Al Signor Metastasio
Io non so, caro amico, qual raziocinio possiate aver fatto così strana lunghezza del mio silenzio. Sono per altro sicuro che, qualunque esso sia stato, sarà stato tale da non offendere il candore della mia amicizia: e credo costantemente che nelle vostre incertezze avrete piuttosto dubitato che io non sia morto, o caduto in una lunga e abituale infermità che m’impedisca lo scrivere, che divenuto dimenticante, sconosciente, ed ingrato a tanto amore che voi avuto per me. La ragione è troppo chiara. Noi ci conosciamo reciprocamente abbastanza, perché nonostante le stravaganze, e l’irregolarità da parte mia del nostro commercio epistolare, voi non mi dobbiate creder capace di un errore così mostruoso, io non vi creda disposto a sospettarlo nell’animo mio. L’origine di un tale scempio non è stata né quella che escludo da voi, né quella che potrebbe esservisi rappresentata all’immaginazione: che anzi io sono e vivo e sano della persona, e tale sono per lo più stato sempre dal tempo che non vi ho scritto; bensì una lunga, e finora vana aspettazione dal mese di settembre dell’anno scorso a questa parte di un incontro fattomi sperare per via di chi partito già di costì, e andato in Toscana, doveva farvi ritorno ripassando per Modena: in vista di questa occasione aveva preparato un piego a voi diretto con varie cosette e poetiche e in prosa per commettere all’ospite mentovato: e quindi aspettandolo io di giorno in giorno, ed egli non mai venendo è accaduta la lunga interruzione di lettere.
Ma, delusa la mia speranza, trattengo il piego che non è da spedirsi per la via della posta; e vi scrivo senza aspettare più altro, per desiderio di avere di vostre nuove, che tanto mi stanno a cuore e per darvene delle mie, restandomi solo il dolore di non essermi accorto prima della vanità dell’aspettazione in cui sono stato per tanto tempo; e che quel giudizio che fo al presente di essa doveva vantare un’epoca anteriore almen di un sei mesi. Sono però persuaso che queste scuse saranno da voi accolte per quel che sono, cioè come storiche, e vere, non come imaginate, e favolose. Né vi si dee voler molto a persuadervene, sapendo voi con quale ardenza desideri vostre lettere, e qual piacere mi spirino per tutte quelle ragioni che non sono eloquente abbastanza per mettere in vivo lume, e che non giova snervare con espressioni che troppo male sarebbono atte a lor corrispondere: restrigendomi a dirvi solo che vi stimo al di sopra di tutti gli uomini; che vi amo quanto me stesso; e che voglio chiamarvi l’amico per eccellenza.
Io vo’, e va seguitando le mie naturali osservazioni, che si aggirano principalmente su i miei lumaconi-mignatte, e su una razza di legniperdi terrestri de’ quali ne sono nati poi migliaia nella mia camera ne’ giorni scorsi, e ne vanno tuttavia nascendo degli altri dalle loro madri parte prese alla campagna, parte nutrite ne’ vasi; la cui storia è assai curiosa, e già abbozzata dal signor Pallas#1 academico di Berlino, e che io vorrei interamente esaurire per quanto è permesso alla mia piccola abilità. Bruchi, vermi, cimici selvaggie, galanti moschette, tignuole, ed altri curiosi animaletti formano pare l’oggetto delle mie ricerche, ed occupazioni; e vanno ampliando la mole de’ miei giornali.
Le osservazioni sul numero degli accoppiamenti di lumaconi-mignatte di cui parmi di aver parlato#2 seguitavano ad occuparmi per quasi tutto l’anno scorso, e sono state delle più penose per me. Ho voluto farle sopra un buon numero d’individui presi in più stagioni e in più tempi; e pel tratto di quattordici in quindici mesi mi è convenuto rivolgere gli occhi periodicamente a costoro sessanta, e più volte per giorno, che formano una somma di ventiquattro e più mila volte, vale a dire di [?#3] più mila visite che ho dovuto fare a costoro per avere il mio intento. Nel tempo stesso che faceva questo numero degl’accoppiamenti ho istituite altre analoghe osservazioni su la usata tra i grandi e i piccoli, tra i tenuti a digiuno, tra i vecchi abitatori dei vasi e i pescati di fresco, ed altre simili: ed essendomi venuta voglia di mutilarne, per vedere che ne avveniva, il che ho fatto in più maniere, ho scoperto che anche poco dopo esser stata troncata una o più porzioni del loro corpo, non lasciano di accoppiarsi. In questo anno avendo trovato un buon numero d’individui della spezie assai rara dei bianchi scoperta due anni sono, ho pur veduto la loro maniera di unirsi all’opera della generazione. Per riguardo a tale azione della lor vita, ho tentato di incrocicchiare quelle due spezie, ponendo in più vasi un verme bianco, ed un nero, ma per quanto gli abbia spiati, non mi è riuscito di vidergli a famigliarizzarsi tra loro. Il tentativo merita però di venir replicato non tanto per essere spettatore di queste nozze illegittime, quanto per vantaggio che alle nozioni fisiologiche può derivarne in caso che andando la cosa a seconda del desiderio si potessero aver dei segnali, che già sapete essere questo fonte dei più validi sensi, onde illustrare il mistero della generazione. Nell’avvenire giacché il presente non sono più a tempo per più ragioni, già interessante ricerca verrà da me ripetuta. Ma per eseguirla di dovere conviene usar scrupolosamente e debite precauzioni, tra le quali la più necessaria è che i vermi siano stati isolati dalla lor nascita, per esser sicuro che precedentemente non siano stati fecondati da altri della sua spezie: avuto riguardo segnatamente alla natura di questi vermi, ch’è tale che uno, o più accoppiamenti seguiti in un tempo bastano a fecondar molti vermi, che fanno ad uscir dal corpo materno in più volte per tratto di vari mesi.
L’anno scorso (giacché sono per raccontarvi curiosità di costoro) trovai ne’ fossi due individui della razza dei neri, la di cui parte che chiude gli organi della generazione era doppia. I detti organi eran pur doppi, ed ebbi il piacere di vedergli più volte a partorire, dirò così, doppiamente, facendo due uova per volta; e queste due uova uscivano da due differenti aperture; ed osservai innoltre costantemente che le due uova maturavano a un tempo stesso, e nello stesso stessissimo tempo uscivano dal corpo dell’animale. Sono dubbioso se una tale mostruosità fosse originaria, o accidentale; cioè se i detti due vermi nacquero dell’uovo tal quale apparivano in essi o fossero così divenuti mediante la riproduzione eseguitasi in essi ad occasione d’uno spaccamento della lor coda, avvenuto da causa estrinseca; potendo ciò essere tanto in un modo, come nell’altro. Comunque sia, in questo anno ne ho ottennuto artificialmente dei simili per mezzo del taglio incisa longitudinalmente la coda a più vermi: questi nel sito dell’incisione non hanno lasciato di riprodurre per amendue le mezze parti lor posteriori, e quindi di farsi doppi. In alcuni di essi ho veduto più volte il parto delle due code, succeduto nel tempo stesso a somiglianza di quelli dell’anno scorso. Uno di costoro mi ha presentato un altro fenomeno, che non voglio passarvi sotto silenzio: ed è che tra le due code ha germogliata una testa, o una parte analoga all’anteriore, diametralmente opposta alla naturale, ed antica; di fabbrica tale, che chiaramente si vede essere un vera parte anteriore; e dottata di moto proprio, che non può per altro liberamente esercitare, siccome legata al resto del verme, che di mole maggior di essa e perciò più robusto, e più gagliardo l’obbliga a seguire il suo moto. Altri giuochi della riproduzione simili, o poco dissimili del mentovato ho veduto altre volte, su’ quali la ristrettezza di una lettera non mi permette di far discorso.
Un’altra spezie di lumaconi-mignatte vidi per la prima volta l’anno scorso, di minore corporatura di quelli su cui mi esercito da tanto tempo; neri anch’essi, e che presentano fatti diversi da quelli dell’altra spezie. Ma su costoro non ho potuto fare che poche osservazioni, non avendo avuto che quattro solo individui, e questi anche per mera casualità. Nell’autunno dell’anno scorso ho pur trovato una varietà della spezie di quei piccolissimi di color di tabacco, che di volo accennai nel prodromo#4 in una picciola nota postavi infine. Li credetti da prima appartenenti alla seconda spezie dei piccoli mentovati; può darsi ancor che lo sia, ma inclino piuttosto a crederla una semplice varietà della detta spezie, mancano quei segni caratteristici che la manifestino per diversa.
Due mostri ho avuto l’anno scorso dei bianchi, nati così dall’uovo, e perciò non è a sospettarsi che la riproduzione vi possa aver luogo. La loro mostruosità consisteva nell’essere forniti di doppia coda. Scempiarono, e crebbero alquanto; ma poco dopo morirono, come succede alla più parte dei piccoli di questa spezie, che sono ben lungi dal poter essere conservati con la facilità con cui si possono conservar quelli della spezie dei neri. Vi ho detto nel principio di questa lettera che#5 tra gli animali che ho tra mano v’è un curioso legniperdi terrestre. È costui della classe dei bruchi, ma di quei bruchi che non amano di vivere allo scoperto, ma si fabbricano un tuboletto che loro serve di casa, in cui vivono, e che dà luogo ad altro: fatta di frammenti di foglie, di pagliucce, di stecchetti, e di qualunque altra materia che lor si para davanti; e questi frammenti sono con industria congegnati, e legati insieme con sbavature di seta, e foderati internamente di una morbida tela che lega maggiormente i materiali della lor casa, e che difende il loro corpo dalle scabrosità de’ medesimi. La nascita e lo sviluppo di questi animaletti è assai differente da quella degli altri. Dagl’individui maschi balza fuori una farfalletta vispa, ed elegante; ma degl’individui che hanno a dar femmine, mai non si vede ad uscire farfalla alcuna. L’ultimo loro termine, o aspetto è un corpo lungamente ovale, dall’apparenza di un verme, che mostra una qualche traccia dell’antico stato di bruco; tenero, membranoso, con una scorza però crostacea all’interno, che lo difende, e da cui è capace di uscire, urtandosi contro, e rompendola in un angolo della medesima, e che in sostanza non è che un sacco pieno internamente di uova; le quali, giunte a maturità lasciano scappar fuori i giovani legniperdi, che escono da quella carcere, e fabricano la piccolissima lor casetta, vedendo la vecchia e grande che aveva servito per la lor madre; di questa, e del gran sacco delle uova ricordato di sopra, nulla allor più resta che la nuda pelle, o membrana; e gli organi interni tutti sono scompariti, e dileguati. Sin qui ha veduto il signor Pallas; che dopo poco detto dal Reaumur, ha tessuta la storia di questo animale. Ma questa, in più luoghi tronca, e troppo concisa dà luogo ad alcuni sospetti, ed innoltre mette in curiosità di ulteriori ricerche da lui o non mai fatte, o taciute; le quali m’è venuta voglia di fare, e in cui spererei di riuscire con la copia che mi trovo ad aver di essi. Quello scomparire dell’interna organizzazione materna al maturar delle uova è [...#6]. Io sospetto che l’organismo materno più non appaia in quanto che esso a poco a poco si sciolga, e si scomponga, e così scomposto e ridotto ne’ suoi principi serva di nutrimento e di sviluppo alle uova: le quali vadano successivamente ingrandendo di mano in mano che la sostanza della madre sciogliendosi, e, per così dir, disorganizzandosi si rende atta a servire al nudrimento sudetto; a differenza della comune delli altri animali, in cui le madri concorrono allo sviluppo, ed all’aumento degli embrioni, e delle uova non a costo della distruzione de’ propri organi, ma de’ sughi, preparati dentro di essi. Il Creatore, che negli animali ha modificate differentemente le leggi del nascere, ha fatto lo stesso nelle leggi ancor del morire. Muoiono essi perché l’animale economica resta turbata in modo che nella machina più non si dà quell’azione in cui consiste la vita; restano (almeno in grande) le parti che la compongono nella stessa relazione tra loro: ma in alcuni (come sospetto, ancor nelle femmine dei nostri legniperdi) non solo resta sospesa ogni azione, ma le parti tutte si scompongono e si sconnettono, essendo necessario per questi viventi che si [?] un tale scomponimento, a benefizio, e perfezione delle uova che ne assicurano la spezie. Io non pretendo perciò di risalire alle cause finali poste troppo al di là della causa nostra veduta per poterne parlar con franchezza; ma come un effetto dipendente dell’intimo meccanismo di questi animali; nel tempo stesso che agisce per la distruzione delle madri, contribuisce allo sviluppo dei lor venturi figliuoli, è in piccolo il più bel quadro del gran principio che mette la materia in azione ed in moto per mantener viva quella sospetta perpetua rivoluzione di cose, che si ammira nella vasta estensione della Natura, e segnatamente ne’ corpi organizzati a noi più vicini, e più conosciuti, la distruzione dell’uno de’ quali è occasione dello sviluppo, e manifestazione dell’altro. Tutto nella Natura è in commercio, e l’eterna sapienza che procede alla gran machina dell’universo, ne fa giuocar le ruote in maniera senza crear nuovi esseri, cambia ad ogni istante la scena di questo immenso teatro: e tutto senza interuzzione, si distrugge e si rinnova; muore, e rinasce, rimodellandosi la materia [?] nelle maglie dei germi creati già da principio, o incastrati gli uni dentro degli altri, o lasciati liberi, sparsi, e circolanti con propria del seno della gran madre. Tornando ai nostri legniperdi io [...]#7.
Ecco, amico caro, quanto sono andato chi sa con qual esito fantasticando in questi momenti in cui scrivo su tali materie, senza averle prima meditate, e digerite, non avendole avute in vista né punto né poco al cominciar della lettera.
Di altre cose aveva in animo di parlarvi; ma il foglio ormai pieno non lo permette.
Scusate la mia lunghezza, ch’è stata uguale a se stessa e nel tacere, e nel parlare. Amatemi, conservate la preziosa vostra salute, né fate mai di dubitare che io non voglia, e non debba esser sempre.
30. giugno 81
A Pietro Metastasio, 15 ottobre 1780.
Il numero complessivo è illeggibile.
È presente una lacuna, dovuta forse alla perdita di un foglio volante.