Al Signor Abate Pietro Metastasio a Vienna

Un tenero, e delicato riguardo verso di voi ha fatto che io tardi vi scrivessi, dopo tanti mesi. Per altro non scrivo mai così volontieri, che quando a voi scrivo; né vi sono momenti a me più cari della mia vita che quelli, in cui ricevo le vostre lettere; le quali io leggo sempre avidamente più volte; commetto alla memoria, e m’immergo, per così dire, dentro di esse, pascendomi con dolce foga di questi amati pegni dall’amor vostro. Se fo mai atto di riflessione, uno si è quello che mi determina a scrivervi rare volte. Secondando il mio genio, anzi il mio impeto, giugnerei a stancarvi per troppa frequenza, e prolissità, ancorché foste nella più florida giovinezza. Né somiglianti espressioni vi debbono parere eccessive, sapendo voi che vi amo, quanto gli amanti i più perduti si tengon care le loro belle.
          Io, se desiderate di saper nuove di me, vi posso dir francamente che ora sto bene, quanto sia mai stato, rinvigoritasi la mia salute, dopo un lungo periodo di febri autunnali, che con varie interruzzioni, e a riprese hanno voluto condursi dal novembre scorso sino a’ passati giorni#1. Per altro non ho quasi mai omesso né le mie solite scorse in villa anco in tempo d’inverno, né le mie consuete occupazioni per riguardo all’investigare gl’insetti, a studiarli, e tener dietro ad ogni loro minuzia, e particolarità della struttura, e della vita. Se queste febri hanno contribuito a smaltire l’umore atrabiliare (se pure è vero che esista un tal umore#2) sono state per me una manna, e un favor del cielo. Sapete già che a quel male diabolico sono soggetto da lungo tempo; e mi ha cagionato ora fissazioni di fantasia, ora amor della solitudine con immaginazione, per altro tranquilla, ma con una universale indifferenza per tutte quante le cose, non essendovene una che giugnesse ad interessarmi, toltone la lettura di qualche libro aggradevole, letto sanza alcun fine ma solo per leggerlo: e di questo strano sintomo ho avuto prove particolarmente l’inverno, al mettermi in riparo in città dopo lunghi esercizii della persona in campagna ad occasione delle osservazioni invernali: mali fisici, purtroppo veri, e reali, per cui ho sofferto dolori orribili derivati, cred’io, da circolazione di sangue male eseguita, a motivo della lentezza della vena porta, ch’è vena verissima, arciverissima porta malorum, come la chiamavano i medici antichi#3. Forse è il genere di vita per lo più sedentaria che io meno, il quale mi ha assoggettato a questi malanni, mentre naturalmente dovrei esserne esente, essendo il mio sangue di temperamento sanguigno-bilioso#4, ch’è ottimo, al dire de’ medici, per viver bene. Mi giova a credere che le lenti febri da me sofferte mi abbiano risanato. Quello ch’è certo, è che la febre è una valida causa motrice che scuote ed agita le particelle nemiche rimmescolate col sangue, e che portandole dal centro alla circonferenza è capace di riparare a questi sconcerti: ed è certo altresì che ora mi trovo in ottimo stato, e che mi sembra di avere, per così dire, cambiata macchina. Mi era messo in qualche apprensione, temendo che il male fosse ormai divenuto organico, e quindi irremediabile, almeno nella radice; pure andava ancora sperando che fosse ne’ soli umori al sentir calmati i dolori, e ad irrobustirmi la persona dopo essermi agitato violentemente e spesso a cavallo: il qual vantaggio otteneva, perché le pendule viscere del basso ventre allora scuotendosi, ed animandosi anch’esso a un moto più vivo il torbido sangue, si disimbarazzavano i vasi di esso, era vinta la sua non naturale pigrezza, ed essendo la macchina allora tutta in orgasmo veniva spinto con moto più rapido, e più gagliardo, e rimettevasi giustamente a dovuta circolazione. Che se il male fosse stato ne’ solidi, non ne avrei in tal caso ritratto che danno. La causa del male fu ancora accresciuta da chi era in obbligo di sminuirla, usando i veri principi dell’arte, se pur l’arte medica ha veri principi. Uscii di cammino per la scelta de’ cibi, ch’erano tutt’altro che quello che esigeva la mia costituzione, e solamente dopo un lungo tempo compresi che mi avevano deviato dal buon sentiero. A forza di studiar me stesso con attenta osservazione in fine conobbi qual era il regolamento che mi apportava nocumento, e quale vantaggio e tralasciando l’uno, e usando l’altro, tornai sulla buona strada, e forse ancora per questa parte mi trovo nella situazione presente di sanità.
          In tutto il tempo di questo giuoco non ho mai tralasciato i miei studi, toltone negli accessi più gagliardi, e più fieri, durante i quali ho passato intiere notti senza prender mai sonno, agitandomi e dibattendomi con una smania inquieta, e continua, che non mi lasciava un sol momento in riposo. Cessati a un tratto i dolori, tornava a un tratto nella prima forza, e tranquillità; e poteva studiar come prima senza il minimo nocumento, e attendere alle mie solite osservazioni.
          Di queste parlando, avrei a dirvi più cose, che non posso rinchiudere in una sola lettera. Solo dirò che di gran lunga ho aumentato il numero degl’insetti da me scoperti, o illustrati, tanto di quelli che serviranno per operette particolari, come di quelli che sono destinati per la storia generale di essi. Mi sono segnatamente esercitato non poco su i lumaconi mignatte, o spezie di vermi neri acquaiuoli, de’ quali vi ho parlato altre volte. Oltre le altre cose spettanti alla generazione, nascita, moto ecc. ho osservato nuovi fenomeni per riguardo alla riproduzione, preparandoli in nuove maniere, per aver nuovi risultati, e sforzando, dirò così, la Natura, per vedere quanto è capace in questi minimi, ma non disprezzabili animaletti. Nel presente anno ho scoperto un’altra spezie assai più piccola de’ medesimi che in seguito anderò osservando; e che quantunque convenga in molte parti con l’altra più grande, e a me più nota, pure, per quanto ho potuto finor vedere, disconviene dalla medesima per altri versi. Tutti costoro hanno quasi terminato in questo anno, per quanto è a me, la loro carriera, non restandomi in seguito che a notar poche cose. Altri di altri generi mi trovo ad avere tra mano, che mi occupano tutto il giorno; e che unitisi ad altri appresso di mano in mano anderanno sempre occupando, formando una catena interminabile#5, i di cui anelli succedono l’uno all’altro senza lasciare vuoto alcuno intervallo, almeno considerabile. I presenti sono sì brevi che non mi lasciano leggere alcune operette straniere a’ miei studi, che vorrei scorrere per ricreazione, e sollievo, godendo in tal modo le mie vacanze.
          Addio intanto, amabilissimo amico. Datemi nuove della vostra salute, che desidero sempre lieta, e costante. Amatemi come avete fatto finora; io so per tante vostre proteste che amerete moltissimo il vostro ecc.

Modena 21. giugno 1776.

P.S. Nel mese scorso fui impegnato di fare una lettera#6 a voi diretta, per un ebreo che ama di far di uomo di lettere e che ora è andato in Inghilterra, e in Ollanda, e forse farà ancora il viaggio di Vienna: desiderato di aver lettera a voi scritta per avere mezzo di vedervi (ma solo e non altro) nel presentarvela, in caso che si rivolga alla parte della Germania. Negai lungo tempo, ma pur dovetti cedere non ad esso (a cui l’avrei infallibilmente negata) ma a persona per me di riguardo, che volle avere la debolezza di procurargliela. Ve ne do avviso, perché non volendolo amettere alla vostra presenza, siate in cognizione di causa. Sono di nuovo ecc.

 

Per tutta la seconda metà del 1775 e la prima del 1776 Rovatti soffrì di continui attacchi di febbre, a cui cercò di far fronte con un regime salutare di bagni e diete. Cfr. Lazzaro Spallanzani a Giuseppe Rovatti, 13 agosto 1775: «Si suol dire che il male viene a cavallo, e parte appiedi. Non sarebbe adunque maraviglia, né deve esserlo se non sentite così subito i vantaggi che sperate ne’ bagni, e nel regime, in che adesso vi siete messo» (Spallanzani, Carteggio, p. 213); Lazzaro Spallanzani a Giuseppe Rovatti, 15 dicembre 1775: «Desidero, che la febbre non vi abbia più fatta una delle sue visite importune, e perché mi preme la vostra salute, e perché così sentirete meno incomodo nel correggere i miei fogli» (ivi, p. 216); Giuseppe Rovatti a Lazzaro Spallanzani, 20 dicembre 1775: «Dopo di avervi scritto l’ultima volta ho avuto altri due giorni di febre, da cui però sono risurto senza soccorsi medici; il che mi rende più franco, e più sicuro» (ivi, p. 217); Giuseppe Rovatti a Lazzaro Spallanzani, 13 gennaio 1776: «Io de’ passati due o tre giorni sono stato assai bene, né mi è venuta febre, che abbia almen conosciuto. Ma oggi, sarà mezz’ora, l’ho sentita a venire stando qui al mio tavolino, ed ora è un po’ più gagliardetta dell’altre, cioè dell’ultime, non delle prime» (ivi, p. 219); Giuseppe Rovatti a Lazzaro Spallanzani, 18 maggio 1776: «Gran pena è stato lo star poco bene in questi mesi, ne’ quali ferve il calore delle esperienze. Non si ha che far con dei morti, ma con la natura che vive, e che opera. Con la febre in dosso ho dovuto far quello che non poteva rimettere ad altro tempo senza ricominciare da capo. La situazione di chi va investigando le produzioni della natura attualmente operatrice è in certe circostanze la più trista dell’altre, ed io l’ho più d’una volta provato. Felice voi, che per la vostra ferma e costante salute non siete stato mai posto a questo cimento» (ivi, p. 230); e finalmente Giuseppe Rovatti a Lazzaro Spallanzani, 18 giugno 1776: «La mia salute è ottima presentemente» (ivi, p 232).

La teoria degli umori verrà definitivamente abbandonata dalla medicina ufficiale solo nella seconda metà del diciannovesimo secolo.

La vena porta trasporta il sangue venoso al fegato dai segmenti del tubo digerente posti sotto il diaframma, dalla milza e dal pancreas. Ancora nel 1698 un celebre medico come Georg Ernst Stahl poteva scrivere una Dissertatio medica inauguralis de vena portae porta malorum hypochondriaco-splenetico-suffocativo-hysterico-colico-aemorrhoidariorum.

Il tipo sanguigno presenta un eccesso di umore rosso, quindi di sangue; più volte Rovatti menziona il troppo sangue come causa dei suoi mali e ricorre ai salassi.

Ancora il tema della «grande catena» e del Natura non facit saltus leibniziano.

Cfr. a Pietro Metastasio, 17 maggio 1776.