Fatta al 22. gennaio 1769#1.
Modena 27. gennaio 1769.
Senza fare alcun prologo alla lettera,
che scrivere vi voglio in stil poetico,
ma in uno stile che l’intonso Apollo
finora non ha dato#2, io vi dirò
che l’epistola vostra sì gentile
che mi mandaste ed io non aspettava,
non essermi poteva più gradita:
e vi so dir senza infilzarvi, e vendere
una messe di frottole alla moda,
del vero essendo amico, e uom da bene,
che dilatò nel seno a me l’incendio
che porterò per voi sino alla tomba,
e per cui più che amico, innamorato
sembrare vi potrei; e che non era
picciolo ancora allora, che in fasce, e in culla
fanciullo, ancora chiamava pappa, e mamma.
Dunque, conciossiacosafosse che
voi mi fate favori, che da voi
pretendere non oso, e che non merito,
e perché fra gli amici miei più cari
voi siete solennissimo mio amico,
e il più sincero che io abbia avuto al mondo,
dotto, ed amabil Metastasio Pietro,
vi posso domandare un bel favore,
sicuro di riceverlo da voi,
quando Fato nemico non si opponga.
Sapete, cosa bramo? Nol sapete
ancora, ma fra poco sarà nota
alla vostra sì bella anima armonica#3,
che scese dalla più brillante, e pura
stella, che su nel ciel faccia soggiorno,
lo saprete, dissi io, quando al ciel piaccia
che io abbia fatto un breve esordio facile
all’epistola mia poeticissima.
Per avventura vi ricorderete
che quando vi mandati due anni sono#4
La Festa degli dèi, che non vi piacque#5
voi mi scriveste per non so qual cosa,
che allora il mio Trionfo del Parnaso,
in cui foste innalzato sino all’etere,
oltre il grave, ed immenso aere fluido,
e Saturno, e le stelle, e il Primo Mobile,
ove fors’è quell’anima a sedere
che alla materia diede il moto rapido,
come antichi sognar gravi filosofi,
Tullio, Filone Ebreo, Plato, ed Origene,
e che il quinto ecumenico Conciglio
che di Costantinopoli è il secondo#6,
sotto la pena di maledizione
proscrisse, come narra un grande istorico
chiamato con il nome di Niceforo
nel libro diecisette della istoria
della santa, comune madre Chiesa#7;
mi scriveste mio dolce, e caro amico,
che il mio pover Trionfo del Parnaso
era in man di gentil dotta damina#8,
che di Gaspara Stampa, e di Vittoria
Colonna marchesina di Pescara,
e di Passera della Gherminella#9
immitatrice, ama le Muse, e Apollo,
e talor si compiace di alcun verso,
e di farne tesoro nella mente.
Or sapete da voi cosa vorrei?
Vorrei che procuraste a me, che sono
vostro amico, e sarò sino alla morte,
ed esser vi vorrei ancor sodale,
della saggia damina cara a Febo
la bramata, gentil corrispondenza,
se la preghiera mia non è superba;
e purché nata sia la commendabile
nobile viaggiatrice di Parnaso,
purché, dico, sia nata in riva al rapido
Danubio, e non in mezzo al suolo ausonio.
Se ciò mi procurate, che desidero,
voi scrivetemi poscia a vostro comodo,
un momento togliendo a quelle cose,
onde il tempo impiegate della vita,
qual sarà il mio dover, che dovrò compiere,
supposto che la barca non sommergasi,
o non vadi a piantarsi in una secca.
Il titolo di lei, la patria, e il nome,
voi che a secretis siete della dama
voi noto mi farete, e tutto quello
ch’è necessario per poterle scrivere.
Il desiderio che mi spinge a farlo
non è già un desiderio cacoetico#10,
non è frega, o prurito, che aver sogliono
i giovani alla moda nel terracqueo:
io desidero solo con brama accesa
di scrivere a germanica damina
un’opera assai picciola, che medito,
in cui legger potrassi senza occhiali,
e senza tormentar troppo il cervello#11,
e senza che su, e già troppo galoppino
gli spiriti agilissimi, ed elastici,
più pronti che i corrieri d’Alessandro,
e del rapido astolfico Ippogrifo;
e che inaffiano, grafiano, e distendono
con eccitati movimenti tremoli
le sottili prontissime fibrille,
ad ufficio sì bello destinate;
leggere si potrà, lo torno a dire,
i pregi, ed i costumi in parte enfatica
di quel popolo immenso, con cui vivo,
e che ai giorni più belli io cerco, e trovo
delle selve, e nei campi, e nudo porge
al fisico curioso di ammirare
il potere, e il sapore, e la bontade
del sovrano signor dell’universo.
Se otterrò la gentil corrispondenza
io vi voglio tener per sommo Giove,
e mi voglio cangiar nel bianco augello#12
per essere di voi sempre ministro,
e per voi sempre in ciel rotar le penne.
Ma in casu quo il ronzino si piantasse
nel fango, e non potesser uscire fuora,
per questo io non vorrei cessar di vivere,
né gl’orecchi degl’uomini assordare
con gemiti, con pianto, o tali grida
che dicesser che io sono indiavolato.
Ricevuta l’amabil vostra epistola
io fui a salutare a nome vostro
il garbato comune nostro amico#13,
ma in casa nol trovai, come sperava,
né ancora l’ho veduto, perché sempre
albergo nel sepolcro di Democrito,
ed egli contro d’esso non inciampa,
almen dentro a cadervi non l’ho visto#14.
Ben vi mando i suoi taciti saluti,
e so che s’ei sapesse che vi scrivo,
mi direbbe che voi nella memoria
e nel cuor più d’ogn’altro tiene impresso#15.
E intanto di rimarmi non stancatevi,
perché tanto per voi amore io porto
che troppa ingratitudine sarebbe
l’essere indifferente in questa causa.
Pur ben so che m’amate, e ne fan fede
i cortesissimi epistolii vostri;
e so ancor che credete che io vi amo:
ma non avete ancor dell’amor mio
avuto il testimonio maggiore.
Le strade voglio correre di Vienna
con pari ardor, qual l’etere trattando#16,
per l’inane dispiega il volo rapido
la candida del fulmine ministra;
onde possa con gli occhi alfin vedervi
e quanto ancora resta de’ miei giorni
a voi sempre condurre, amico, appresso
e se avvien che recida i vostri stami
la Parca inesorabile, e crudele,
anch’io voglio di vita uscir ben tosto,
ed ancor dopo a morto a voi d’appresso,
indivisi compagni, ed ombre amiche,
entrambi passeremo il guardo estremo:
una sol tomba anco dovremo scieglierci,
e farvi, prima d’abitarla, incidere
quest’epitaffio ai secoli futuri,
che a lagrimare il passaggiero inviti.
«O pellegrin, che qui ravvolgi il passo
ferma il tuo piede; il guardo arresta, e mira:
Metastasio, e Rovatti in questo sasso
giacciono estinti, ed ivi è ancor sua lira.
Quegli colse gli allor ch’ornan Parnasso:
questi pel caro amico anco sospira.
In vita ebber communi il guadio, e il duolo:
e in morte ancor li accoglie un sasso solo».
L’epistola in versi non ha altra intestazione.
In realtà dall’invio della Festa degli dèi, l’8 dicembre 1767, è passato poco più di un anno.
Per il giudizio sulla Festa degli dèi, cfr. a Giuseppe Rovatti, 24 dicembre 1767.