Al Signor Abate Pietro Metastasio a Vienna

Io non accuso la vostra tardanza in rispondere alle ultime mie due lunghe lettere, dove di villa una il 29 di maggio, e l’altra il 29 di luglio di questo anno, e consegnate al caro signor abate Brandoli insieme con il poema, e note sulle fontane. Io dico, non accuso la vostra tardanza, avendo voi indubitamente le vostre solide ragioni a differir la risposta. Vi scrivo solo, perché sembrami che il silenzio di otto mesi per un amico amantissimo sia un silenzio troppo lungo. Io, se volete saper di me, vivo una vita tranquilla, e saria tranquillissima, e la più beata del mondo, se tuttora fossi, e vi rimanessi per sempre, nelle amiche, e a me sì care solitudini della campagna, che ho dovuto pur troppo abbandonare con danno degl’intrapresi dilettevoli miei studi, i quali esigono boschi, prati, giardini, acque fangose, e fossati, e non mura, e noiosi alberghi delle città, le quali nulla somministrano all’occhio ed alla mano di un curioso osservatore di questa parte della Storia della Natura. Ma pazienza. In questo mondo abbiamo sempre occasione di esercitare la tolleranza; ed oportet servire temporibus#1, come diceva il gran Tullio nel foro romano. In questa stagione, che comincia ad esser fredda, e perciò vanno cessando nella maggior parte degl’insetti le azioni più rimarchevoli della lor vita, rallentatosi il movimento de’ loro fluidi, intorpiditi, ed oppressi da un profondo letargo, non godentisi, siccome alcuni ridevolmente pretesero, la beata tranquillità di un giocondissimo sonno, io pure comincio a respirare, ma non credeste con gran piacere, un poco d’aura di libertà dalle mie continue osservazioni sulla Natura, onde ho preso a formare, ed a compitare quei lavori poetici che vi scrissi voler comporre, e terminare in villa; mentre quivi non ho sentito alcun solletico delle Muse. Queste desiderano ozio, e tranquillità, ed io era più che mai impiegato dalla loro rivale filosofia. Che direte voi al sentire che appena appena è uscito dal guscio il poema sulla pioggia, ed il trattato che lo precede è solamente per metà lavorato? Compatitemi, che questa volta ho veramente ragione di esigerlo da voi; ed incolpate le mie per avventura più serie occupazioni per una parte, e la pia poca sanità, direi quasi finor da marzo avuta, per l’altra. Già vi scrissi che per tre volte fui assalito da febri periodiche; ed ora io vi dirò che partite queste dopo i 20 in circa di giugno, il dì 30 del detto mese vollero felicitarmi con un’altra graziosissima loro vista, e veramente fu questa volta solenne. Partirono soltanto il dì 22 di agosto dopo avermi resto quasi affatto sparuto, al che dippoi riparai con l’uso del latte: e già sembrava uno di que’ ramarri, o lucertole, che ai tepori di primavera escono a nuova vista distrutti, e magrissimi, dopo aver loro vuotato il digiuno del verno le loro ghiandole cellulose, o sacchetti della pinguedine#2, che si erano preparata con un buon cibo l’autunno. Per essere stato attore di una scena così funesta è ben tollerabile la memoria di una sì esatta cronologia, e voi non punto vi sdegnerete che v’abbia fatta tutta quanta la narrazione del fatto istorico.
          Non so quando potrete avere il poema della pioggia. Non sono lubrico nei fatti di poesia, come sapete, ed ho imparato a mio costo, e d’altrui l’arte necessaria del distornare. In esso, e più nel trattato preliminare sentirete precetti del bever caldo. Io l’uso da un anno in qua anche nelle vampe più focose del sollione, e vi assicuro che ne son molto contento. Oh voi direte che null’ostante ho per più mesi sofferto un interrotto bensì, ma lungo corso di febri. Egli è verissimo, e ben io lo so che sono stato il protagonista della tragedia. Ma questo prova che gli umani soccorsi non arrivano a togliere le miserie all’umanità; ed io, che per altro son mezzo eretico della medicina, non so proscrivere a me medesimo alcuni usi innocenti, tra quali il bever caldo per chi non abbia un fermento facile sovverchiamente ad esaltarsi, e troppo fervido, attuoso, e feroce, io lo credo per più titoli innocentissimo, e salubre; né so lodare il Cartesio nemico giurato dell’arte medica, che volle uccidersi, ridendo, e compassionandolo i medici, di per sé, ed altri in quanto ancora men pazzi di lui. Con esso picciol poema avrete qualch’altra cosarella del mio, come vi ho scritto altra volta, ed una lettera lunga assai più delle precedenti#3, spettante all’opera Della connessione delle cose create, e a miei studi, quanto non mi scriviate che sia per esservi di qualche noia, e d’importuno ritardamento delle vostre cotante serie applicazioni e forse pur anco certe correzioni, ed aggiunte al poema delle fontane, che in alcuna sua parte mi è decaduto. 
          Seguitate ad amarmi, se volete non essere ingrato al mio amore, che è svisceratissimo per voi, e senza fine credetemi il vostro ecc. 

Modena 11. novembre 1768.

Cic. Lael. 13.

Chiamate così («ricettacoli della pinguedine») nelle Osservazioni intorno alle rane di Vallisneri; Vallisneri, Opere fisico-mediche, vol. I, p. 450.

La Lettera seconda, scritta nel 1769.