Al Signor Abate Metastasio
Inviata a 23 aprile 1769 e fatta di prima#1
Con voi che tanto siete amico mio,
e che in tante ocasioni avete dato
a me del candor vostro tanti segni
più che tra lor non fecero con nodo
d’amicizia scambievole, e soave
Ammone, e Pizia#2, Patroclo ed Achille
a que’ bei tempi che Berta filava
e che il duca Domenico le braghe
si tirava su, e giù con la girella,
come canta tuttor lombarda musa#3:
e che i topi col sale s’impregnavano#4
e che i camaleonti vivean d’aria#5
e che le gocce dell’uman sudor
si convertivan (di riso scoppio in dirlo)
con strana metamorfosi che certo
Ovidio non descrisse, in vive mosche#6,
con voi, dico, io smanioso, acceso, e torbido
querelarmi dovrei, ma pur non voglio,
per mia bontate che questa volta in vero
meravigliosamente è grande, e somma,
e d’ogn’altra bontade alto sormonta
il più esteso confin, non voglio, io dico,
che battano le strade di Germania
le mie giuste querele in voce, e in tuono
forte robusto acerbo alto sonante,
perché sì, e lo so, per Giove, e Pallade,
e con l’orrenda stigia palude,
il cui nome tremendo i dii paventano,
che il vostro error non è già nato (il cielo
guardimi da credenza sì diabolica)
non è già nato, dissi, il vostro errore,
il vostro errore non è già nato, dissi,
in voi da una fatal per gli ossi miei,
che stan concatenati saldamente,
ed in più tengon quella poca carne
di cui leggeramente son vestito,
onde celere tanto al corso sono,
che somiglio que’ nasi di cavalli
in viva stampa impressi ibera, o tartara,
ed ancora, se volete, quei del sole,
da una fatale, io dissi, indifferenza,
da un severo contegno, e desiderio
di non più conversare alla domestica,
come sogliono fare i buoni amici,
o quei soleano ancor del tempo andato#7.
Però, senza tenervi più sospeso,
vedete, se m’annoi giusta ragione.
Nell’elegante al solito, e ben degna
di Plutarco, e di Tullio esperta lettera
m’avete abbandonato per seguire
quell’alta signoria che in me credete.
Vi è noto pure, mio caro, e dolce amico,
o vel potete almeno immaginare,
che io non sono di quei grandi alti, e possenti,
che sull’aere, e le nubi il volo innalzano,
e dal sublime Ciel la terra mirano,
se pur si degnan di voltarvi gli occhi.
Io conduco una vita terren, e rigirato
filosofo son, ma sempre poi
con gli amici sincero e sol contento
di oservare la Natura, e amen di leggere
dei filosofi i dotti aurei volumi,
e di viver nel cuor dei dolci amici.
Io mi appago del poco, e per mio dogma
le ricchezze disdegno, sol bramando
quelle che d’uopo sono alla mia vita,
o al bisogno opportune de’ miei studi.
Io le mode non amo, e qual la peste
e il rio ammonio il conversare aborro
di que’ grandi che il mondo amano, e adorano
contento ognun d’un cuore, che Dio ravvisi
e non ceda ai perigli in mezzo a tanti,
che noi circondan, romorosi flutti,
e che anco i più cauti assorbono
dentro gli orridi loro aperti vortici,
se del mondo, e di sé talor si fidano.
Siccom uom che volgendo alcun volume
vo notte, e giorno, imparai ben che in grembo
d’Erebo partorì la Notte oscura#8
un uovo, dal cui guscio uscì puoi fuora
Amor tutto lucente il tergo, e gli amori
per l’ali d’oro, e più presto che il vento
quando abbatte le selve e i colli eterni
minaccia, e freme, e i mari ondosi aggira:
e so ancora che Amor misto dippoi
con il caliginoso alato Caos
alla luce ne uscì nel vasto Tartaro
il genere pennuto degli augelli
e, mesciute da Amor le cose tutte,
e confuso tra loro, e misse insieme,
nacquer la terra, il cielo e il vasto oceano.
Ma non so già che partorisse mai
o che in rerum natura si vedesse
a svolazzar di giorno, oppur di notte,
o nel buio, o all’aperto, o in mare in terra,
niun dio in ciel perché tant’oltre sane possum
spingere, amico, il mio sì brutto sguardo,
la signoria con cui parlate#9 in vece
di parlar col vostro Giuseppe,
che tanto v’ama, tanto onora, e stima,
che spesso di voi parla, e ragiona,
con gli amici, sé stesso, e ancor con Dio,
da cui ogni gran bene di desidera.
Io so ben che i poeti parlar sogliono
con genti che si fingono, e figurano,
e che non fur tra gli uomini qui in terra,
ma so bene altresì che non si dee
abbandonare un fido, e caro amico
per correr dietro ad un fantasma, e un sogno,
che nel fisico mondo non alberga.
Ma tornasse signore a parlar meco,
e crediate che alcuna signoria
meco al mondo non nacque, né mai vidi:
e pensate dippoi, se fu lustrissima#10.
Se per disgrazia mia mai fosse in terra
sarebbe affumicata, e rugginosa
più dei cancelli delle porte d’Erebo,
che su i cardini lor tanto susurrano
e cigolanti stridono sonori#11,
e più ancor del mio capo alpestre, e ruvido
ch’è un arsenal di ruggine verace#12.
Ma lasciam omai queste fanfaluche,
che a me la mano, ed a voi gli occhi stancano,
e invidiose di più belle cose
i bei momenti a noi del tempo rubano.
Dalla vostra sì bella arguta epistola
sentii, che la gentil savia damina
non è più sotto il vostro meridiano#13,
e trapiantata è già nella Boemia,
forse perché bei frutti al mondo dia
di matrimonio in santo nodo avvinta;
ma non sono per ciò di vita uscito,
ma tra’ vivi rimango, e ancor mi muovo
e mangio, e bevo, e studio, e penso, e ancora
mi si irritan le fibre, e il sangue circola:
e in mente ravvolgo, ed a voi scrivo
con la mia stessa man, che le parole
e verga, e segna; e l’epistolio chiude.
Direte, forse, o lunga fusse ancora,
che a voi troppo sovvente io mando lettere
e che io son la Sulpizia di Sallustio,
che quod vult valde vult#14. Ma questo fatto
grande, in vero, e non degno di perdono,
non è già error mio, bensì d’amore.
Or con lui fate i conti, correggetelo,
trafiggetegli il cuor, e tutte ancora
che fuor gli escan dal sen tutte le viscere
che di lui vi rinunzio ogni ragione.
Ma con lui sì inumano non sarete;
almeno poco mi costa il figurarmelo.
Or di costanza altissima munitevi
intanto amico, e in avvenir credete
che le lettere mie saran più rare,
perché io voglio partir da questo clima
(tal mi accendo disio il genio errante,
a una voglia or sbuccatami dal capo
di vivere in lontano estranio lido,
della mia vita alfin tenor cangiato)
e là volgere il passo, ove stampate
non son d’uomo vestigie, e là vogl’io
ad esame chiamare esatto e lento
le meraviglie tutte di Natura,
e descrivere cose non descritte,
e mandarne i volumi al nostro cielo#15.
Entro il racchiuso sen di rupi intanto
io, che vedo il futuro, e ciò che gli occhi
non mi pingono innanzi, certamente
troverò quel metal, che indarno Europa
ha cercato finor, che sottilissimo
verrà stirato, e che resiste agli urti
dell’aere che preme, onde già possa
i palloni formar per cui costrutta
appien la nave sia del padre Lana#16.
[...]
Dal mio perdendo entro [...] e al cuore#17
per le vene tornando roseo, e rapido,
e di nuovo a trottar entro [...]
ed al cuor di nuovo, indi a domar disponesi.
[...] in nodo avvinto
se potete appagar quel desiderio
che tanto mi accendeva e per cui scrissevi
l’altra lettera a questa somigliante
[...]
ma non crediate già che allor di voi
per scordarsi sarà la mia memoria,
o che a voi più pensi, e di voi cerchi.
Il mio cuore, volubile, e leggiero
non è già, ma costante, e fermo, e stabile,
come rupe nel mar dell’onde impavida,
ed acceso per voi di eterno amore
sovra d’essa per l’aere veleggiando
un Genio amico, egli verrà sovvente
(non cercando indrizzarlo all’alta Luna
con la volante rapida barchetta#18)
in riva del germanico Danubio,
a chiedere di voi, e riportarne
messaggiero prestissimo gli annunzi.
E se dicesse mai (a tal pensiero
mi cadono le legrime dagli occhi,
per gli affetti mi sento venir meno,
perdo l’uso de’ sensi, io manco, io muoro)
che la vostra felice anima bella
più rapida del fulmine, e del lampo
è salita all’eterne empiree sedi,
lascierò quel soggiorno, e volto il passo
all’Istro, e giunto all’urna vostra, e schiusela,
emulando la tenera Artemisia
entro il vino berrò le vostre ceneri#19.
Oh tu, che d’un amor soave, e puro
brami un esempio che ti accenda il core,
qui volgi il passo, e qui vedrai, tel giuro,
quanto possa su noi un santo amore.
Qui giace un uomo che non al mondo oscuro
tal per estinto amico ebbe dolore,
che sospirando amò tenero, e pio
bere il cenere amato, e poi morìo.
[...]
nemmeno in fioco, tremolo, leggero,
ma niente nulla punto un zero, un’acca
di questo parlerò, ragionerò,
terrò con voi sermon verbo parola#20.
[...]
Poscritto
Vorrei dirvi una cosa in confidenza,
e insieme non vorrei, ma pur costretto
a dirla io son: ma tra noi sempre resti,
né fia ch’altri giammai ne intenda i sensi.
Con focoso disio, con brama accesa,
o caro Padre mio, che tale or sei
o dell’anima mia parte più cara,
vorrei che procuraste, se poteste,
e se voglia vi prende, a me che poi
tutto vostro sarò, benché lo sia,
un qualche mecenate, o maschio, o femina,
a cui potessi consacrar sicuro
un qualche parto dell’ingegno mio.
Procurerò di racozzare insieme
quattro versi già fatti in altri tempi
o in poche carte un nuovo scritto in prosa,
in cui ragionerò, siccome medito
con enfatico stil, degli alti pregi
di quel minuto popolo, che in dolce,
e nobil ozio mia vita consuma,
e di cui spero un giorno far palese
cose da me solo osservate, ed altre
accresciute, e riposte in più bel lume#21.
Ma piuttosto che versi io volgo in animo,
che sia libera prosa il picciol libro,
che vorrei consacrare al nome illustre
di un novello Leone, o Mecenate:
e più che maschio avrei piacer che fosse
giovine dama, saggiamente amante
di quella parte illustre, e a me sì dolce
di storia natural, che in sé comprende
la monarchia, ed il reame immenso
di que’ viventi automati, de’ quali
poc’anzi ho ragionato, o che ab antico
il gran maestro di color che sanno#22,
ed un branco seguace di filosofi
credeano follemente che nascessero
dalla sozza putredine lor madre,
e lor fabbricatrice d’ogni membra,
d’ogni viscera loro de’ nervi, et cetera#23:
ed io ciò bramerei, perché lo scritto
enfatico, bizzarro, breve, e facile
più che da un grande Pollione, degno
d’esser letto sarebbe da Licori#24:
già ben io m’asterrei geloso al sommo
che in femminile giovin cuor non surga
per colpa mia pensier men puro, e santo,
come potete immaginare amico
ben facilmente, di far note, e chiare
quelle cose, che il cuor modesto, e puro
macchiar potrian d’una fanciulla ingenua.
Nella risposta, ed in ringraziamento
io non vorrei poi lettere soltanto
vuote di cose, e piene di parole,
ma di alcuna ghinea a’ mie fatiche,
e a’ miei sudori; se possibil fia,
bramo bensì o ricompensa, o dono.
Non credeste giammai che del lucente
oro la sete, o folle altra vaghezza
il mio cuore impigliasse. A me medesmo
sarei troppo nemico, e a’ detti miei
troppo opposto saria buia brama avara.
Ciò desidero solo, e il dico a voi,
perché provo gli effetti in me pur troppo
sensibili cotanto, e a me sì amari
d’una falsa credenza, che il mio dolce
presente studio al mondo inutil sia:
e tal creder fallace, e a me nemico,
e a me troppo funesto in quegli anni
dal cui solo favor gli studi miei
aver dovrian bene alimento, e vita:
e nel presente della vita mia
non gradito tenor, come io ravviso,
ben vi dirò, che in lor pensiero è un sommo
luminoso favore, e gran ventura
che a me lascino liberi i miei giorni.
D’un favor, dico, perché forse in mente
volgono di stancarmi, onde abbandoni
i miei studi sì dolci, e in altri pongami,
o in sentier non di lettere camini.
Ma giammai nol farò, quando dal loro
labro non venga a me (che al ciel nol voglia)
un sì duro comando. Allora poi,
qualunque sia, mi converebbe cedere
al voler per me sacro, e sempre grande
di quei che il freno de’ miei giorni guidano,
cui non fia mai che troppo onore io paghi:
però nulla di questo apparir veggo,
e tal giova sperare anco in appresso;
onde non è inutile cosa, e vana
a cercar mezzi, onde più ferma vita
abbiano i miei sì dolci studi#25. Intanto
sono ancora mie forze inferme, e deboli,
né scioglier ponno sì difficil nodo,
né rimuover da sé tutti gli ostacoli,
né a ogni mal riparar Virgiglio, e Flacco,
Dante, Petrarca, e il vostro aureo volume
basta a un poeta. Ma chi stampa l’orme
che io vo stampando, altro apparato, e ingombro
è di uopo ognor. Libri, e strumenti in numero
non poco, e scelti, e di valor non scarso
bene aver dee chi tal sentier camina#26.
A me che importa che d’intorno splendi
alcun lampo, o baleno di ricchezze,
quando le veggo a ciò rivolte, a cui
niun me impiglia disio, e il cuor mi tiene.
Una capanna, un negro pane, ed acqua
e, qual ebbe il Petrarca, una seggiuola
di paglia, e legno, e un tavolin tarlato
sarian bastanti al viver mio#27, ma insieme
nulla bramasser poi gli studi miei:
i quali sebben han grato alimento,
pure quel che vorrei, tutto non godono,
e molto ancor mi manca al mio bisogno,
per cui spesso degg’io cercarne in prestito.
Tale vi ho scritto, ma fra noi rimanga,
per quell’amor che mi portate, e portovi,
ogni verbo, e parola in confidenza.
E se mai conservaste, il che non credo,
questa lettera mia, deh cancellate
interamente, o recidete amico,
io ve ne prego, e vi scongiuro, e supplico,
queste parole, onde da alcun non siano
o adesso, o in avvenir viste giammai.
L’epistola non ha l’indicazione della data.
«Così, che del sudore degli uomini nascono mosche, e botte, sono falsissime ciance» (ivi, p. 128).
Ancora un ludo sulla formula di saluto usata da M.
Verg. Aen. 6, 573-574: «Tum demum horrisono stridente cardine sacrae / panduntur portae […]».
La chioma rossiccia è uno dei rarissimi riferimenti che Rovatti fa al proprio aspetto fisico.
Cfr. a Giuseppe Rovatti, 13 febbraio 1769.
Le carte 66r-67v sono fogli aggiunti, con scrittura molto tormentata.
Ancora un riferimento alla barca del «padre Lana» più leggera dell’aria.
Secondo la celeberrima formula dantesca, Aristotele (Inf IV 131).