27. aprile 1778

Al Metastasio

Io sono in collera fortemente meco per la mia peccaminosa indolenza, che mi va ognora crescendo, e che ormai più non sono capace di scuotere. Sono quattro e più mesi che proposi di scrivervi; e che ho rimorso di non averlo ancor fatto; senza che abbia mai saputo risolvermi. Non vorrei che perciò dubitaste della mia fede, e del candore di quella serena e ferma amicizia che da tanti anni ho stretta con voi. Non sospettatene, amico caro, mentre anzi sempre più vi amo e vi stimo; e mi siete sempre presente alla mente, ed al cuore.
          Siate certissimo che ho sentito, e sento interni rimproveri di questo mio troppo lungo silenzio, il quale innoltre mi ha defraudato di quell’immenso piacere che provo all’avere le vostre lettere. Ma io sono divenuto tardo e pesante nelle mie cose#1; da più mesi ho tenue ed ineguale salute, e una combinazione di circostanze per me disgustose mi ha fatto assumere un peso, per cui non era mai nato; non avrei mai creduto di dovermene assoggettare; e che invola più ore del giorno alle mie letterarie occupazioni; questo onde confido di ottennere da voi non solamente perdono, ma ancora compatimento.
          Nella scorsa estate, ed autunno, non ho fatto che osservare un numero grande di insetti, de’ quali ne ho descritto di curiosissimi, e che tutti avranno luogo parte ne’ dialoghi, parte nella storia generale di essi. Durante l’inverno mi era prefisso di fare più cose, delle quali non ne ho incominciata pur una. Ho solo terminato alcune poche osservazioni; letti alcuni libri, e raffazonati alcuni degli antichi miei versi. Da qui arguite che poche ore di ozio ho potuto godere; speso il resto del tempo nel formar nuovi piani e stabilimenti d’interessi domestici, e nel vegliare sopra affari che un dovere preciso, e l’amore alla famiglia non mi ha permesso di trascurare. Comincio a sentire di essere in società, e a trattar con insetti da due sole gambe, che sono più malefici di tutti gli altri. Provo altresì che quell’ozio beato, e tranquillo, che ho goduto per tanti anni, più non ha la sua piena esistenza se non nel mio desiderio. Ma il mio spirito non è fatto per questi oggetti troppo rincrescevoli, e oscuri, e cerco tutte le vie per liberarmene. Se non mi riesce per altra strada, converrà che lo faccia prendendo qualche gagliarda risoluzione. Intanto io mi riduco a’ miei studi il più che posso; ed anco ora lo posso, più di quello che potessi ne’ mesi scorsi. Pure ancor più sento questo legame non mi soddisfa, e non ne sono contento in niun modo.
          Ora sarebbe tempo opportuno di immergermi nell’osservazioni de’ lumaconi-mignatte, non ancora del tutto illustrati, essendo ora il [?] della loro comparsa; ma conviene che le trascuri in gran parte, rimettendo la partita ad altro anno, se avrò, come credo costantemente di avere, più ozio, e tranquillità.
          In gennaio feci alcuni versi in morte dell’amico Haller#2, che mandai al di lui figlio, rispondendo alla lettera circolare da esso speditami per la morte di sì grand’uomo. Non mi riuscirono di quel nerbo che avrei voluto che avessero; ma quelli sono, a voi ancora li trasmetto, perché vediate di quali debolezze capace è la mia testa, trovandosi piena di tutt’altre idee, che di poetiche.
          Addio, amico il più amabile, e caro di tutti gli uomini. Vorrei esser più lungo, ed entrare in dettagli più minuti delle mie osservazioni già fatte, e non ancora comunicatevi, ma il tempo mi stringe; e mi determina a cose che sono la sorgente e l’occasione della mia infelicità. Amatemi; e senza dubitar mai della mia eterna corrispondenza credetemi senza fine ecc.

 

Anche nel carteggio con Spallanzani si nota un periodo di circa un anno (dal 6 giugno 1777 al 12 luglio 1778) in cui non sembrano esserci lettere tra i due; né pare essere una lacuna, come dimostra Spallanzani il 12 luglio: «Quando voi mi scrivete, le lettere vostre mi sono carissime, e quando nol fate, sarei un indiscreto a pretendere che lo faceste, sapendo le molteplici vostre occupazioni, e lo stato di vostra salute, che non sempre è il migliore del mondo. D’altronde se talore passano mesi e mesi ch’io non vi scrivo, e perché ho io da pretendere che voi scriviate a me? Lasciate adunque di farmi scuse pel lungo vostro silenzio [...]» (Spallanzani, Carteggio, p. 239).

Albrecht von Haller (1708-1777), medico, naturalista e poeta svizzero, fondatore e massimo esponente della scuola medica di Gottinga. Tra i massimi fisiologi del Settecento, fondò la teoria dell’irritabilità. Morì il 12 dicembre 1777 a Berna. Rovatti gli scrisse alcune lettere, conservate nei Manoscritti Campori.