Al Signor Abate Pietro Metastasio a Vienna

Un silenzio sì lungo, come il silenzio di questa volta non credo di averlo mai tenuto con voi: né crediate che la dimenticanza o almeno la freddezza vi abbiano potuto aver arte, essendo troppo forte l’amicizia, e il dovere che a voi mi stringe, e che mi fa aver sempre presente all’animo la cara vostra persona. La cagione unica, e vera ne sono gl’intrighi, da’ quali più sempre mi veggo cinto all’intorno, ed il timore che non vi abbia a rincrescere una minore rarità di mie lettere, a motivo del vostro sempre crescente commercio epistolare che vi opprime, come mi avete più volte scritto, all’eccesso. Vi dirò bene che se non fosse questa ragione che mi arrestasse, poco per altro m’intratterrebbono i miei impegni, amando più di sapere di voi, e di avere di vostre lettere che la più gran scoperta che la mia diligenza, e la fortuna congiunte insieme mi potessero procurare.
          Durante l’inverno scorso, per parlarvi pure come ho costume delle mie cose, ho proseguito le mie osservazioni spettanti agl’insetti ricoverantisi in siti reconditi, e ad altri anco esposti in quella stagione all’aria libera: ed ho veduto cose non viste negli anni addietro: tra le altre due farfalle unite in congresso venereo, non ostante che fossero avvolte nel, dirò, invernale deliquio; forse così trovanti per essere state colte dal freddo in tal positura, e così restate sino che le trovai. L’osservazione è assai curiosa, né so ch’altri mai abbia visto un tale fenomeno. In dicembre scopersi ancora i silostori, o legniperdi acquaiuoli in tenera fanciullezza, e gli ho dipoi seguitati a vedere, benché difficilmente allora si trovino, in tutto l’inverno nelle mie frequenti visite fatte alla nostra villa di Solara situata sul Panaro, e distante dieci miglia dalla città; la quale per mia ventura è d’ogni maniera d’insetti abbondantissima. Non ho ancor trascurato in tale tempo i miei vermi neri acquaiuoli, i primi de’ quali trovai solo il dì 8 di febraio in qualche numero ne’ consueti lor fossi, ove a primavere ve ne sono poi a ribocco. Intorno a questa curiosissima razza d’animaletti, de’ quali altre volte vi ho parlato, mi sono poi in tutto quest’anno esercitato moltissimo: e le cose vedute in tal tempo hanno così stuzzicata la mia curiosità, e fattomi bullicar per la mente tanti pensieri intorno a’ medesimi, che nell’anno avvenire, e in altri seguenti avrò molto che fare per essi. Pochi animali sono curiosi, e mirabili come questi, e giacché niuno ne parla se non di volo, mi voglio profondare nelle loro ricerche quanto è per me possibile. Ma per quello che io preveggo, almeno tre anni mi restano da affaticare intorno a costoro: segnatamente nell’anno seguente non voglio prendere altri animali che questi almeno ne’ quattro mesi, ne’ quali fanno maggiormente che in altri la loro scena. Per la riproduzione mi restano ancora a tentar molte cose. La loro generazione non ho potuto dilucidare del tutto; e il loro cibo, e il loro soggiorno ne’ mesi, in cui rimangono asciutti i fossi, mi è affatto ignoto, ed occultato: e intorno a queste parti di naturale lor storia, che sono le più concludenti, voglio particolarmente aggirarmi. 
          Toltone queste piccole cose fatte d’inverno, ho passata tutta quella stagione in altri studi, cioè in studi di relligione, di metafisica, e di filosofia morale; né posso dirvi con quanto mio gusto. Duolmi in certo modo di non essere più libero nella scelta de’ miei studi, o almeno di non poterli cambiare senza apparire incostante, ché a quelli affatto vorrei consacrarmi, trovandovi un pascolo nobile, sublimissimo, ed adattato a’ miei desiderii. Non vorrei trascurare la storia dell’uomo (che qualche volta in alcuni momenti assaporo) drittamente sopra la sua natura, e sue passioni: oggetto sì grande della morale filosofia. Se non che alcune serie meditazioni, che vo di quando in quando facendo su queste cose, cagionano in me un certo riconcentramento che mi fa svogliare quasi di tutto me stesso e dell’amore ancor delle scienze, vedendo allora più che mai che le cose di questo mondo son tutti incanni, né vi è operazione, o pensiero, o espressione di noi che con un occhio filosofico osservata non ne apparisca piena all’eccesso. La storia, la società dei viventi, e un esame attento, e disappassionato sopra di noi ci manifesta per una generazione di animali malefica ingannatrice, e piena di passioni e di vizi più o meno funesti secondo la loro tempera, e i loro gradi, bene spesso contraddittori, adulantisi fra di loro, e che tentano del continuo di coprirsi con le vicine virtù. Disse una verità incontrastabile chi asserì ad un tratto la storia essere gli annali delle pazzie degli uomini; e poteva ancor raggiugnere, analizzando il suo detto, della loro forza, od astuzia. In fatti chi potesse sapere oltre quello ch’è palese per se medesimo, gli anecdoti tutti del mondo ritroverebbe che le azioni degli uomini, che in faccia alla moltitudine paiono nate ed intraprese per la privata, o publica felicità, per amore della giustizia, per reconditi fini politici, per l’equilibrio, e che so io, tutte hanno la loro origine nel fonte comune delle generali passioni. Ma di ciò sia detto abbastanza, e forse anche troppo per questa lettera.
          Vi scrissi nello scorso autunno di avere avuto il comando di unire notizie degl’insetti di questo stato, e farne la loro storia. Vi scrissi pur anco che ne assunsi, anco senza onorario o pensione, l’impegno purché mi venissero pagate tutte quante le spese che lo avrebbono accompagnato. Finora niuna decisione di questo affare, né per esserne esente affatto, né per dovermi accingere all’opera; non senza mio rincrescimento, mentre vorrei pur sapere o l’uno, o l’altro di questo. La ragione di questa mancanza di decisiva risoluzione è il desiderare per l’opera a me commessa, e il non aver vezzi per farla nascere. Io sono indifferente tanto a prestare al principe questa spezie di servità, come all’essere libero dalla medesima, avendo amendue queste cose un compenso, l’uno de’ quali uguagli perfettamente l’altro nell’animo mio, cioè ritrovarmi esente da qualunque intrigo per una parte, che quando vengono comandati, riescono allora d’aggravio; e l’aver modo per l’altra di veder più cose, e queste di più maniere, particolarmente su monti, nella scoperta delle quali non potrà forse mai senza quello appagarsi la mia curiosità. Ma la presente irresolutezza, per certi altri miei fini, alquanto mi duole, e mi frastorna.
          Nella primavera, ed estate presente molti insetti di ogni generazione ho avuto tra mano, da buona parte de’ quali or sono libero affatto, né penso per ora a prenderne altri, volendo riordinare per quanto ora è possibile, alcune delle mie cose. Gl’insetti di cui favello sono stati tignuole, geometri, altri bruchi più semplici, gorgogli-leoni, cimici, scarafaggi, mosche di più maniere; pidocchi di piante, acari, abitatori esterni di altri insetti; e alcuni altri che metto in classi dubbie e anomale non sapendo a qual genere ascriverli. In questo anno ho pure osservato molte spezie di falsipidocchi, o falsigorgoglioni, come li chiama il Reaumur, non mai veduti da me, né da altri che io sappia, non parlando il Reaumur, se non di quelli del bosso, e del fico: siccome pare una nuova maniera di galla, o di piccolo tumore, o gonfietto che universalmente può convenire col genere delle galle, della quale né Reaumur, né Malpighi, che sono gli unici che si profondino nella storia delle gallozzole, né altri, che io sappia, ne hanno finor parlato.
          In ritagli di tempo ho rilette mesi fa le memorie del Trembley#1 sopra i polipi, delle di cui scoperte mirabilissime sopra i medesimi è piena per così dire l’Europa tutta. Opera è questa di piccola mole, non essendo che due tometti, ma dell’ultima preziosità. Oltre essere un tessuto di scoperte, ognuna delle quali è mirabile per sé medesima, e di genere affatto nuovo, fa ravvisare ad ogni tratto di quella la somma oculatezza dell’autore, e la sua grande circospezione, e cautela. Pochi sono coloro che vadano così pesati, come egli procede, e che pure, come egli, sieno lontani a stabilire una cosa senza averne delle certissime, ed evidentissime prove. Scorso il Trembley, mi convenne per certa mia idea di leggere i due grossi volumi in quarto del signore Geoffroy#2, che formano un compendio di storia degl’insetti trovantisi dintorno a Parigi. Dalle stelle precipitai agli abissi, come voi dite nell’Olimpiade#3. Leggendo quest’opera, mi pareva di bere dell’acqua chiara. Opera è però questa laboriosissima, e fa vedere la fatica che sarà costata al suo autore nel metterne insieme i materiali, parlando in essa di due mila, e più insetti; ma una maniera affatto diversa da quella che  deve prefiggersi un naturale osservatore che desidera far passi avanti. Toltone alcune notizie preliminari, che per lo più sono note ad ognuno, e ricavate dall’opere altrui già stampate, nulla di curioso si legge; e i suoi insetti per lo più caminano a passo uguale. Non forma, a dir vero, una storia della natura; non apportando notizie storiche delle spezie particolari; ma solamente facendo un’arida, e spesso ristrettissima descrizione delle parti dell’animale giunto a perfetta grandezza. Quindi il suo libro non è che un museo schierato agli occhi, dirò così, della mente. Ciò tanto più manifesto apparisce, in quanto che tra gli animali scoperti dagli altri, e tra quelli che scopre egli non si vede differenza veruna. Parla de’ primi come fossero suoi, e degli ultimi come fossero d’altri. Il metodo di divisione è ancor cattivo, seguitando in parte il Linneo, e in parte formandosene un particolare, e suo proprio, che a quello del Linneo si avvicina, e si addatta. Spesso cambia i nomi alle cose; altre volte, ch’è peggio, fornisce una spezie di un nome già addottato dai naturali scrittori, e ch’era proprio di un’altra. Molti nomi che dai tempi di Aristotele sino al presente erano proprii di un genere d’animali, non lo dà che a una classe, dirò così, subalterna ad esso genere, lagnandosi a torto che in finadora sieno stati confusi questi animali tra loro, quando gli altri possono lagnarsi a ragione di lui, che voglia distinguere cose che non amettono distinzione, o se ne amettono, non amettono quelle ch’egli pretende, ma solo quelle ch’erano state amesse lodevolmente dagli altri prima di lui. Ne sono un esempio le mosche, che imbroglia fortemente il nostro autore nella sua opera. Non entro ad analizzarne per questa parte il suo piano: dirò solo che il suo metodo, e la sua divisione è poco giusta, e poco sincera. Essa è unica oltrecciò, e per essere generale è troppo minuta, e per essere unica è troppo ristretta. L’unico vantaggio che si può ricavar dal suo libro è che descrivendo un insetto già noto, riferisce i principali autori che ne ragionano: e per questa parte il detto libro può risparmiare agli altri molto tedio, e molta fatica. Fuori di questo, non reca se non poco, o niuno vantaggio, stanca pe’ nuovi nomi inventati senza proposito, la memoria; può facilmente far cadere in errori, ed io ingenuamente di me confesso che vi sarei caduto più volte, se non avessi avuto qualche piccola prattica in queste materie. Questa, e simili opere mostrano che i Reaumur, i Vallisneri difficilmente si possono riparare, e dirò così riprodurre: ma que’ pochi che ne potranno uguagliare il merito, avendone il genio e il talento, vivranno chiari con essi nella più remota posterità.
          Ma io non accorgendomene, ho scritto più oltre di quello che aveva in animo; né mi resta più luogo a parlarvi di altre cose, ed a spiegarvi altri pensieri che mi si aggirano per la mente, la comunicazione de’ quali a suo tempo rimetto ad altra lettera. Noi tutti siamo ancora in città, a motivo d’un mio fratello che datosi smoderatamente alla caccia, ha goduto dall’autunno in qua una lunga serie di febri periodiche, che non hanno fatt’altro in tutto quest’anno che far partenza e ritorno#4. Egli però si rimette: e già ho avuto ordine che domani prepari i miei libri, e i miei vasi sperimentatori per essere trasportati in campagna. Non veggo l’ora di respirare aure più libere, e più felici, e ricondurmi là dove più il mio desiderio, e il genio mio inclina. Intanto io vi auguro una sanità uguale alla mia, la quale con tutti gli strapazzi fatti nel verno, nel qual tempo ho sofferto più volte un vento che quasi rapiva me e il cavallo ad un tratto, non ne ho sentita la minima alterazione; anzi più sempre ravvivasi#5. Continuate ad amarmi, e non cessate di farmi l’onore di credermi

Modena 20 luglio 1774
 

Abraham Trembley (1700-1784), naturalista svizzero e collega di Bonnet, con cui dal 1760 fu direttore della Biblioteca di stato a Ginevra. La sua opera sui polipi, pubblicata nel 1744, è costituita dai due volumi delle Mémoires pour seroir à l’histoire d’un genre de polypes d’eau douce à bras en forme de cornes.

L’entomologo francese Étinne Louis Geoffroy (1725-1810); l’opera di cui parla Rovatti è l’Histoire abrégée des insectes qui se trouvent aux environs de Paris, dans laquelle ces animaux sont rangés suivant un ordre méthodique del 1762.

«Ah qual passaggio è questo! Io dalle stelle / precipito agli abissi [...]», Olimpiade, atto II, scena IX; cfr. Metastasio, Tutte le opere, vol. I, p. 608.

Lazzaro Spallanzani a Giuseppe Rovatti, 3 dicembre 1773: «Con queste quattro righe rispondo a due carissime vostre, e primamente mi rallegro con vostro signor fratello della sua ricuperata salute, avendo già inteso in Modena da vostra signora sorella, che era stato assai incomodato da una febbre gagliarda. Fategli adunque a nome mio le mie più distinte congratulazioni, ma avvertitelo nel medesimo tempo che abbia più riguardo di se stesso coll’andar meno a caccia» (Spallanzani, Carteggio, p. 203).


Sulla ritrovata buona salute di Rovatti cfr. anche Lazzaro Spallazani a Giuseppe Rovatti, 17 febbraio 1774: «Io sto arcibenissimo, e godo infinitamente della vita allegra, allegrissima, che vivete. Seguite a far lo stesso in avvenire, anzi sempre, che ve lo auguro e ve lo desidero» (ivi, p. 204).