Al Signor Abate Pietro Metastasio a Vienna

È molto tempo che aveva determinato di scrivervi, dandovi ragione di aver ricevuta la vostra lettera del 27 di maggio, e gli amichevoli saggi vostri consigli, de’ quali vi rendo, siccome debbo, infiniti ringraziamenti: ma sulla credenza che foste occupato in qualche nuovo lavoro per le feste teatrali in occasione del parto ormai maturo dell’arciduchessa#1, che sarà un giorno, nostra sovrana, ho differito fino al presente, e per l’esposta cagione, credo di aver differito a proposito. Oltrecché per tutto il corso dell’estate, e autunno presente, io sono stato così occupato che non ho saputo mai rinvenire un momento di tempo libero.
          I vostri consigli in quanto al pensare pure una volta a’ publicar le mie cose, non possono essere né più sinceri, né più interessanti per me. Io stesso aveva pur pensato più volte che dopo aver fatto finora il mestiere di radunar le materie, era pur tempo di fabbricare: anzi mi era accinto all’impresa col primo dialogo tra Malpighi, e Vallisneri sopra la nascita, sviluppi, e costumi di vari insetti#2. Ma ora, amico, mi veggo immerso in un mare di cose che mi circondano interamente: onde potete credere, se più che mai ho perduto la tramontana. Eccone la ragione. 
          Mi pare di avervi scritto altra volta che mi fu proposta una cattedra di storia naturale, e di averla io ricusata; ma che le circostanze erano tali che bisognava che mi dimostrassi non avverso, anzi propenso al servizio del principe. Mi spiegai che quando dovessi servire in qualche cosa, non era capace di altro che di fare la storia degl’insetti del nostro stato. È piacciuta al principe siffatta idea, e già ne ho ricevuto il comando#3. È questo un gravosissimo impiego che non mi lascierà mai tregua, e riposo, almeno per un buon numero d’anni: e l’opera che ne uscirà, sarà vasta; quando mi si lasci eseguirla a mio talento. D’esso parlando, io già servo senza pensione. Questa se mai venisse, mi sarebbe cara oltremodo; ma lo fo così ancor volentieri, per aggradire al sovrano, a cui debbo rispetto, e servitù. Desidero solo che mi sieno pagate le spese che necessariamente si debbono fare e per i viaggi, e per tante altre cose che non hanno mai fine. Io cercherò di risparmiare il possibile, né mi approfitterò di minima cosa: così esigendo il carattere d’uomo cristiano e d’onore; ma un soldo del mio non sarà mai che lo spenda, bastando, e piucché bastando, che non rimanga ricompensata la mia fatica, e la mia piccola abilità. Ho già presentato a chi si deve, una notarella delle spese che occorrono: ma non ho sentito ancor parola in risposta. Se il principe si sentirà di fare le spese, lo servirò fin quanto permetteranno mai le mie forze. In caso diverso, cercherò che mi sia levata la carica, non credendo mai che voglia obbligarmi a un servizio che siami di dispendio, invece di essermi di vantaggio, o almen né l’uno né l’altro. Acconsentendo egli alle spese, ogni anno partirò di città a’ primi dì di febraio, e non vi farò ritorno se non al tornar della fredda stagione; collocando intanto la mia abitazione or nelle basse colline, or nelle montagne più alte; or nelle valli, or su le rive del Po, ed ora in un sito, ora in un altro. Oltre il tessere la storia degli insetti mi sono ancora offerto ad illustrare le altre produzioni naturali per ciò che spetta a’ terme, acque minerali, vulcani, concrezioni pietrose, miniere, corpi marini fossili, strati, fontane, sassi, terre diverse, ed altre curiosità, delle quali abbondano i nostri monti. Ma intorno a questo neppure ho sentito ancor decisione veruna.
          Dal fine di aprile sino al presente non ho fatto altro che osservare e scrivere. Ho rinnovato le mie diligenze, avutone un più grande, e impetuoso motivo; e vi so dire che trovo la Natura più ricca di quello avessi mai sospettato, e creduto. Trovo sempre più vero che appena si sa di lei qualche cosa, e che per questo particolare il mondo
è ancora fanciullo. Per quanti insetti si siano scoperti dai savi Greci sino a noi, sempre de’ nuovi se ne discuoprono; e molti forse saranno ignoti anco al finire de’ secoli. Di cimici silvestri ne ho ritrovato a ribocco, e molte d’esse, che non ho avuto tempo ancora di descrivere, conservo in vasi, e scatolini per descriverle a tempo comodo nell’inverno avvenire, quando l’universale arrestamento delle funzioni degl’insetti mi lascierà ozio bastevole.
          Ho pur fatto copiosa raccolta di bruchi d’ogni maniera, e costumi; di falsi bruchi, d’api, vespette, mosche, e lor vermicciuoli, di grandi e piccoli scarafaggi d’ogni generazione, e struttura; e di cantaridi, di pidocchi di piante; e d’altri insetti diversi, da me negli anni scorsi non osservati, né presi; e di tutti costoro parlo distintamente ne’ miei giornali: non contentandomi d’una semplice nomenclatura, come fanno molti di quelli che si accingono a raccogliere gl’insetti del loro paese, de’ quali danno un solo catalogo, non la descrizione e la storia.
          Nel mese di maggio, che tutto passai qui in villa, ove poi feci ritorno ai dieci di luglio, accrebbi di 20 e più storie d’insetti quelle destinate per le note al Vallisneri, tra le quali un gonfietto delle foglie del vinco, da altri non mai veduto, e differente dalle cocole rosse del medesimo, e dal gonfietto del salcio di larghe foglie; e una maniera di convolvolo, o api del pruno selvatico. Sopra molte, e diverse uova d’uccelli feci pure in quel tempo curiose osservazioni per riguardo alle vie, o cannellini dell’aria.
          In questo anno tra la plebe più ignobile e più comune degli altri insetti da me osservati, e descritti, ne ho ritrovato alcuni che sovra d’essa si alzano, e che perciò avranno luogo nella serie incominciata dei dialoghi ove, come sapete, parlo de’ miei insetti più curiosi, e più mirabili. Sono una nuova spezie di ape selvaggia, che in legni vecchi nidifica; un nuovo nido di terra, diverso dagli scoperti, ed osservati negli anni scorsi; una curiosissima cimicetta selvaggia, che porta sul collo una vesica analoga nella figura, ed apparenza a un polmone di rana#4, e corredata di altre curiose creste, che mancano a’ tutte l’altre note finora: un piccolo moscherino della grandezza de’ bibuli, o di quelli del vino, anzi minore; il di cui stato di mezzo, o d’imperfezione non è quello di ninfa, bensì quello di semininfa; la qual cosa è affatto nuova che io sappia; non conoscendovi mosca o grande o minore che sia la quale nel suo stato imperfetto non sia ninfa, o palese poi, o nascosta ed occultata sotto la spoglia del verme, induratasi intorno alla medesima. Né solo per tale particolarità è mirabile questo piccolo moscherino, ma ancora per le sue uova da me scoperte, e per la struttura elegantissima dell’animaletto che ne deriva, e da cui balza fuora a suo tempo il moscherino sudetto. Ho ancor scoperto un nuovo genere di gorgogli-leoni, differentissimo da quelli a tutti noti, e per le uova, pel verme, per gli sviluppi, e per la grandezza, e colore, e cibo della sua mosca. Questa fu da me due anni sono osservata; e di essa favello nel primo dialogo, facendone fare la descrizione a Malpighi; ma conosceva allor solamente la mosca, e in questo anno ho avuto il piacere di veder tutto quello che ad essa appartiene. Altre due moschette leone da niuno non osservate ho pur scoperte, di piccolissima piccolezza.
          In questo anno mi sono ancora esercitato moltissimo nella riproduzione di certi neri vermetti acquatici, che già altre volte aveva tagliati. Oh le strane cose da me vedute! Non avrei mai creduto di poter osservare tante curiosità; ma la Natura sempre mirabile, e che sempre risponde alle nostre richieste, mi è stata cortese di sì bel dono. Le cose vedute in questo anno sono state dirò la sorgente, od il seme di altre ricerche, che voglio tentare in un altro. Mi sono costate molta pazienza, e tempo, e quasi trecento miglia di viaggio, avendo dovuto in due anni ripetere molte, e molte volte il camino dalla mia villa alla città, e da questa alla villa: ma le piccole mie fatiche sono state largamente ricompensate. Sono costoro inconservabili senza precauzioni gelose: ed ogni individuo richiede un vaso da sé. Io ne aveva quasi due cento, onde e per il rumore, e per la somma difficoltà di portarli, ho dovuto sempre lasciarli, ove gli aveva preparati, in modo di avere la loro riproduzione. Tagliati in Modena nel mese di marzo, e di aprile, sono poi stato costretto ne’ cinque mesi, in cui mi trovava, e ancor mi trovo, in campagna, andare di tratto in tratto ad osservarli in città#5.
          Era mia intenzione di fare, avendo tempo, il secondo dialogo nella fredda stagione che ora incomincia; ma nel trasporto de’ vasi in luglio, essendomi morti alcuni vermi, la storia de’ quali voleva porre nel dialogo, sono irresoluto per questo particolare.
          Vi scrissi ancora nella lunga mia lettera di gennaio che nell’agosto del presente anno voleva incominciare una volta le note all’opere del signor Redi: ma l’impegno della storia generale degl’insetti del nostro paese mi ha fatto pensare altrimenti. Se questa venisse mai sospesa, e non ne fosse più ispirato il pensiero che dalla sola mia volontà (giacché anco prima di un tal comando, ne aveva l’idea, sebben non generale di tutto lo stato, ma de’ luoghi vicini a Modena, e particolarmente della mia villa abbondantissima de’ medesimi) adesso mi accingerei il più presto che mai potessi.
          Mesi sono in alcuni ritagli di tempo che mi avvanzavano, e che toglieva a’ miei consueti lavori, mi posi a leggere libri di relligione contro quegli spiriti deboli che col più sconcio abuso de’ termini si chiamano spiriti forti: tra le altre opere trattanti questa materia sì delicata, ne ho letto una di qualche mole, francese, e senza nome di autore, intitolata: Prove della relligione di Gesù Cristo#6. La prima parte della medesima contiene una metafisica soda, e profonda; e tutta l’opera è un tutto che ha principio, mezzo, e fine. Opera è questa di ottimo gusto, e di pari valore. Vi si ravvisa una stretta argomentazione, sempre concludente, ed eguale. Non lascia mai scuotere il nemico#7: ma sempre lo incalza, e lo stringe. Lo segue ne’ suoi più lunghi, e oscuri riggiri; e scioglie, senza recidere, i nodi più intrigati, e a prima vista più indissolubili della questione. Si disimbarazza di tutto; mai non perde di vista il filo del suo discorso; né solamente supera, e vince gli spirito forti; ma ancora gli fa arrossire, e confondere. Un’opera di simil tempera mi ha poi fatto poco gustarne altre, minori al paragone, e il di cui merito per lo più si riduce ad un’eterna declamazione, che stanca, ed è pena non ordinaria a chi vuole solide ragioni, e stretto discorso.
          Presentemente nell’ore che m’avvanzano alle mie ricerche sopra gl’insetti ho cominciato, altre a leggere, altre a rileggere le opere degli autori che ne hanno lasciato scritto: ciò facendo particolarmente la sera, che non permette di usare il microscopio. Trattandosi di quelli che non hanno un buon indice, o non sono miei, ne fo l’estratto,  sovra di un libro accennando in compendio le cose di cui favellano, per averne un repertorio alle occasioni, giacché mi bullica certa idea nella mente che non so per altro se le altre opere che ho progettato a me stesso, e l’altra che sono costretto di fare, lascieranno esserla eseguibile: macchinando gli uomini cose troppo grandi in troppo piccolo tempo. Ho letto ne’ passati giorni prima d’ogni altro il Ionstono, avuto in prestito dal signor Spallanzani, autore futilissimo in queste materie; e che per se stesso non merita la pena di essere scorso. Per essere Taizo, scrive con qualche grazia: ma tutta l’opera è cattiva#8. Il metodo è disordinato, e confuso; di fanfaluche, e credulità se ne hanno quante mai se ne possono desiderare; ed ogni cosa è copiata particolarmente dall’Aldrovando, e dal Monfato. Del suo non vi è che la storia del baco da seta, trattata con qualche profondità, e lunghezza; ma piena di errori, di confusione, e disordine, però stimabile per il suo secolo, e da preferirsi per avventura al resto del suo volume. Tra le altre cose ha veduto la grande arteria che scorre la lunghezza del dorso; ma falsamente credette essere nervi dottati del movimento della diastole, e della sistole.
          Eccovi la narrazione degli studi fatti da alcuni mesi a questa parte: e voglia il cielo che io sia sempre nella situazione di poter fare lo stesso; giacché veggo di non essere nato a vivere a me, e ad una dolce, e soave tranquillità, ma a passar sempre da una ad altra fatica, e ad occuparmi non meno nel presente con gli studi, che nell’avvenire con il pensier de’ medesimi, non per desiderio di lode, e di gloria; bensì per certa naturale attività, per cui non soffro d’essere ozioso. Addio. Vivete ancora un secolo; e continuate a credermi con candore inalterabile di amicizia, e di stima ecc.

Di villa 3. novembre 1773.

 

Maria Beatrice d’Este, erede del ducato di Modena e Reggio, che il 1° novembre 1773 diede alla luce Maria Teresa, futura sposa di Vittorio Emanuele I di Savoia. M. non preparò una festa teatrale in occasione del parto.

Del progetto di un dialogo tra i due grandi naturalisti parla Spallanzani in una lettera dell’11 novembre 1772, rinnovando, come M., l’invito a portare a termine un’opera e a non intraprenderne di nuove: «Non perdete di vista il dialogo incominciato tra Malpighi, e Vallisneri, e vi rinnovo, che è scritto con grazia, verità, ed eleganza. Questo vostro libro sarà letto con piacere da tutti, e sicuramente vi farà onore. Ma caro voi siate tutto tutto in questa operina, e non la lasciate finché non è finita» (Spallanzani, Carteggio, p. 185). E ancora, il 12 gennaio 1773: «Ma i vostri dialoghi come vanno? Non vorrei che i manuscritti vallisnerani ve li facessero dimenticare» (ivi, p. 188).

Probabilmente a questo incarico si riferisce Spallanzani il 28 maggio 1773 quando scrive a Rovatti «Io mi rallegro dell’onore che vi ha compartitito il signor Duca, ma vorrei che a questo onore ci fosse attaccato qualche premio, o adesso, o poi» (ivi, p. 197).

«Oh con quanto piacere ho io letto gli studi vostri, e le curiose vostre scoperte! Venendo a trovarvi vedrò volentieri quelll’insetto che porta sul dorso una vescica analoga al polmone delle rane» (Lazzaro Spallanzani a Giuseppe Rovatti, 22 agosto 1773; cfr. ivi, p. 202).

«I vermetti neri, le salamandre, e le lumache assai mi trattengono: e nella futura estate ne vedrete i giornali, che spero non saranno pochi» (a Lazzaro Spallanzani, 18 aprile 1773; ivi, p. 195).

Probabilmente un’edizione delle Preuves de la religion de Jésus-Christ di Laurent François (1698-1772).

I seguaci di Spinoza, bersaglio delle Preuves.

John Jonston (o Jan Jonston), naturalista polacco («Tazio» sta per «slavo») di origini scozzesi (1603-1675); il volume è probabilmente quello delle Historiae naturalis de insectis, pubblicate tra il 1657 e il 1665, e che fra le diverse tavole comprende anche la descrizione del baco da seta. Il giudizio su Jonston è condiviso da Spallanzani, in una lettera a Rovatti del 29 ottobre 1773: «Giunto che siate in città mi farete il piacere (quando non ve ne serviate più) di consegnare al nostro corriere il Ionstono. Lo lascio a Scandiano in mano di mio fratello, unitamente agli altri tre tomi, avendo divisato di vestire una camera mia con le figure di tutti i quattro tomi, che a dispetto del libraccio sono bellissimo; e per questo solo oggetto mi è pur caro il Ionstono» (ivi, p. 203).