’aria, e nella terra, e nell’acqua, e un altro numero innumerabile negli abitatori dell’acqua, della terra, e dell’aria. È questo un intralciato, e selvosissimo labirinto, da cui, come dissi, un uomo solo forse, e sanza forse non uscirebbe, per la grande ampiezza, posti anco i lumi sovrani, ed i sentieri spianati da dotti uomini che lo guidassero.
          Tollerate che io vadi avanti, e insieme abbiate la tolleranza di legger cose che io vi communico per mio piacere; ma cose che saran note per avventura a voi stesso, che, quantunque di professione poeta, pure accoppiate alla poesia contro l’uso de’ magri, ed ignoranti poetini del nostro secolo una incredibile erudizione in ogni genere di maestosa, dilettevole, ed amena letteratura.
          Si attaccan gli insetti al nodo ermafroditico che congiunge la gran catena, perché sembra che la Natura abbia in essi adombrato ogni altro genere di animali d’aria, d’acqua, e di terra. Questi occupando, come abbiamo detto tutti quanti i regni amplissimi della gran madre, han dapertutto viventi che si accostano agli animali perfetti di quel regno che immitano, mostrandone ognuno una viva, e non rozza, e deforme immagine. Come gli uccelli alcuni volano, cittadini del cielo, e dell’aria, e guerniti sono, e adornati di bellissime piume: ed altri a guisa pur degli uccelli fabricano i nidi per l’amata lor prole, di terra, di fuscelletti, di fili, di piume, di minuzzoli di legni, di mucellagini, e simili. Altri ancora si cibano, come gli uccelli, di grane, altri di frutta, altri di erbe, altri carnivori si pascolano di carni morte, e vive, ed altri tiranni delle altrui vite, ne vanno a caccia con ingordigia, con forza, ed astuzie, vivendo delle rapacissime lor rapine.
          Se volessi qui tutti annoverare i pascoli degli insetti a me noti, non ne uscirei così presto. Solo quelli che si cibano delle piante, spaventano un uomo. Nelle sole rose salvatiche, ed ortensi bianche, e purpuree ne si ha una schiera non tanto picciola, e che merita una minuta osservazione degli storici naturali. 
          Vivono alcuni rossi vermetti dentro il ramo delle salvatiche, o trivellato, e depositatevi le picciol’uova dalle saggie lor madri, o penetrandovi i nati feti schiusi dalle uova esternamente attaccate al ramo; e questi si cibano della sostanza dell’interno midollo, che ho veduto mancare in essi rami, e questi essere secchi per più, o meno, secondo forse che più, o meno di midollo mancava, dalla parte viziata persino all’estremità, mentre il restante più abbasso è vigoroso e verdissimo, quando altro male non lo guasti, e l’uccida. Altri vermetti si trovano nella parte più liscia, e verde delle foglie, le quali non accartocciate, ma solamente serrate alla lunga, e gonfie, e indurite danno ricettacolo a più spezie di vermicelli che annidano nella formata cavità, essendo le foglie solamente congiunte negli orli suoi, e colà si cibano degli umori per avventura, e gemono dalle boccucce de’ vasi. Altri insetti si veggono in gonfietti di più maniera, altri in spugne, e in ricci, di cui ve ne sono di più spezie. Altri picciolissimi, e quasi invisibili vermicelli dopo schiusi dall’uovo, rodono la prima buccia della fronda, e dimorano tra tunica, e tunica, vivendo della polposa sostanza, e formando straducole, piegandosi, e rivoltandosi, dove loro più aggrada. Molte altre rughe, o false rughe, e vermi indifferentemente divorano tutta la foglia quali in un modo, quali in un altro, toltone la costa di mezzo, e alcune d’esse o sempre, o quando sono nella loro infanzia ne lasciano alcune altre, che dalla costa maggiore immediatamente derivano: una razza però di tali bestioluzze divorano la sola sostanza polposa con le tuniche sovrapposte, e lasciando intatte le grosse, e minime coste formano della foglia una gentilissima rete. Tra i mentovati animaletti che divorano tutta la fronda, sono celebri, e noti a tutti i brucolini, o vermi bruciformi, o per meglio dir false rughe, da cui sviluppasi la galantissima mosca rosisega, la curiosa storia della quale ha scritto il nostro attento, e diligentissimo Vallisneri fortunato#29, e benemerito scopritore della medesima: ed altri infine vivono dentro le boccie de’ fiori de’ rosai, pascolandosi del fiore nascente, e de’ suoi petali, legando prima con seta, che trae dalla propria bocca, le dentate esterne foglie che rinchiudono il calice, ed il globo del fiore, incurvandole e unendole per vivere sicuri dagl’insulti altrui, che sempre non possono fuggire, essendovi una certa mosca chiamata Scorpiuros, che con la sua proboscide lor succhia il sangue, e rode le viscere#30.
          Il mentovato autore ci attesta che nell’albero solo consacrato al padre Giove ha veduto duecento#31, e più spezie di differenti insetti, onde vedete qual ricchezza ella è mai di costoro; che forma un mondo di viventi da sé; e vedete insieme, com’anco per questa sola osservazione cada a terra la pia sentenza di chi voleaci infinocchiare che la tal erba, la tal pianta, e il tale fruttice ha un solo insetto, e non più della medesima infestatore. Una certa razza di bruchi di questa pianta è curiosissima: stanno tutto il giorno come immobili, e fermi nel tronco inferiore dell’albero, in tal modo difendendosi dai raggi del sole, e sulla sera tutti d’accordo s’inerpicano per pascolarsi delle frondi degli alti rami, incamminandovisi ordinatamente in fila, ove dimorano tutta la notte per tornare dippoi al basso la ventura mattina, e fermarsi, e restringersi come in un sozzo nido, lordo di certa polvere che cagiona un pruriginoso pizzicar nelle mani, ed enfiamento nel volto, e negli occhi di chi la tocca, o di chi viene assalito, alzandosi sovvente o per moto dei bruchi, o per vento che spiri: il che tre volte ho saputo a mio costo in questo sol anno.
          Ho detto che molti insetti sono tiranni, divoratori di altri; avendo voluto la Provvidenza che questi vivano a spese altrui, con la legge però che i perseguitati multiplichino in gran numero, perché la spezie non rimanga mai spenta. I civettoni, e i calabroni divorano golosamente le api, cosa notissima anche ai campagnuoli più rozzi, che sovvente sudano per difendere le benemerite fabricatrici dei favi dagli assalitori nemici. Il ragno-locusta, o grillo-centauro, come chiamollo il Cestoni, o locusta insolentis figura, così nominata dall’Aldrovando#32, uccide, e golosamente inghiottisce le altre locuste. Alcuni moscherini forano il ventre nascostamente a silvestri pidocchi, e vi depongono le uova loro, essendo essi gradito pascolo ai teneri feti, che hanno a schiudersi. La rozza plebe di questi pidocchi hanno ancora le formiche, che infestanti, ed io stesso ne ho veduto sulle frondi di pioppo, di persico, della spinosa pianta che produce le more, su i cavoli, e in altre piante, che senza moversi si lasciavan succhiare la lor sostanza dalle formiche che viveano a loro spese. Queste ucciditrici son’anco uccise, vegliando alla lor presa con insidie da insidiatore accortissimo il verme formicaio che formando alcuna picciola buca a guisa d’imbuto, larga nella sommità, e nel fondo ristretta, scavata nella volubile, e secca polvere, forma una trappola alle malaccorte formiche, che nel passarvi sopra, non sostenute dall’arena sbricciolata, e traditrice, precipitano rotolone nella cavernetta, ed azzannate sono prestamente dal verme, aprendo due acutissime, e dentate tenaglie, fatali per esse. Questo verme veramente ingegnoso, e traditore scoperto dal Vallisneri, e da lui chiamato formicario, e dal francese monsieur Poupart formica-leo#33, si sviluppa in una spezie di civettone che serba il genio feroce di uccider viventi, ed allora succhia il sangue a ragnateli, come succhiando alle formiche, quand’era verme, mentr’era in tale stato, non solo formiche azzannava, al dire del Vallisneri#34, e godeva per gradito suo cibo, ma anco allora piccioli ragni, mosche prive dall’ali, bruconi, vermicciuoli, e simili, che per disgrazia incappavano nella caverna loro succhiando, come già dissi, il bianco sangue, e dippoi rigettando fuori gli smunti cadaveri dalla sepolcrale, e polverosa sua buca. Ma anch’esso trova il suo divoratore, ch’è il millepiedi, che gli succhia il solo suo sangue. I ragni medesimamente sono pascolo graditissimo ai vermi delle vespi Ichneumoni#35 (spezie di insetto ancor questo trovato dal diligentissimo Vallisneri nel tempo della sua fresca, e vivida gioventù), le quali fabricano i loro nidi di terra e per ciascuna celletta da 7 in 8 o più ragni, che vanno a predare nei bucherattoli dei muri, ma per lo più nelle siepi, e nei campi, essendo ragni per l’ordinario silvestri, i quali, come dissi, sono il cibo de’ vermi, sino a tanto che divengan crisalide, nel qual tempo non mangiano, ed esca dal chiuso carcere a cercarselo da se stesso lo sviluppato volante. I ragni stessi fabricano le sue tele per prender le mosche e persino sono carnefici della propria spezie, uccidendosi gli uni, e gli altri tra loro, come hanno dimostrato il Reamour#36, e molti altri; le grandi, e verdi locuste serrate in una gabbia del Vallisneri si uccisero fra loro, e mangiaronsi, e così fanno cent’altri. Gli scarabei mangiano i gorgoglioni; e le cimici degli alberi, se crediamo al sig. Lesser#37, succhiano il sangue delle ruche pelose#38, sparse di macchie gialle, che si trovan su i salci nel fine di autunno; e queste cimici stesse, come avverte il sig. Lyonet nelle osservazioni all’opera del Lesser#39, prendono indifferentemente ogni sorta di rughe, e false rughe, e ancor si gettano su farfalle, e le succhiano. I moscherini lupi vivono di picciolissime, e bianche farfalline dei cavoli, scoperte, e descritte prima d’ogn’altro dal sig. Diacinto Cestoni in una lettera diretta al Vallisneri#40; e cui altra razza di moscherini depositano le loro uova nelle grandi farfalle de’ medesimi cavoli, ove i vermetti nascono, crescono, si nudricano, ed escono in fine, s’incrisalidano lavorandosi attorno attorno un picciol follicolo di seta gialla, come ho veduto io stesso: ed un’altra spezie di moscherini uscì il mese scorso da certe uova che mi furon portate, di una farfalla, che le depone sulle foglie della spinosa pianticella che produce le more, essendo state trivellate quest’uova dal moscherino femmina; ivi depositate le sue picciolissime uova; quivi sbucciaronsi i feti, si cibarono dell’embrione nella buccia involto delle uova della farfalla, là entro in quel carcere altrui s’incrisalidarono, e alfine uscirono moscherini simili ai genitori, rotto il bozzolo (se di razza sono che lo facciano), e fatto un foro più grande di quello che fece la loro madre, nella buccia delle uova della farfalla da essi rosa, e mangiate internamente nel loro stato di verme.
          Altri insetti vi sono che ai quadrupedi si avvicinano nel saltellare, nel corre, nello predare, nello sbranare le prede fatte, e nell’allevare amorosamente i loro figliuoli, nel pascer l’erbe, e persino nel ruminare. Non manca alla giurisdizion degl’insetti le volpi, le tigri, gli unicorni, i lupi, i cervi colle corna ramose; non mancano i ricci, e le talpe; certa spezie d’insetto che sta sempre sotterra, e cava cunicoli dannosissimi ai seminati, chiamato talpa da Ferrante Imperato speziale napoletano#41, ed anco noto sotto il nome di zuccaiuola.
          Molti altri acquaiuoli si accostano al genere de’ pesci, non ad essi invidiando il loro modo di respirare, di nuotare nell’acque, nel divorar pesci, ed altri abitatori del liquido elemento, nel partorire le uova lungo le rive de’ fossati, e nel compiere cert’altre operazioni proprie dei veri, e più perfetti albergatori dell’onde.
          Vediamo inoltre i serpenti da terra, e da acqua, i legniperdi acquatici, e di terra, gli scorpioni, i tarli de’ legni, i turbini, le lumache, i millepiedi, ed altri mille e da terra, e da acqua. Anzi Iddio volle formarne degli anfibi, i quali stringono sempre più, ed annodano la prodigiosa catena, quali sono le botte, le salamandre, le rane, certi serpenti, e scarafaggi, e molti altri.
          Altri finalmente vi sono che cominciano il loro viver nell’acque, e poi lo vengono a terminare nella terra, e nell’aria, partecipando come dice al solito leggiadramente il nostro non lodato abbastanza chiarissimo Vallisneri, dirò così nella loro tenera età del beneficio di un elemento, e nella virile, e nella vecchiaia di un altro#42. Di tal costume sono i legniperdi acquaiuoli#43, la storia de’ quali è oltre modo galante, ed amena, e vezzosamente descritta dal Vallisneri sudetto nel secondo dialogo Della curiosa origene, degli sviluppi, e costumi ammirabili di molti insetti#44. Tali pur anco sono certe razze di zanzare, di cantarelle, di scarafaggi, di tafani, di moscherini, di mosconi, e di mosche, facendo a sé medesimi servire più di un solo elemento a dispetto della lor picciolezza, e della breve lor vita.
          Se dopo questi rivolgessimo a la mente, e l’occhio agli tanti ordinari, e straordinari, che conducono, o tutta, o parte (ora intendo de’ straordinari, perché gli ordinari vi vivono sempre) della loro vita negli animali perfetti, e maggiori, che abisso sarebbe questo di una sterminata, e stranissima immensità. Quasi direi che dimenticatasi la Natura de’ suoi viventi tesori, mostra un’ampiezza in questa parte, ch’è sorprendente. Tutti, o quasi tutti i veri, e più nobili ospiti della terra, dell’aria, e dell’acqua ne sono infestati, non detrattone l’asino istesso, il più degno di andarne esente fra quanti vivono in terra, per le incredibili sue tolleranze, e fatiche, contro il parere di que’ pii, ma ignoranti filosofi che lo supponevano un miracolo falso non tormentato da alcun pidocchio perché fu cavalcato dal Redentore e contro medesimamente il parere di quel bonus vir di Aristotile, e del Monfeto, che credevano non l’asino impidocchisse#45, per cagione della sua naturale pigrezza, onde suda di rado, ed assai più verisimilmente secondo loro, per forza di antipatia, universalissime, decantato, e non manchevol rifugio, e luogo topico della garrula antichità, quando non sapea, o non potea spiegare un fenomeno, sfuggendo l’arduo, e l’intricato dell’ascosa cagione l’acutezza del loro ingegno, o non essendovi quella, peccando il fenomeno di falsità, solo esistente nella lor testa, e veduto non in Natura, ma al solo lume di tetra, ed affumicata lucerna.
          Ora facciasi passaggio ai pesi, gente ancora essa numerosissima, ed ospite dell’acque dolci, e del mare, e dell’onde stagnanti e correnti. Codesto popolo da un canto non solamente avvicinasi agli insetti, per la ragione che gl’insetti avvicinansi ad esso, ma dall’altro annodasi agli uccelli, ai quadrupedi, e insino all’uomo, come dimostra a chi sa vederla, ed intenderla, la prodigiosa catena. Stanno l’acque, siccome ho detto, i suoi scorpioni, ecc; ora aggiungo che contino le sue locuste, i suoi pidocchi, lombrichi, pulci, cimici, lumache ignude, e coperte della sua casa, e mille, e mill’altri che si assomigliano a quanto saltella, e rampica in terra. Ha il mare i suoi lupi, vitelli, cavalli, porci, volpi, lepri, e cani marini. Ha i suoi pesci volanti, ed una schiera di uccelli acquatici, come ognun sa: uno de’ quali fu, come pretende il Padre Buonanni, divenuto tale, avendo avuto prima la forma di un come parpaglione#46. Favolosissima favola, e hac credat Judaeus Apella#47. Ancor non mancan gli anfibi tanto nell’acque dolci, quanto nelle salate, ed oltre le rane, le salamandre, le botte mentovate di sopra, v’è la lontra, e il cocodrillo, ed altri molti che tanto vivono in aria, come in acqua, e godono, e sguazzano, e si cibano in amendue i regni, che sembrano fatti a loro disposizione. Di più le anguille vivono per qualche tempo fuori dell’acqua, e in acqua vivono dolce, e salsa. Abbiamo in mare le tartarughe, e si trovano ancora in terra. Anco i pesci hanno i suoi generi di vivipari, come i quadrupedi, e, come i quadrupedi, alcuni hanno i pulmoni, e gli ordigni destinati all’opera della generazione. Ed abbiam finalmente in mare i pesci uomini, e donne, che nelle braccia, nelle mani, nel volto, nel sangue, ne’ pulmoni, e nel cuore hanno qualche rassomiglianza colla nostra nobilissima schiatta; e come noi si lamentano, e gridano, e, se vengono presi danno segni sensibilissimi del suo dolore. Possedeva il Vallisneri nel prezioso, e ricchissimo suo museo di naturali cose due mani bellissime di pesce uomo, e pesce donna con una parte del braccio sino all’articolazione del gomito a molte coste, onde riducevasi a credere vi potessero essere, anzi vi fossero pesci in mare, siccome quadrupedi, e bipedi in terra, che in apparenza si rassomiglino a noi#48.
          Ai pesci si attaccan gli uccelli. Quantunque questi si dicano generalmente cittadini del cielo, però partecipano di ogni elemento. Molti stanno sempre nell’acqua; molti sempre in terra, come l’oca, la gallina, ed il pollo, e molti stanno sempre librati pendoloni sull’ali, come gli uccelli detti del Paradiso, i rondoni, e molt’altri che non posano mai piede in terra, a cagione della brevità del piede, e della lunghezza dell’ali, che, nell’aprirle, toccherebbon la terra, né prendere giammai potriano il volo. Ecco adunque come gli uccelli si uniscono con un anello della catena agl’insetti, come dicemmo, per le ali, per le piume, e i suoi colori, pel modo di fare i nidi di stecchetti, di piume, di terra, ecc.; ai pesci, ed ai quadrupedi, come vedremo. Tra gli uccelli vi è una ben grande diversità di costume, e di genio. Vi sono i tiranni divoratori degli altri, come l’aquila, il nibbio, l’avoltoio, le civette, i falconi, gli sparavieri, gli ossifragi, e tanti altri uccellacci carnivori. Altri d’erbe si cibano, altri di grani, altri di frutti, d’insetti, e v’è persino chi ingolla sassolini, pietruzzole, vetro, ferro, dannari, ecc., come lo struzzo, le galline, e i capponi. Vi sono gli stolidi, e gli accortissimi. Vi sono gli amatori della luce aperta del sole, e delle tenebre. Vi son gli armati, e feroci; e i disarmati, e pacifici, con la saggia provvidenza dell’alta Mente che ci governa, che i più feroci, e terribili, che tentano la distruzione dei generi degli animali, e dell’uomo, sono in poco numero, onde non accadono al mondo quei danni che sarebbero irreparabili, se in uno stuol numeroso allignassero su la terra. Di tal genio è il cunturo uccellaccio rapacissimo, che trovasi in vicinanza di Moca, isola del Mare del Sud#49, il quale, benché negato gli sia dalla Natura l’esser guernito d’artigli, come l’aquila, però col solo rostro è gagliardo a segno che può cavar fuora le viscere a un bue, e, se sono genuine le storie, è più volte accaduto che un solo di tali uccelli abbia assalito, ed ucciso un fanciullo di dieci in dodici anni. Tra questi ancor si contano i salvatici, e domestici; gli striduli, come il pavone, e i naturali cantori, che l’uomo dilettano grandemente con le soavi, e dolcissime non meditate lor note, gettate non ad arte, ma dirò così, come a caso, e con natural negligenza, e v’è insino chi proferisce con voce garrula le stesse nostre parole: e infine altri amano le fredde stagioni, altri le fuggono come la morte, cercando climi più dolci, aria più mite, e temperata, volando alcuni a truppe con un’arte senz’arte alcuna, con un ordine, e una maniera così ammirabile che l’uomo dottato di acutissima mente mal saprebbe immitare, abbassando questi naturali istinti animali l’alterezza de’ nostri pensieri e delle nostre operazioni, le quali non ponno essere, se non opera di uno studio continuo e di una lunga, e continuata meditazione. Il modo poi di fare i lor nidi è galantissimo, e assai curioso. Di esso direi più cose che tralascio per brevità. In questa parte di naturale istoria vi si occupò con gran lode il conte Giuseppe Ginanni, che si prese ancor la cura di esaminar le lor uova#50.
          Dissi gli uccelli accostarsi ai quadrupedi, e ciò che sembra veramente strano, a prima vista, non lo è già. Lo struzzo è chiamato bestia potius, quam avis#51: ha due ventricoli, come i quadrupedi ruminatori, ha la pianta del piede guernita, ed armata di un duro, e grossissimo cuoio, come quella pur dei quadrupedi, capace a non essere offesa dalla durezza, e scabrosità dei sassi, e dell’arene de’ suoi deserti. Nel capo, e in una porzione del collo è ornato non di penne, ma di una selva di lieve, e gentile peluria a differenza degli altri uccelli: e in altre parti del corpo è ignudo di penne, mostrando una vergognosa, ed impudica nudità. Non alza mai il volo da terra, ma solo cammina, ed ha i muscoli più nerboruti, e più forti nelle coscie, che nel petto, avendo bisogno che le coscie, e le gambe siano robuste e non le ali. Anche il pipistrello ha nicchia in questo luogo partecipando e del topo, e del volatile, onde fu chiamato da Platone avis non avis#52, essendo una specie di volante quadrupedo, e di quadrupedo volatile, avendo una selvetta di denti, e orecchie in numero di 2, ed alcuni di quattro, e peli, e viscere, come le bestie. Sono vivipari, ed allattano i loro parti: quantunque abbian l’ali, e volino sono amatori delle tenebre, uscendo solamente la notte, o sul tramonto del sole, e salvatici, né giammai dimestici menano il giorno la nascosta lor vita nelle caverne, ne’ luoghi oscuri, e nelle logore mura de’ ruinosi, e disabitati edifici. Il loro cibo sono farfalle notturne, e farfalloni, e certe spezie di scarafaggi, e di mosche, ed altri simili abitatori delle tenebre della notte.
          Passiamo per ultimo ai quadrupedi, e mostriamo così al digrosso, come anch’esse le bestie cogli altri generi de’ viventi insensibilmente si legano. Già avete sentito che il mare ha i suoi cani vivipari, armati di denti, e divoratori di carni, come i cani di terra; ha le sue vacche, vitelli, cavalli, porci, istrici, ricci ecc., i quali non meno dimostrano i pesci accostarsi ai quadrupedi che i quadrupedi esser legati coi pesci. In mare, e in terra sono terribilissimi serpenti: siccome la terra, ha così il mare le sue gallane#53, le sue lucertole, e grandi lucertoloni, e tanti mostri sono in terra, altrettanti se ne trovano in mare. Avete ancora compreso, come anco agli uccelli, e, prima, come agl’insetti si uniscono. Resta sol che vediamo come hanno connessione i quadrupedi coll’uomo, ultimo anello della prodigiosissima, e tante volte nominata catena. Toltane l’anima, che in noi è dottata della ragione, del dono libero dell’arbitrio, e di una esistenza interminabile, durar dovendo per anni eterni, e toltane una più occulta, e più perfetta, e più mirabile architettura degli organi, ha l’uomo una non ultima parentela coi bruti. È notissimo a chi possiede la scienza anatomica, quando vantaggio ridondi alla medica sapienza dalla notomia comparata mercé la molta, e molta rassomiglianza che han tra loro le viscere dell’uomo, e quelle de’ più perfetti fra gli animali: e ognuno sa quanto bel pregio sia, ed utilità, la cognizione della struttura meno recondita di un viscere per stabilire la più ascosa organizzazione de’ nostri. Innoltre i leoni ferocissimi, e sanguinosi abitatori degli africani deserti, e delle contrade più barbare hanno nella maestà del sembiante un non so che il quale ha molto dell’uomo. Dippoi non mancano animali di terra che si accostino all’uomo con maggiore rassomiglianza, siccome se ne trovano in mare, e voi già l’avete sentito. Abbiamo le scimie, e i lussureggianti scimioni, i quali persino si congiungono con le donne nell’India, e i cenocefali, i cercopiteci barbuti, e non barbuti, i papioni#54, i gattommamoni#55, i macachi, e tant’altri che nella struttura delle parti, e ne’ costumi del vivere si accostano all’uomo, tra quali hanno luogo degnissimo i pigmei certa razza di viventi che in una dimostrazione anotomica in Londra, comparata l’anatomia di uno di questi con quella della scimia, del gattommamone (specie di scimia codata), e con quella dell’uomo, trovato fu che le circostanze principali, ond’esso conveniva coll’uomo, erano 48; e quelle, onde alle scimie accostavasi, non erano che 34, onde più all’uomo avvicinandosi che ai bruti, occupa il luogo posto tra l’uomo, e la scimia nella nostra dimostrazione dell’annodamento delle cose create#56.
          Eccoci giunti alfine a sfumamenti, senza balzo, e per gradi dell’infinitamente picciolo in tali materie all’infinitamente grande, e visto in un’occhiata le cose più principali dei tre gran regni della gran Madre. Grande sapienza in vero del Creatore, che ha tutto si è ben disposto, e con leggi saggissime ordinato, avendo un numero sterminatissimi di tante cose un legamento che annodale, e tutto dal primo all’ultimo di ciò che trovasi nel vastissimo impero della Natura ha una stretta parentela, ed unione, passandosi dolcemente da un genere all’altro, ed è pur tutto, come dicemmo, incatenato con tutto, e il tutto è guidato dalle stesse universali leggi.
          Altre unioni, e continuati legamenti s’incontrano, come per l’ordine, e bisogno de’ cibi, de’ costumi, e degli usi, oltre la generale dimostrata connessione della catena: cose che tutte ponno aver luogo nell’opera, ponendole a tempo, e nella dovuta lor nicchia.
          L’idea di quest’opera, come anco parte generale della materia della presente lettera, che n’è un abbozzo, io l’ho cavata dalla lezione academica del Vallisneri sulla Progressione, e connessione delle cose create. Questo grand’uomo stimolato dal dottissimo, ed eruditissimo abate Conti#57 stese una tal lezione restringendo in compendio, e adombrando in essa, quanto accoglie nel suo vastissimo seno il corpo della gran madre. Ha voluto innamorarne i posteri, ed io ne sono restato preso. Ma condurla, e guidarla a segno che non vi fosse nulla a desiderare, avete sentito quanto grandi siano gli inconvenienti: l’ampiezza della materia, che impiegherebbe una intera accademia, e il gran disordine, e il tanto con cura occulto della medesima. La scienza de’ fossili non è ridotta a perfezione, e, se ben bene osserveremo, neppure a regole. Gli antichi, e i moderni scrittori hanno confuso i corpi stranieri, come le ossa, denti, ecc. di pesci, e di animali, con le naturali, ed immediate produzioni della terra. Le piante, e l’erbe, e tutto in somma che appartiene ai botanici, è avvolto in spinose questioni. Pochissime fra le tante storie degli animali sì grandi, che piccioli, tanto volatili, come di terra, di acqua ecc. sono genuine. Quante favole imbrattano le vere storie, come di sopra vi ho scritto, e come sapete voi già? Pochissimi sono gli Swammerdam, i Vallisneri, i Reamour, i Buffon. E questi sono irrefragabili? Vanno a pelo in tutto? La storia della Natura non è già teologia rivelata: e gli scrittori della medesima non sono altro che uomini. Ma di questo ne parleremo forse altre volte, né voglio trattenermi su questo dubbio, adombrato dal quale, niuno più metterebbe mano nella Natura. Dippoi moltissimi animali sono a noi ignoti. Quanti se ne scoprono ne’ fluidi co’ microscopi che prima d’essi non si vedeano? Chi sa che non ve ne siano de’ più minuti? Quanti albergheranno forse nel fondo de’ mari? E quanti esternamente, e internamente ne’ pesci, ne’ volatili, nelle bestie, che bisognerebbe tutti vedere, farne l’anatomia, repricarla, ecc. per ritrovarli, e sapere la loro vita.
          Bastami solo nell’opera che medito, di fermarmi sulle cose che fan più colpo, e innamorar qualcheduno ad un’opera più estesa della mia, di quanto la mia sarà più estesa della lezione del Vallisneri.
          Fuori dei tre gran regni della Natura, dei quali abbiam ragionato, v’è un’altra connessione per altra guisa. Ma ciò basti per ora. La vostra amicizia sia un mezzo, onde sopportiate con tolleranza questa, per troppa prolissità, noiosissima lettera. 
          Continuate ad amarmi, che io lo merito, diceva il Rolli, pel grande amore che io porto a voi, e credetemi

Il Vostro Devotissimo ed Obbligatissimo Servitore et Amico
Giuseppe Rovatti
 

Bartolomeo Brandoli, segretario di casa Montecuccoli a Modena. In B la dicitura è «Signor Abate Brandoli».

Cfr. a Giuseppe Rovatti, 21 marzo 1768.

A Pietro Metastasio, 10 marzo 1767.

La connessione si rivela, tra il 1768 e il 1769, una vera ossessione – poi abbandonata, almeno per quanto riguarda la scrittura di un’opera a sé – per Rovatti, che trae ispirazione dalla Lezione accademica intorno all’ordine della progressione, e della connessione.

«Osservazioni» ed «esperienze», secondo la formula vallisnerana, lungi dall’essere due sinonimi per Rovatti diventano il fondamento del proprio metodo scientifico, che alterna costantemente una parte contemplativa, di osservazione in laboratorio degli esemplari analizzati e di studio dei testi, a una attiva e più propriamente sperimentale, spesso nella campagna di Solara.

Jan Swammerdam (1637-1680), figura chiave dell’entomologia moderna, il primo a illustrare i meccanismi dei vari stadi di sviluppo degli insetti nell’Historia insectorum del 1669; cruciale è la postuma Biblia naturae (1737-1738), l’edizione di tutti i suoi manoscritti.

Citazione quasi letterale dalla Lezione accademica: «La prima cosa che consideriamo si è la pura purissima terra, chiamata da alcuni terra vergine, o primigenia, a cui segue la vasta serie di tutte quante le terre, più, o meno semplici, colorate, o non colorate, minerali, o non minerali, di virtù, o di vizi dotate, o prive, e per altre facoltà celebrate, o non celebrate. In queste entrano tutti i boli, le marghe, le argille, le ocre, le tripole, le crete, e insino i fanghi, e i lezzi, le pingui, e le sterili, e di quante maniere troviamo su’ colli, su’ monti, ne’ piani, dentro, e fuora dal grembo della terra, sotto le acque, o a questo lontane, e quante finalmente dà in ogni luogo la gran Madre Natura» (Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. II, p. 285). Tutta la lettera ricalca molto da vicino diversi luoghi della Lezione del Vallisneri, quasi parafrasandola, soprattutto per quanto riguarda gli elenchi e la tassonomia. 

Cfr. la teoria del nucleo centrale terrestre di Edmond Halley in An Account of the Cause in the Variation of the Magnetic Needle; with an Hypothesis of the Structure of the Earth nel 1692.

Una nota posteriore qui riporta, in B, riguardo alla Lettera seconda: «Veggasi l’altra lettera, in cui si corregge un errore, e si dà la dottrina presentemente stabilita dei coralli, coralloidi, madrepore» (c. 78r).

Più correttamente, anche in Vallisneri, «cerebriti».

«Ma quando pure per le strepitose strida degli scolastici dovesse in ogni modo esser vero che dall’ignobili cose non si potessero produrre le più nobili, io non so per me vedere qual gran vergogna o quale stravagante paradosso mai sarebbe il dire che le piante, oltre alla vita vegetativa, godessero ancora la sensibile, la quale le condizionasse e le facesse abili alla generazione degli animali che da esse piante son prodotti» (Redi, Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, p. 147).

Il filosofo e botanico Teofrasto di Ereso, successore di Aristotele nella direzione del peripato.

Il botanico inglese William Sherard (1659-1728), amico personale di Vallisneri, come riporta una nota della Lezione: «mi disse monsieur Sherard, quando passò per Padoa, che nel suo Indice sperava di giugnere a dieci, e nove milla piante» (Antonio Vallisneri, Opere fisico-mediche, cit., vol. II, p. 286).

Pietro Andrea Mattioli (1501-1578), botanico e umanista senese, autore dei Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo libri cinque della historia et materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana (prima edizione 1544).

Fabio Colonna (1567-1640), autore nel 1606 delle osservazioni botaniche raccolte nel Minus cognitarum stirpium aliquot ac etiam rariorum nostro coelo orientium.

I fratelli svizzeri Caspar Bauhin (1560-1624) e Johann Bauhin (1541-1613), l’uno autore del Pinax theatri botanici e l’altro della monumentale Historia plantarum universalis.

Sébastien Vaillant (1669-1722) fu direttore del Jardin royal des plantes médicinales e autore del Botanicon parisiensis.

Joseph Pitton de Tournefort (1656-1708), botanico francese, professore al Jardin des Plantes di Parigi; tra il 1700 e il 1702 raccolse piante per la sua collezione in fino all’Armenia e al Mar Nero insieme ad Andreas Gundelsheimer e Claude Aubriet, lasciando come resoconto la postuma Relation d’un voyage du Levant. Fra i primi a stabilire con precisione la differenza tra genere e specie, pubblicò nel 1694 gli Eléments de botanique, ou méthode pour reconnaître les Plantes.

Herman Boerhaave (1668-1738), considerato il padre della fisiologia e maestro di Albert von Haller, a cui Rovatti indirizzò alcune lettere; in botanica è ricordato per i miglioramenti al giardino botanico di Leiden e per diversi Index plantarum quae in Horto academico Lugduno Batavo reperiuntur.

Johann Christian Buxbaum (1693-1730), autore dell’Enumeratio plantarum acculatior in argo Halensi vicinisque locis crescentium una cum earum characteribus et viribus e della Plantarum minus cognitarum centuria.

Jan Commelin (1629-1692), autore del Catalogus plantarum indigenarum Hollandiae e fondatore del giardino botanico di Amsterdam.

La Phytanthoza Iconographia di Johann Wilhelm Weinmann (1683-1741) è uno dei compendi illustrati di botanica più importanti del diciottesimo secolo, con più di mille incisioni colorate a mano.

«Il Lemery [il chimico Nicolas Lémery (1645-1715)] nega darsi veri zoofiti, volendo che tutti sieno o piante pure, o puri animali» (Vallisneri, Saggio d’istoria medica, e naturale, p. 481).

Nella descrizione degli zoofiti come di consueto Rovatti ricalca quella data da Vallisneri nel Saggio.

Antonio Donati, Trattato di semplici, pietre, e pesci marini che nascono nel lido di Venezia, Venezia, 1671.

Il chermes (cremisi) è un colorante ricavato dagli insetti del genere Kermes vermilio.

Antonio Vallisneri, Istoria della grana del Kermes indirizzata al Cestoni, in Id., Opere fisico-mediche, vol. I, pp. 457-464. Diacinto o Giacinto Cestoni (1637-1718) fu naturalista e amico sia di Redi che di Vallisneri, che ne pubblicherà diverse osservazioni.

Topos utilizzato dallo stesso M. negli Orti Esperidi: «Né più de’ salsi umori / ai muti abitatori / coll’amo e con le reti / disturba i lor segreti / l’avaro pescator» (Metastasio, Tutte le opere, vol. II, p. 108).

O mosca dei rosai, come la chiama anche Vallisneri nelle Esperienze ed osservazioni intorno all’origine, sviluppi, e costumi di varj insetti, altro testo fondamentale per Rovatti. Le Osservazioni intorno alla mosca de’ rosai, cioè, come, e dove deponga le uova sue, come da queste nascano brucolini; cibo loro, costumi, spogliature, struttura, e particolarmente del mirabile loro aculeo, e finalmente sviluppo in mosche simili a’ genitori occupano tutta la prima parte (pp. 1-33) del testo (Antonio Vallisneri, Esperienze ed osservazioni intorno all’origine, sviluppi, e costumi di varj insetti, con altre spettanti alla naturale, e medica storia, in Padoa, nella stamperia del Seminario appresso Gio. Manfrè, 1713).

Vallisneri, Esperienze ed osservazioni intorno all’origine, sviluppi, e costumi di varj insetti, p. 31.

«Ha letto di quante maniere ne allignano sulle sole piante delle rose, ora le dico che ne ho osservate duecento, e più spezie nella sola quercia, meritatamente consacrata da’ buoni antichi a quel gran padre universale Giove» (ivi, p. 41).

Nel Saggio d’istoria medica, e naturale si legge, sotto «Ragno-locusta»: «Nome nuovo posta da me a una rara locusta, o cavalletta, o cavalocchio, sinora non ben conosciuto, né osservato, come lo merita, da’ naturali scrittori. È carnivoro. L’Aldrovando lo chiama insolentis figura locusta, il Jonstono col Moufeto Mantes, i Fiorentini Cavalla verde, e il Cestoni Grillo-centauro» (Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. III, p. 447).

«Nelle Memorie dell’anno 1704 v’è la descrizione del mio verme, che chiamai formicario, fatta dall’oculatissimo M. Poupart, che chiama con altro nome, formica-leo» (ivi, vol. I, p. 299). François Poupart (1661-1709) fu anatomista ed entomologo. Il formicaleone è descritto da Vallisneri in Vallisneri, Della curiosa origine, degli sviluppi, e costumi ammirabili di molti insetti dialoghi, in Opere fisico-mediche, vol. I, pp. 3-76: 34-36.

«Né solo afferra formiche, ma mosche private d’ali, e forse anche non private, ragnateli, bruchetti, tarme, ed altri simili vermicciuoli» (Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. I, p. 35).

Anche queste (gli Ichneumonidae) sono descritti nei dialoghi. Cfr. ivi, pp. 57 e sgg.

L’entomologo francese René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757), autore di sei volumi di Mémoires pour servir à l’histoire des insectes; per ora Rovatti può citarlo solo indirettamente, non essendosi ancora procurato i volumi, come si legge nella prima leggera del carteggio a Spallanzani il 26 dicembre 1768 (cfr. Spallanzani, Carteggio, p. 140).

Friedrich Christian Lesser (1692-1754), autore della Insecto-Theologia (1740).

Le processionarie. Friedrich Christian Lesser, Teologia degl’insetti del sig. Lesser con le osservazioni del sig. Lyonnet, Venezia, nella Stamperia Remondini, 1751, p. 211.

Pierre Lyonnet (1706-1789) fu, oltre che entomologo, anche raffinato illustratore. Nel 1750 pubblicò il Traité anatomique de la chenille qui ronge le bois de Saule.

Cfr. Vallisneri, Esperienze ed osservazioni, p. 65.

Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. II, p. 288. Ferrante Imperato (1525-1615) fu l’autore del Dell’historia naturale nel 1599.

Ibidem.

I legniperdi acquaiuoli diverranno, nei mesi ed anni successivi, la principale occupazione entomologica di Rovatti.

Cfr. Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. I, pp. 38-39.

Cfr. Redi, Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, p. 193, e Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. III, p. 327.

Cfr. Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. I, p. 26.

Hor. sat. I, 5, 100.

Cfr. Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. II, p. 289.

Il condor delle Ande. Rovatti probabilmente ne aveva letto nella traduzione italiana della Physico-theology di William Derham: «Il capitano J. Strong me ne diede quello conto, insieme con una penna del cunturo, o condoro del Perù sulla costa del Chili. Essi incontrarono questo uccello circa 33 s. di latitudine non lungi da Moca, la quale è una isola nel mar del Sud – gli tirarono una archibugiata mentre stava sedendo sopra una eminenza alla riva del mare. Gli abitatori spagnoli dissero loro che eglino stavano in timore di quegli uccelli, perché avrebbero portato loro via i bambini. […] Contuttociò il rostro loro è sufficientemente gagliardo da scorticare un bue, e trargli fuora le budella. Due di loro assaltano benissimo una vacca, o un toro, e gli divorano. Ed è spesse volte accaduto, che un solo di loro abbia assalito, e mangiato de’ ragazzi di dieci, o dodici anni» (William Derham, Dimostrazione della essenza, ed attributi d’Iddio dall’opere della sua Creazione, in Firenze, nella Stamperia di S.A.R. per i Tartini, e Franchi, 1719, pp. 149-150). 

Giuseppe Zinanni, Delle uova e dei nidi degli uccelli, in Venezia, appresso Antonio Bortoli, 1737. Il ravennate Giuseppe Zinanni (1692-1753) fu corrispondente di Vallisneri e accademico dell’Istituto delle Scienze di Bologna.

Cfr. Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. II, p. 290.

Ibidem.

Testuggine di mare o di terra.

Genere di scimmie (Papio) che comprende il babbuino e l’amadriade.

Come Rovatti, anche Vallisneri la definisce «una spezie di scimia codata» (Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. III, p. 439).

L’episodio, che vide il dottore inglese Edward Tyson (1651-1708), considerato il fondatore della moderna anatomia comparata, eseguire lo studio, è narrato da Vallisneri in ivi, p. 438.

«Avendo l’illustrissimo signor abate conte Antonio Conti, nobile veneziano, fatta onorevole ricordanza della mia dissertazione nella sua risposta al signor Nigrisoli, in cui espongo per serie l’Ordine della progressione, e dirò così, della scala di tutte le cose create, insieme legantesi, e formanti quella oltremirabile armonia che in questa gran mole osserviamo, mi sono veduto impegnato, a pubblicarla, tantoppiù che dallo stesso, e da altri amici sono stato, a ciò fare, istantemente pregato» (Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. III, p. 284). Francesco Maria Nigrisoli (1648-1727) aveva proposto la teoria della cosiddetta «luce seminale» (un principio attivo, analogo alla natura della luce e intrinseco alla materia, in cui risiedeva l’essenza della vita) che era stata criticata da Conti nella Lettera sopra le Considerazioni del sig. Nigrisoli (nel «Giornale de’ letterati d’Italia», XII, 1712, pp. 240-330).