Al Signor Abate Pietro Metastasio a Vienna
Due vostre lettere accuso di aver ricevuto in tempo della presente campagna: una nel mese di luglio, l’altra in agosto; nelle quali tutte ho ritrovato veridiche testimonianze della soda vostra, e confidente amicizia; di che avrò sempre motivo di ringraziarvi, e di sapervene grado moltissimo.
Sovverchio elogio mi sembrarebbe quello che vi siete compiacciuto di fare alla mia lettera sopra Dante, se non conoscessi la candidezza dell’animo vostro incapace di sporcamente adulare, e se la vostra grandezza non facesse a’ tutti comprendere che voi non siete di quelli che credono di ritrovare, e ravvisano troppo abbagliati e troppo creduli nelle cose un merito che non esiste. Quindi mi restarebbe di levarmene in superbia, se me lo permettesse la mia moderazione, e non comprendessi d’altronde la piccolezza del mio talento.
Niuno ipocondrico raziocinio aveva fatto sul vostro silenzio, immaginando, che dovevate già avere le vostre solide ragioni a differirmi il piacere di vostre lettere: oltrecché, quantunque ancor queste fossero mancate, non ne avrei fatto pur niuno, essendo troppo contrari al mio costume, e a quelle persone lasciandogli, che per la nativa lor piccolezza prendono ombra di tutto. Io per altro non mi stimo offeso ancor da quelli che mi credono tale, perché anch’io sarei della razza medesima, di quei che il sono; e adombrerei per essere stimato ombroso.
Vi sono teneramente obbligato de’ savi, ed amichevoli insegnamenti, di cui mi siete cortese nelle sudette vostre due lettere; ma i miei mali veridici, e non formati dal mio capriccio, son tali che non ammettono rimedio alcuno di semplice riflessione, e ormai sono cresciuti a dismisura. Io della mia vita non sento se non quello che ne sente un infermo, cioè il dolore: questi nel corpo, ed io nel più segreto, e più profondo dell’animo: né avrei stimato giammai che le mie angustie fossero giunte ad un eccesso sì grave#1. Mi sono andato alle volte sfogando meco stesso con alcune cantate; ma vi vorrebbe altro che versi, e che lagrime. Se io cambiassi fortuna, e forse cielo, forse ritornarebbe al mio cuore la mia prima, ed antica tranquillità. Una di queste cantate vi mando, e se la lettera si potrà contenere, un tratto ancora d’un’altra assai più lunga, che fu la prima che feci, nel mese di maggio dell’anno scorso: chiedendovi solamente il piacere che non ne facciate mostra ad alcuno; siccome pare che ad altri non palesiate i sentimenti di questa mia lettera. I quali ad ognuno, fuorché a voi solo, sono affatto reconditi con tutti simulando disinvoltura, non senza però grande violenza.
Negli scorsi due mesi, e nel presente ho dato l’ultima mano a varie osservazioni incominciate nel 1770, e 71, spettanti a’ diversi insetti parte ignoti, e parte tali che rimanevano ancora a sapersi molte curiosità della loro vita#2; e dagli altri scrittori che ne hanno fatta parola, disegnati più che descritti. Domani probabilmente darò principio a un’operetta curiosa sopra i medesimi, avendone fatto già in due, o tre fogli uno schizzo per passare con garbo da un ad altra cosa, e metterle tutte nelle dovute lor nicchie. Ho stabilito di farla sotto la forma di dialogo; la qual maniera di opera, quando non venga tessuta a guisa di catechismo, riesce bensì difficile, ma galante. Non mi è costato poca fatica a debitamente partirla, onde uno non abbia a dir tutto, e nulla, e pochissimo l’altro; ed a far sì che abbiano da venir troncate di quando in quando le storie, perché non generino sazietà, ed in somma a far tutto quello, onde abbia ad essere plausibile l’operetta, per quanto è permesso alla mia piccola industria.
Il signor Spallanzani è ritornato in patria felicemente dopo le lunghe sue peregrinazioni su le più alte montagne del milanese, eseguite da lui per un comando sovrano#3. Vi si fermerà per un mese e mezzo incirca, dipoi tornando alla sua cattedra di Pavia.
Voi continuate ad amarmi tal quale io sono, e tenete salda la vostra mente nel credere che le angustie abbenché atroci dell’animo mio non mi potranno far dimenticare che io sono ecc.
Di villa 21. settembre 1772.