Al Signor Abate Pietro Metastasio a Vienna

Il quale sopor fessis in gramine, quale per aestum dulcis aqua saliente sitim restinguere rivo#1: che disse il pastor di Virgiglio all’altro pastore#2 per riguardo a’ suoi bellissimi versi, lo potrei dir’io in quanto alla vostra gratissima lettera dello scorso agosto, con la quale m’ispiraste quel soavissimo, e vero piacere, che sempre mi hanno recato le lettere vostre: e lo potrei dire con più ragione, e veramente con verità se questo concetto in mia lettera non sapesse un po’ del Secento. Già non vi è ignoto che vi amo, e vi stimo, non quanto lo meritate, non potendo io giugnere a tanto; ma quanto n’è capace la mia mente e il mio cuore. Da quel tempo sino al presente, nulla ho più saputo di voi; e voi forse, e senza forse nulla di me. Permette[te]mi adunque, che vi dia delle mie nuove, giacché forse non vi saranno discare, prendendole già da miei studi, per non sapere in quale altra maniera parteciparvenene: e ciò facendo unicamente per quell’altissimo mio piacere che provo nel ragionare con voi.
          Nel tempo della passata campagna ho continuato a raccogliere nuove osservazioni sopra gl’insetti, non però tante, siccome era solito per avere atteso ad alcune altre cose, e segnatamente a scorrere diverse opere di vario genere, che da lungo tempo desiderava di leggere, e della lettura delle quali abbisognava. Tra gli animaletti esaminati in tal tempo, i più risaltanti e più curiosi sono stati una nuova mosca leona, le tignuoline a lumaca, che si trovano sulle muraglie delle quali non ha veduto il Reaumur, se non la portatile loro casetta; una spezie di gentilissime galbozzioline delle fogli di rovere, che credo agli altri ignota; ed alcuni altri, de’ quali non mi sovviene, ora che scrivo, né la struttura, né il nome.
          Nel mese di agosto feci ancora una lunga lettera scritta al signor Haller sopra que’ miei neri vermetti che per sì lungo tempo ho osservato negli anni addietro; e su quali ancora mi resta a fare un gran numero di osservazioni. La lettera mentovata non è già la loro storia, ma solo un prodromo della medesima, la quale, quando verrà fatta a suo tempo, uguaglierà nella mole la storia mirabile de’ polipi d’acqua dolce del signor Trembley. Io qui non mi estendo a parlarvi di essi per non accrescere sovverchiamente questa mia lettera, e perché, se trovo favorevole incontro fuori di posta, penso di farne far copia, e a voi spedire il detto prodromo, giacché per ora non lo vedrete stampato, per non poter trovar stampatore che imprima il dialogo sopra gl’insetti, al quale vorrei unirlo.
          Nella presente fredda stagione mi sono per così dire dimenticato di essere naturalista; ed ho pensato a tutt’altro che a questo. Le nevi altissime cadute ne’ giorni scorsi mi hanno impedito le solite mie ricerche in villa sopra il custodirsi degl’insetti nell’inverno; onde ho rimesso la partita al seguente gennaio. M’era proposto segnatamente di ricercarli sotterra, e negli embrici delle case, su quali negli scorsi inverni ho dimorato giornate intiere per ritrovarli colà ricoverati e annidanti; giacché anche colà in inverno ne soggiornano alcuni. Non veggo l’ora di trasferirmi a questo fine in campagna, perché vorrei pur compire la serie di queste osservazioni; e farne dell’altre, in questi tempi su i vermi neri, se pure ora si veggono, su legniperdi acquaiuoli, e sulle cicalette dello sputo del cucco#3, note a tutti gli osservatori, ma che niuno che io sappia, ha mai veduto in inverno, e che io fortunatamente scopersi, non cercandole, in tale stagione.
          Nella parentesi fatta a’ naturali miei studi ho esaminata di nuovo la controversia tanto famosa in morale del più, e meno probabile, nata, sono due secoli, per opera del Medina. Io già favoriva il probabilismo#4, come lo chiamano: però posso dirvi di aver cambiato ora in pochi giorni più volte opinione. Ma in fine mi sono tenuto forte in quella di prima, sembrandomi che sia un torto fatto alla verità il pretendere sempre il probabiliorismo#5, ed escludere sempre, anco presa con le dovute limitazioni, la sentenza benigna. Comprendo anch’io che secondo il mio giudizio diretto, e in rigor logico, di che sentenze amendue in sé probabile una favorente la legge e l’altra la libertà, ho da credere probabilmente secondo me esser vera quella che ha maggior grado di probabilità, e per conseguenza l’altra che ne ha meno, probabilmente secondo me esser falsa, dovendo vedere la verità dove maggiormente apparisce; e non potendo amendue secondo me esser vere, essendocché dove finisce il vero, comincia subito il falso, come dove termina l’attrazione, comincia subito la ripulsione. Ma non entra nella mia testa, come in prattica non si possa sospendere prudentemente il giudizio proprio, o diretto, che favorisce la legge, regolandosi coll’altrui, e riflesso, accumunarsi alla sentenza per esempio di san Tomaso, di Suarez#6, di Vasquez#7, del cardinale de Lugo#8, e di altri siffatti autori, che in un tal caso siano di sentimento contrario al mio. L’apparire a me vera un’opinione puramente probabile, non fa che sia, potendo in due opinioni probabili e contrarie tra loro essere la verità tanto dalla parte di una, come della parte dell’altra, e tanto dalla parte di una, come dalla parte dell’altra essere la falsità. La verità chiara, patente, non fluttuante, e determinata consiste in indivisibili, non così la probabilità, che come tante altre cose ha la sua latitudine. Anzi alle volte le sentenze false sono più probabili delle vere, cioè hanno una maggiore apparenza di verità; e già tante opinioni non solo stimate probabili, né solo ancor più probabili, ma persino probabilissime, sono poi state fulminate siccome false dall’alto del Vaticano. Quella proposizione dello Spirito Santo ne innitaris prudentia tuae#9 non so come possa sussistere nella testa di chi non ammette che il giudizio proprio e diretto, non il riflesso, e non si acquieta al parere di uomini grandi, stimati per tali dalla comune de’ letterati, e le di cui opinioni dopo il calore di tante dispute godono ancora della qualità di probabili; e benché note alla Chiesa, non sono state proscritte, come scandalose ed erronee, dalla medesima. Eppure quella è proposizione irrefragabile, siccome proposizione uscita dalla stessa mente divina. La materia è vasta, né si esaurisce con poche linee. Avrò a trattarne tra poco con qualche più di estensione in una mia lettera in risposta ad una di un relligioso di villa mio amico, che mi ha fatto un cumulo di domande sovra diverse materie; e che ordinariamente fra l’anno mi fa scrivere non poche lettere intorno a cose di relligione, o analoghe ad essa, e mi fa spesso scartabellar de’ teologi, a me ricorrendo siccome ad amico, per dilucidargli alcun dubbio, o per soddisfargli alcuna curiosità.
          Studi di simil genere sono, come altre volte vi ho scritto, a me sommamente cari. Ma mi manca il tempo di farli con molta profondità e come vorrei, navigando altri mari, se non tanto vasti, però sì estesi che impiegano nel solcarli più che la vita di un uomo. Io mi struggo di voglia di leggere attentamente da capo a fondo le opere tutte di san Tomaso, e del Suarez, da me scorse soltanto qua, e là per alcuno lor tratto. Questi due uomini sommi gli stimo i più grandi fra gli Scolastici (come sant’Agostino, e san Basilio fra i padri) e per quanto progressi andranno facendo le lettere, si metterranno sempre a livello di tutti i secoli. Quali viste non ha avuto quel grand’uomo di Suarez? E quanto profondamente non è entrato nelle materie teologiche da lui illustrate? E con quanto di forza non ha risposto fin da’ suoi giorni ai liberi pensamenti di nostri increduli, le di cui empie follie sono state prima abbattute che nate dal loro malvagio terreno? Manca ad essi, a dir vero, quella evidente espressione, per cui un uomo con maggiore facilità entra nella mente dell’altro, e per cui si comunicano scambievolmente le proprie idee. Ma ciò per colpa de’ loro tempi, ne’ quali non si era formato ancora abbastanza il linguaggio, dirò così, metafisico. Noi siamo in ciò superiori a’ medesimi, perché lo spirito metafisico formando il gusto del nostro secolo, ed entrando in quasi tutte le scienze, la materia si è più impastorita, per così esprimermi, nelle nostre mani, ed ha ricevuta una forma più morbida, e più addattata alla natura della medesima. Ma in quanto alla solidità siamo pur lontani ad uguagliarli? E chi sa mai quando toccherà di sortirne a’ nostri posteri?
          Quelle grand’anime, se per noi non sono stelle polari (giacché tali non possono essere se non gli scrittori canonici), sono stelle però di primaria grandezza, e non di quelle che si accendono, e poco dopo si estinguono nella vasta estensione de’ cieli.
          In questi mesi, ne’ quali i naturali studi mi lasciano non poco ozio, è mia intenzione di dar l’ultima mano ad alcune operette, e di compirne alcune altre ancor mutilate, per mettere un poco d’ordine nelle mie cose. Sono giunto agli anni ventotto della mia età; e sono più di sette anni che fatico davvero intorno a’ gran disegni. Pure sarebbono pochissime quelle cose che potessi lasciarmi scappar dalle mani, avendo finora abbracciato troppo, e per conseguenza nulla ultimato. Voglio pensarvi con serietà, ed eseguire una volta i giusti vostri consigli che in tante occasioni mi avete dato. Una verità così chiara è sempre stata da me veduta; ma mi è poi sempre mancata una volontà efficace per conformarmivi. Tra le altre cosette che vorrei vedere perfezionate, sono alcuni opuscoli in versi liberi fatti in questi ultimi anni, e ben differenti di spezie da quelli che faceva una volta: l’aver letto due o tre anni sono, le opere in versi di Pope#10, e di Haller, m’invaghì fortemente di quella maniera di verseggiare, che consiste in un dire non stemperato, ma stretto, e nervoso, bensì animato, ma con tale castigatezza che l’entusiasmo venga sempre regolato dalla ragione, e il vezzo poetico unito alla verità più severa. Mi posi a scrivere qualche cosa secondo il modo di questi due celebri uomini, però con esito meno felice, e a tenore della mia tenue capacità. Le cose che mi vagarono nella mente, per soggetto del canto, furono cose spettanti alla relligione, alla metafisica, e alla filosofia morale; segnatamente per la morte di un mio carissimo amico, di casa Sanseverino di Crema, giovane di pochi anni, ma di mirabile ingegno, e che aveva a gran passi peregrinato per ogni scienza, cominciai mesi sono, un componimento sopra l’eternità non ancora finito; e che mi è per altro costato non poca pena. Di questo mi permettete che alcun tratto qui ve ne scriva; ed è il seguente:

          O di mondi, e di tempi, ah voi partite
          vani pensier. Della mia mente al guardo
          offrasi solo eternitade. In essa
          tutto assorto è il mio amico; e il nome appena
          qui ne rimane. Egli un momento in prima
          viveva tra noi. Questo teatro immenso
          e di cieli, e di stelle ancor per lui
          producea vaga scena: il Sol gli offriva
          luce, nascendo; or l’invitava un grato
          riposo al suo tramonto. I sensi suoi
          d’idee ministri erano all’alma; e quale
          facciam noi, parte fea anch’ei del mondo.
          Ma di questo terreno orbe, in cui siamo
          varian le scene ad ogni istante, e tutto
          è instabile quaggiù. Ai dì sereni
          seguono i tristi, e alla più dolce gioia
          il mal più fiero. Ahi! La tua scena omai
          a cambiarsi si appresta. De’ tuoi giorni
          sei al termine appresso; e la catena
          delle umane vicende, onde siam miseri
          più che felici è per te giunta al punto
          che si allenta, e si spezza a ricordarlo
          pietade e duol mi si risveglia. Il pianto
          non so premer negli occhi; e il duolo istesso
          non soffre il mio silenzio, e a me qui detta
          tuoi duri casi. A tue serene in mezzo
          felicitadi un fiero male ti assalse:
          crebbe il dolor: si fe’ eccessivo: il corpo
          a resister non valse. I sensi interni
          cessan da’ loro uffici. Inoperosa
          l’ama restando entro sua sede, e dentro
          al carcer suo, tosto ad uscir si accinse.
          Dal tuo celabro a un tratto, ove sentiva
          l’essere proprio ella sen fugge a volo.
          Tu più nom non esisti: il corpo frale,
          cadaver freddo ignobil tronco e vile
          spoglia riman, di moto privo, e al pari
          di una pianta insensato. Un bullicame
          di sozzi vermi entro di lui si pasce
          nell’orror di un sepolcro. In breve d’ora
          ne rimangon sol l’ossa; il testo esala
          un putrido vapore. In polve anch’esse
          sciolte dal tempo alfine, non le distinguo
          dalla cener di un’ostrica, e di un gufo.
          Mio Dio, che sarà mai dell’universo,
          l’uom nel centro riposto, e a cui d’interno
          fan mille mondi e mille aurea corona,
          ch’hanno vita per lui e leggi e corso;
          che su d’ogni animal che vive in terra
          la man stende, e l’impero, infine anch’esso
          corre una sorte uguale; e tutto in polve
          qual degli enti il più vil sciogliesi a un tratto?
          Ah no. Tu di bontade eterna fonte,
          tu d’ogni ben sorgente, e di un terne
          premio dispensator, tu che creasti
          l’uomo per la tua gloria e viva imago
          di te imprimesti in lui, l’uom non destini
          a sventura simile: né l’esser suo
          sol si estende alle membre ond’egli è vento,
          quel fragil manto. È la più ignobil questa
          parte di noi, che in breve cede al peso
          della etade, e de’ mali, e resta l’altra
          nel suo primo vigore, e quelle emerse
          dalla forte tua man. Succederanno
          forse altri mondi al nostro; e mille soli,
          spento quel che ora esiste, un dietro all’altro
          verran riposti entro lo spazio immenso
          in cui nuota il Creato. Il tempo anch’esso
          vincitor delle cose immerso sia
          nel suo nulla primier, degli esser tolta
          ogni succession che ne misura
          e ne calcola i gradi. Essa vittrice
          e de’ suoni, e de’ tempi alfine estinti,
          resisterà mai sempre incontro all’urto
          comune delle cose. Al proprio nulla
          non tornerà di nuovo, e fia serbata
          al perpetuo esser suo. Oltre la tomba
          ha che sperasi né in questo basso albergo
          sol di mali ripieno, e di follie
          di nostra creazion compiuto è il fine.
          Siam crisalide in terra, e nati siamo
          a metter l’ale, onde spiegarne un giorno
          nell’ocean d’eternitate il volo.

Più avanti, ove parlo della durata dell’eternità, feci nell’opericciuola sudetta gl’infrascritti versi:

          Dopo mille million d’anni, o di secoli
          di Dio il poter tragga dal sen del nulla
          un granello d’arena; e tanto tempi
          scorrano sopra tempi, che un immenso
          cumul ne sia che mille volte agugli
          dell’universo alla gran mole immensa
          ove soli e pianeti han sede e giro.
          Ah no: tanti million d’anni cui fugge
          la mente mia e il mio pensier paventa,
          non sono eternitade. Ancor ne manca
          qual ne mancava in prima; e se di nuovo
          il numero raddoppio in sé medesmo
          multiplicato; e che da te sottragga,
          eternidate, io ti ritrovo intiera.
          Oh eternitade, oh abisso, oh delle cose
          voragine profonda, ah! Chi mai puote
          te misurar? Solo di Dio l’immenso
          sguardo ecc.

La posizione è falsa, come vedete, non potendosi parlare dell’eternità con l’idee del tempo, essendo esso affatto escluso; né si può dire che l’eternità sia un secolo moltiplicato infinitamente sopra se stesso, perché siccome il tempo non può esserne la radice, così non ne può essere nemmeno il prodotto. Ma questi calcoli di tempi immensurabili da noi sono compatibili per addattare in certo modo quel magno abisso alla nostra ristretta capacità, non avendone noi un’idea chiara, e precisa, come dovremmo avere per farne un dritto ragionamento, nato dalla sua natura medesima. D’altra cosarella poetica (giacché sono in parlarvi di cose tali) vi fo copia di questi pochi altri versi [...]#11
          Questa maniera di poesia sarebbe quella che più si addatterebbe ora al mio genio, e al mio temperamento, se avessi tempo di assumerla. Mi duole di non essermivi esteso, quando si attendea di proposito ne’ primi anni della mia carriera, particolarmente allorché la mia fantasia era più viva, o almen meno sterile: inariditasi quasi affatto o per il troppo numero delle idee, o per tante aride descrizioni di più centinaia d’insetti, le quali molto convenendo nell’universale tra loro, e andando quasi sempre di un passo medesimo, l’hanno mortificata, e spento in essa qual pocolino di vivo che aveva.
          Addio. Scusate, se vi ho trattenuto sì lungamente con questa lettera; mentre simili eccessi pur sono eccessi perdonabili ad un amico derivando da un ottimo principio, vale a dire da una troppo radicata amicizia. Questa col più affettuoso dell’animo farà sempre protestarmi che io sono ecc.

Modena 25. dicembre 1774.

 

Verg. ecl. 5, 45-47.

Menalca a Mopso.

La superfamiglia Cercopoidea degli insetti, tra cui la sputacchina, si distingue perché le larve uscite dalle uova si circondano di una massa schiumosa, che popolarmente veniva chiamata ‘sputo del cuculo’.

Il probabilismo sostiene la liceità di un’azione che ha suo favore un’opinione solidamente probabile; il principio venne formulato per la prima volta dal domenicano e teologo spagnolo Bartolomé de Medina (1527-1580) all’interno dei suoi Commentaria in primam secundae del 1577.

Il probabiliorismo, orientamento di teologia morale sempre di matrice domenicana, sosteneva che, tra la legge e la libertà, l’opinione favorevole alla libertà poteva essere seguita solo se probabilior, più probabile dell’opinione favorevole alla legge. Nel Settecento, tra le tante polemiche di natura ecclesiastica relative alla morale si assistette a un nuovo divampare della disputa tra probabilismo e probabiliorismo. Già da qualche mese Rovatti aveva aggiunto alle sue abituali letture naturalistiche anche quelle di teologia morale.

Il gesuita Francisco Suarez (1548-1617), il «doctor eximius» della Compagnia di Gesù, tra i più influenti teologi cattolici spagnoli.

Altro grande esponente della neoscolastica barocca, Gabriel Vásquez (1549-1604), successore di Suarez al Collegio Romano ed esponente del probabilismo.

Juan de Lugo y de Quiroga (1583-1660), gesuita e tra i più infuenti rappresentanti della neoscolastica barocca, insegnò dogmatica dal 1621 al 1642 nel Collegio Romano e fu tenuto in grande stima da Urbano VIII, che lo fece cardinale. 

Proverbi 3,5.

Quasi certamente Rovatti, più che alle traduzioni di Antonio Conti del Rape of the Lock e dell’Eloisa, si riferisce a una delle tante versioni italiane (probabilmente quella di Anton Filippo Adami edita nel 1756 ad Arezzo) dell’Essay on Man, che fornisce la materia per questo suo abbozzato (ed effettivamente più felice delle passate prove poetiche) componimento sopra l’eternità; cfr. Franco Arato, Pope italiano: le traduzioni settecentesche dell’Essay on Man, in Transiti letterari e culturali, vol. I, a cura di Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta, Trieste, EUT, 1999, pp. 75-85.

Nella minuta i versi non sono stati trascritti.