Al Signor Abate Pietro Metastasio a Vienna

Non a costringervi a far parentisi alle vostre occupazioni, non ad accrescere il numero delle vostre lettere, né col desiderio della risposta, che non pretendo, e non voglio per non irritare sovverchiamente la vostra tolleranza: ma a sfogare con voi un impeto di tenerezza, e di amore, che non posso più lungamente trattenere nel mio cuore. Una nuova di voi non meno barbara che menzognera, avuta da non so chi appena dopo di avervi scritto, e suppostami veridicamente autenticata, mi avea indotto a piangervi tra gli estinti#1. Ma la lettera vostra, che non potea venir più opportuna, mi ha consolato all’estremo, e mi ha resa quella pace soave che io disperava di ottennere mai più. Non potete immaginarvi, o caro amico, a qual segno era giunto il mio dolore: ma io ben vi so dire che dopo quello che l’amicizia più tenera, e vera, e la cristiana pietà mi aveano suggerito, null’altro facea, se non prorompere in lagrime dirottissime, imprigionatomi da me medesimo nella mia camera: pago soltanto di questo sfogo non meno tenero che giustissimo del mio ramarico: unico conforto, in mezzo a tanta desolazione, al mio cuore. E vi so dire che non sapea vincer me stesso; anzi accusava la rigida filosofia, che dà precetti così severi, e contrari alle leggi della troppo sensibile umanità. A voi già uomo grande, e domator generoso, ed instancabile di quanto opponesi al più nobile, ed eminente carattere di ogni virtù, sembrerà debolezza la mia a farvi la narrazione di questa storia. Ma l’evento di un fenomeno sì amoroso è frutto del vostro merito, del vostro amore per me, e della mia riconoscenza, e sensibilità non mai sovverchia per voi del mio cuore: e il palesarlo è l’effetto di un amor troppo tenero, e di un desiderio vivissimo di farvi noto a qual segno è giunta la mia stima, e il mio amore per voi, ch’è un impeto che mi trasporta; non potendo a voi mostrarlo in un modo più luminoso. Ma già sono, per così dire, risorto a nuova vita, e non è punto immaginabile la contentezza, ed il piacere che io provo.
          Vi ringrazio delle lodi, di cui vi siete compiacciuto di onorarmi in riguardo ai miei scritti: e posso dirvi sono state un gagliardissimo assalto che ha cimentato pericolosamente la mia moderazione. E vi abbisognano tutti quanti i capitali della medesima per combatterla, e superarla. Duolmi solo che abbiano impedito, o sovverchiamente accresciuto le vostre e al mondo sì vantaggiose fatiche. Onde mandandovi il poemetto della Pioggia non penserò di spedirvi il trattato che lo precede#2, quando non ne abbia un vostro espresso comando.
          Vi sono ancora teneramente obbligato dalla premurosa sollecitudine che mostrate per la mia minacciata salute. Ma in ordine a questo vi dirò che non provo alcun danno sensibile dalle mie continue applicazioni; che mi trovo presentemente in un’ottima (per parlare co’ medici) latitudine di sanità#3: onde posso attendere alle mie sì care letterarie fatiche, senza farne un abuso riprensibile, e senza che alcun pensiero della salute me ne frastorni.
          Nel corso del presente inverno compisco, e do vita a quei lavori poetici e appena partoriti, o meditati, onde possa impegnarmi per sempre con tutto me stesso negl’intrapresi miei studi, rimettendo il comporre i poemetti della Madonna alle sere soltanto dei soli inverni che succederanno in appresso. Mandarò ancora col poemetto il disegno del poema astronomico, del quale ab immemorabili ho fatto con voi parola, più castigato, corretto, più metodico, e più copioso di quello che vi portò il signor Brandoli con l’altre mie operette.
          Vi prego a non comunicare ad alcuno, ed assai più a non permettere copia de’ miei scritti che vi ho mandati, e che avrò ocasion di mandarvi, siano in prosa, o in versi e passi questo per un articolo del nostro dogma di amicizia.
          Mille saluti affettuosi a mio nome al signor Brandoli. Compassionatemi, perché non posso innoltrarmi ai gelidi Trioni#4, e caramente abbracciarvi. Addio. Non vi pentite di riamare chi non può essere ingrato all’amor vostro, e credetemi, qual sarò sempre costantemente

Modena 10. dicembre 1768

 

Questa voce incontrollata è probabilmente l’ispirazione per l’epistola in versi del 23 aprile 1769 (ma «fatta di prima», come si trova scritto nell’intestazione).

Nel 1768 il trattato era comunque ancora a metà della sua composizione.

Scriveva nel Della preservazione della salute dei letterati e della gente applicata e sedentaria Giuseppe Antonio Pujati (in Venezia, presso Antonio Zatta, 1762): «Chiunque […] ha la sua particolar sanità, ed ogni particolar sanità ha la sua particolar latitudine» (p. 420).

I «trioni» sono le sette stelle che costituiscono l’Orsa Minore, o anche collettivamente le stelle dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore; M. ha già utilizzato l’espressione per indicare il settentrione e più in generale Vienna e l’impero rispetto all’Italia (cfr. a Giuseppe Rovatti, 26 maggio 1766). Cfr. Torquato Tasso, Ger. Lib., XI, 25, 198-199: «Là dove ai sette gelidi Trioni / Si volge e piega all’Occidente il muro», e Pietro Metastasio, Ezio, atto I, scena II: «Signor, vincemmo. Ai gelidi trioni / il terror de’ mortali / fuggitivo ritorna […]». Di «gelidi trioni» il poeta parla più volte, quasi a mo’ di formula proverbiale, nell’epistolario, soprattutto quando, nelle conversazioni con Leopoldo, si lamenta dei rigori invernali (lettere nn. 239, 329, 789, 813, 932, 950, 1133, 1234, 1241, 1287, 1375, 1550). Rovatti, come si desume anche dalla lettera del 9 luglio 1766 a M., aveva manifestato il desiderio di recarsi di persona nella capitale austriaca per conoscere l’anziano poeta, forse in un poscritto o in un’aggiunta alla lettera del 2 aprile 1766 non rintracciabile nella minuta.