Ioslowitz 27 ottobre 1746
Come per lo più avviene di tutto ciò che piace e si desidera, la carissima vostra lettera del 20 d’agosto con l’epistola sul Commercio e la nuova stampa del Congresso di Citera mi sono giunte tardissimo#1. Non prima d’avanti ieri mi furono trasmesse da Vienna dal nostro signor conte di Canal, ed io mi son vendicato della lunga aspettazione rileggendo già ben tre volte questo vostro nuovo componimento, e sempre con nuova specie di piacere#2. L’idea che voi avete saputo render poetica, è degna d’un savio e buon cittadino. Vi trovo de’ versi incomparabili come
Parte maggior del veneto destino#3.
Piagata il sen dalle civili guerre#4
ed i tre seguenti:
La tarda prole del palladio ulivo#5.
L’obbliquo riso#6
e molti altri ch’io non voglio trascrivere. Vi si conosce per tutto l’uomo che pensa; e non il parolaio, carattere d’una gran parte de’ nostri cinquecentisti. Si vede quanto voi conoscete che gli aggiunti#7 sono il colorito della poesia, onde i vostri non son mai oziosi. E soprattutto ho ammirato la facilità con la quale vi è riuscito di superare quella vostra natural propensione alla folla de’ pensieri: scoglio di tutti gl’ingegni fecondi, per cui avviene delle idee quello che delle piante, che germogliando in copia non proporzionata al terreno, si usurpano a vicenda e lo spazio ed il nutrimento, onde la maggior parte riman soffocata, e quasi nessuna matura. Io mi rallegro con esso voi di questo invidiabil dominio che avete su voi medesimo, per cui sarà sempre per voi l’istesso il conoscere il buono che il conseguirlo#8. Ma, perché non crediate ch’io voglia unicamente lisciarvi (mestiere indegno dell’amicizia, e di cui ho tanto orrore, che procuro evitarne fino il sospetto), vi dirò sinceramente ancora tutto quello in che io ho inciampato: non intendo che la mia delicatezza sia però misura del vostro giudizio. Il verso «Te vidi un tempo» ecc. co’ quindici seguenti pare che interrompano l’unione del proemio con la materia, nella quale entrate dal verso «Piagata il seno» ecc.#9 Veggo benissimo che non è così; poiché in detti versi voi provate la proposizione «che al vostro eroe stia sempre nel cuore il patrio bene». Ma io avrei voluto che voi aveste un poco più aiutato il lettore a conoscer subito la legatura; essendo io persuaso che nessuno di quanti ci leggono vuole affaticarsi per lodarci: ma che tutti all’incontro precipitano i giudizi che ci condannano#10. Desidererei che alcuna volta aveste un poco più di condescendenza per la ritrosia dell’orecchio italiano, avvezzo come quelli de’ Greci e de’ Latini a distinguere la lingua della poesia da quella della prosa: legame che non hanno i Francesi. Voi talvolta (benché non frequentemente) pur che una parola esprima la vostra idea, e goda la cittadinanza fiorentina, non avete repugnanza a valervene, ancorché sia essa straniera a’ poeti. Come «imbriacare», «rinculare», «banderuole», «molla» o altre simili, sono parole ottime e sonore: ma non impiegate fin ora affatto, o pochissimo ne’ lavori poetici, fanno una tal quale dissonanza dal tenore di tutto il rimanente, e presentano i pensieri non rivestiti di tutta quella decenza, che (come appunto nelle vesti) dipende in gran parte dal costume#11. È bellissima, per esempio, la voce «molla» nel senso metaforico in cui voi l’usate: ma non crediate che muova con la medesima sollecitudine ad un Italiano l’idea medesima che muove la parola ressort ad un Francese, appresso di cui il senso traslato di detta voce è divenuto proprio per la forza dell’uso. Se ne conoscerà fra noi il prezzo, ma dopo qualche riflessione: e questo sensibilmente diminuito dal rincrescimento della novità e dalla malvagità dei lettori (che tutti son uomini) e per lo più ci puniscono della tardità del loro intelletto. La vivacità del vostro talento, intollerante d’ogni specie di servitù, vorrebbe scuotere questo giogo: ed io mi unirei volentieri in lega con voi, se credessi la provincia men dura: ma così in questa, come nella maggior parte delle costumanze civili, io credo impresa meno difficile l’accomodar me alla moltitudine, che quella di disingannarla: ed evitando in tal guisa una quantità di risse importune procuro d’acquistare tempo per opere migliori di quello che sogliono essere i pedanteschi contrasti de’ letterati, ripieni per lo più di ciance inutili, e di mal costume#12. A tutta questa lunga cicalata voi per altro risponderete con due parole, dicendo: che lo stile della vostra epistola (come che talvolta a seconda della materia e sorga e s’ingrandisca, su l’esempio di Orazio) è nulla di meno sempre stile d’epistola, esente da’ rigori della tibia, della tromba e della lira, e non obbligata a comparir sempre vestita da festa#13. Non avrei che replicare a questa risposta, se voi non aveste eletto e sostenuto in tutta l’epistola vostra un tuono nobile e poetico, che non s’accosta mai al familiare: onde contraete co’ lettori una specie d’impegno di non cambiarlo senza evidente ragione. Oltre a ciò quella metafora al «fiume un giogo» ecc. non finisce di contentarmi, particolarmente nel sito in cui la trovo: essa è sempre un poco ardita (con buona pace della venerabile autorità de’ Latini), ma in bocca de’ barcaiuoli parmi che s’allontani troppo dall’imitazione del parlar de’ medesimi: e l’imitazione è il primo debito dell’arte nostra#14. Veggo che abuso indiscretamente della vostra pazienza: ma poiché ho intrapreso d’ubbidirvi, soffrite ancora quest’altra breve seccaggine. Nel terzo verso dell’ultima pagina voi dite: «ma non però, signore, il piede arresta»#15. Or non mi sovviene esempio d’un imperativo usato come voi l’usate, e non ho qui libri per cercarlo. So che si dice ottimamente «t’arresta», «fa’», «di’», «vieni», «va’». Ma con la particola negativa non ho memoria d’aver trovato tale imperativo, se non che con la terminazione dell’infinito. «Non t’arrestare», «non fare», «non dire», «non venire», «non andare». Può essere che siano mie traveggole; ma questa volta ho risoluto di dirvi quanto penso; onde fatene voi quel caso che meritano.
Ed eccovi quanto (rivestendo con grandissima ripugnanza il personaggio di censore, che mi sta sì male) ho saputo ritrovar di dubbioso nella vostra bella epistola. Sono tutte bazzecole, e più tosto miei per avventura, che vostri errori. Bisogna amarvi quanto io vi amo, e stimarvi quanto voi meritate, per rompere il proposito di non credere all’istanze degli autori che dimandano il rigoroso giudizio degli amici, per esigere panegirici in contraccambio della loro apparente sommissione#16. Incominciando prima da me medesimo, io non credo infallibile se non il Papa quando pronuncia ex cathedra, e so che avendo ancor voi questo giusto concetto degli uomini, vi compiacete di quello che trovate tollerabile negli scritti miei, e mi perdonate le inavvertenze, «quas vel incuria fudit: vel humana parum cavit natura»#17. Ma ormai potrebbero offendervi queste lunghe proteste, e con molta ragione.
La nostra degnissima signora contessa d’Althann mi commette mille saluti per voi. La disposizione in cui eravate di trattenervi un mese e più con esso noi ci ha resi più sensibili gl’impedimenti che ci hanno defraudato di tal piacere: desideriamo almeno che siano tanto a voi profittevoli, quanto sono stati a noi svantaggiosi. Amatemi intanto, perdonate la negligenza della lunga lettera che non ho tempo di rileggere, e credetemi
Per il ritardo delle poste nella consegna dell’Epistola sopra il Commercio si rimanda alla lett. 6 del 6 ottobre 1746. La «nuova stampa» del Congresso di Citera va individuata con buona probabilità nell’edizione di Amsterdam del 1746. Come si desume dalla lett. 2 del 1746, Metastasio aveva già letto l’opera nella stampa napoletana del 1745.
Si riferisce all’epistola Sopra il Commercio.
Algarotti, Sopra il Commercio, in Poesie, p. 51, v. 25.
Ivi, p. 52, v. 32.
Ivi, p. 55, v. 150.
Ivi, p. 57, v. 201. Diversamente da quanto dichiarato da Metastasio, i versi qui citati sono due e non tre.
aggiunti: aggettivi (GDLI s.v. 4).
Al giudizio positivo di Metastasio fa eco quello consegnato da Voltaire nella lettera ad Algarotti del 13 novembre dello stesso 1746, edita in Ve1791-4, XVI (1794), pp. 89-90. Tuttavia, mentre Metastasio esprime riserve sul rifiuto della rima, sulla scelta di argomenti poetici ritenuti eccessivamente prosastici e sul lessico troppo incline ai termini d’uso comune, Voltaire sembra apprezzare con più decisione l’indirizzo moderno della poesia di Algarotti e polemizza con forza contro gli attardati seguaci di Petrarca: «Ho letto sei volte la vostra epistola al Signor Zeno; oh! quanto s’innalza un tal nobile, ed egregio volo sopra tutti li sonettisti dell’infingarda Italia! Ecco dunque tre opere tutte differenti di materia e di stile; tria regna tenens. Non v’è al mondo un ingegno così versatile, e così universale. Pare a chi vi legge, che siate nato solamente per la cosa che trattate». La risposta a Voltaire dell’11 dicembre offre una conferma dell’orientamento poetico di Algarotti: «Io vorrei pur guarire l’Italia da quella febbre lenta di sonetti che se l’è cacciata addosso da un tempo in qua. E questo si vuol fare non con argomenti e con trattati di poetica, ma col mostrarle cosa migliore di quelle continue rifritture ch’ella fa ora del Petrarca» (Ve1791-4, XVI, 1794, pp. 92-93). Va comunque precisato che le riserve di Metastasio verso lo stile algarottiano non aprono affatto a una difesa dei «sonettisti», come dimostrano le condanne allo «stile petrarchevole» contenute nelle lett. 8 e 14 del 2 dicembre 1746 e del 1° agosto 1751, alle quali si aggiunge la lettera ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte del 27 aprile 1761, in Lettere, IV, p. 194.
Algarotti, Sopra il Commercio, in Poesie, pp. 51-52, vv. 19-32. Nella redazione definitiva la sezione si riduce a tredici versi rispetto ai quindici indicati da Metastasio.
Metastasio consiglia al suo interlocutore di badare alla sostanza del pensiero e all’essenza del concetto che intende esprimere piuttosto che ai vezzi della scrittura. Il precetto trova conferma anche nell’ambito della riflessione teorica sul melodramma e sul rapporto tra parola e musica. Metastasio predilige infatti quei compositori che, come Jommelli e Hasse, intendono l’‘espressione’ musicale come ricerca della naturalezza e non come esibizione di stile. Sull’argomento cfr. Beniscelli, «I più sensibili effetti», pp. 371-387.
Mentre il termine «rinculare» viene omesso nelle successive redazioni dell’epistola, «banderuole» e «imbriacare» vengono mantenuti (cfr. Algarotti, Poesie, p. 53, v. 71: «Sventolando le pinte banderuole»; p. 54, v. 126: «Vada a imbriacar dentro all’Haremme il Turco»). Appare invece incerto se il riferimento al termine «molla» possa riguardare il v. 29: «Le molle esaminare, onde la grande» (ivi, p. 51) o se rimandi a un passo in seguito espunto da Algarotti, come sembra suggerire la lett. 8 del 2 dicembre 1749: «Et incominciando per ordine, vi dirò in primo luogo che mi piace molto il cambiamento fatto da voi nella lettera del Commercio usando “ingegni” in vece di “molle”». Ammettendo l’uso di parole prosastiche fino a quel momento mai entrate nel vocabolario poetico, Algarotti si allontana decisamente dalla sensibilità di Metastasio, che nelle note alla traduzione dell’Ars poetica di Orazio avverte: «E perciò, avanti che si avventuri un autore a valersi di nuove parole scrivendo, sarebbe prudente cautela l’aspettare almeno che sien esse approvate dall’uso che ne fanno le persone colte parlando: altrimenti il primo inventore delle medesime correrebbe gran rischio d’esser condannato e deriso» (Metastasio, Tutte le opere, II, p. 1261). In Metastasio incide inoltre il pensiero di Du Bos, secondo il quale la rappresentazione del sentimento può avvenire solo attraverso l’uso di uno «stile poetico» che commuove il lettore (Jean-Baptiste Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis, Paola Vincenzi, Palermo, Aesthetica Edizioni, 2005, I, XXXIII, pp. 123-127). In questo senso, sul versante opposto, risulta programmatica la scelta algarottiana di rinunciare alla rima a vantaggio del verso sciolto. Il tema è ampiamente trattato nel Saggio sopra la rima, edito postumo nel 1764, nel quale si argomenta la naturalezza e la maggiore coesione logica di un discorso poetico sviluppato senza il vincolo della rima. L’endecasillabo sciolto infatti «non istorpia o snerva le idee […] ma agevola la loro concatenazione» e risulta particolarmente adatto per la stesura di «poemi didattici», «epistole» e «sermoni» (cfr. Francesco Algarotti, Saggio sopra la rima, a cura di Martina Romanelli, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021, pp. 57, 61). Nel trattato, tuttavia, l’ammirazione per la poesia metastasiana resta intatta. In quei generi, come la canzonetta, in cui la rima è necessaria, il «felice ingegno del Metastasio» rappresenta infatti l’esempio più illustre, allo stesso modo nei recitativi dei drammi teatrali il suo «ingegno armonico» permette di incastrare la rima «a luogo a luogo […] e con disinvoltura» (ivi, p. 54). Sulle riserve di Metastasio riguardo all’uso dei versi sciolti, pur circoscritte all’ambito dell’epica e della poesia drammatica, si rimanda invece al cap. XXIV dell’Estratto dell’Arte poetica, pp. 159-160, mentre nel cap. XXI della stessa opera l’autore sconsiglia il ricorso allo stile prosastico sulla scorta dei versi di Hor., Ars, 234- 237, così tradotti: «Non userei sol voci incolte, e tutto / Non col suo nome a dinotar (s’io fossi / Di satirici drammi autor) torrei. / Né dal tragico stil tanto, o Pisoni, / Studierei di discostarmi» (Pietro Metastasio, Estratto dell’arte poetica d’Aristotile, a cura di Elisabetta Selmi, Palermo, Novecento Editrice, 1998, pp. 150-151). Tra le pagine dell’epistolario il tema emerge soprattutto nella lettera a Rovatti del 18 gennaio 1775 (cfr. Pietro Metastasio, Carteggio con Giuseppe Rovatti. Parte seconda (1770-1781), a cura di Giordano Rodda, Genova, Genova University Press, 2022, pp. 138-142), nella missiva a Saverio Mattei del 16 maggio 1776, in Lettere, V, p. 389 e nell’epistola a Carlo Castone Della Torre di Rezzonico del 18 febbraio 1782, ivi, p. 709. Sul difficile equilibrio tra ‘stile’ e ‘utile’ nel laboratorio letterario algarottiano si veda invece Daniela Mangione, Il demone ben temperato. Francesco Algarotti tra scienza e letteratura, Italia ed Europa, Avellino, Sinestesie, 2018.
Anche sul tema del cosiddetto ‘voto popolare’ le posizioni di Algarotti e Metastasio divergono. Come si legge nel Saggio sopra Orazio (edizione a cura di Bartolo Anglani, Venosa, Osanna, 1990, p. 62), il primo ritiene che non si debba dare troppa importanza alla «voce del popolo, che ora dà nel segno ed ora no». Sulla scorta della valorizzazione attribuita da Gravina al giudizio popolare nel trattato Della ragion poetica (I, 14) e in polemica con il commento di Dacier ad Aristotele, nel capitolo XVII dell’Estratto dell’Arte poetica Metastasio sposta invece il discorso sul piano dell’etica, infatti «se il poeta non diletta, è cattivo poeta e insieme inutilissimo cittadino» (Metastasio, Estratto, p. 137). Concedendosi una deroga dall’insegnamento oraziano (nella stessa opera l’autore traduce un passo dalla Sat. 1, 10, 73-74: «Non sudar molto a procurarti il vano / Applauso popolar»), il poeta ritiene pertanto un dovere civile adattare i propri versi alle consuetudini del pubblico, in modo da giovare alla società «insinuando, per la via del diletto, l’amore e la virtù». Il voto popolare è inoltre preferibile all’approvazione della critica perché risulta più spontaneo e innocente: «Il popolo è, per l’ordinario, il men corrotto d’ogni altro giudice» (Metastasio, Estratto, p. 139). La rivalutazione metastasiana dell’opinione popolare, inoltre, mostra debiti evidenti nei confronti di Du Bos, Riflessioni critiche, III, XXII-XXVI, pp. 295-312.
Metastasio anticipa qui uno dei principali argomenti di difesa che immagina sarebbe stato addotto dall’amico, confutando l’idea che il tono familiare dell’epistola esemplata sul modello oraziano possa giustificare l’inserimento di vocaboli comuni in poesia. Per sostenere il principio secondo il quale «basta che le parole facciano forza, immagine viva là dove sono», nella lett. II Algarotti si appellerà in effetti all’auctoritas oraziana ricordando che egli «in quella sua nobilissima epistola ad Augusto vi ha intrecciato le voci “trutina”, “nummi”, “panis secundus”, “porcus”, “loculi”, “asellus”, “piper”, e simili». Lo stesso Orazio, infatti, «mostra che l’uso che corre a’ giorni tuoi, è nelle lingue viventi il solo signore e il re» (Algarotti, Saggio sopra Orazio, p. 68) e che dunque risulta lecito usare termini popolari e neologismi, purché necessari al discorso. Nel Saggio sopra la rima, p. 61, Algarotti sposta il discorso sulla prosasticità dal piano lessicale a quello metrico, sostenendo l’uso del verso sciolto. Raccomanda infatti che la rima e l’ornatus siano salvaguardati «ne’ componimenti composti massimamente di piccioli versi, la essenza de’ quali sta nella leggiadria», ma che lo stesso vincolo della rima «si debba al contrario sbandire dai componimenti composti di versi endecasillabi e dai poemi eroici». Per la riflessione algarottiana su Orazio cfr. Cristina Bracchi, Francesco Algarotti ritrattista di Orazio, in «Filologia e critica», XXIV, 1999, 2, pp. 237-265.
l’imitazione è il primo debito dell’arte nostra: Metastasio, Estratto, cap. I, p. 9: «[Aristotele] pone per primo, lucidissimo ed incontrastabile principio non esser la poesia tragica, epica, ditirambica, o di qualunque specie si voglia, se non una di quelle imitazioni alle quali gli uomini sono per natura inclinati». Riguardo al rilievo sulla metafora del fiume e del giogo, Algarotti sostiene le ragioni della sua scelta nella lett. II e non accoglie il suggerimento metastasiano. Nella redazione definitiva l’autore mantiene infatti l’immagine evocata dai barcaioli nel loro canto: «Un nautico clamor t’assorda: O noi / Meschini, o remo inutile, o barchetta, / Al fiume si dà un giogo, a noi la morte» (Algarotti, Sopra il Commercio, in Poesie, p. 57, vv. 208-210).
In questa circostanza Algarotti accoglie il suggerimento metastasiano e sopprime il verso nelle successive redazioni.
Una simile formula espressiva verrà utilizzata anche nella lettera dell’8 aprile 1750 a Niccolò Jommelli: «sono condannato a rispondere a tutti i ranocchi di Parnaso, che domandano per lo più correzioni per esigere panegirici» (Lettere, III, p. 508). Con un raffinato gioco allusivo che guarda ai precetti oraziani dell’Ars poetica, Metastasio sembra qui assumere i panni di Quintilio Varo, il poeta amico di Orazio, al giudizio del quale l’autore era solito sottoporre i suoi versi. Cfr. Hor., Ars, 438-452: «Quintilio siquid recitares, “corrige, sodes, / hoc” aiebat “et hoc”. Melius te posse negares / bis terque expertum frustra: delere iubebat / et male tornatos incudi reddere versus. / Si defendere delictum quam vertere malles, / nullum ultra verbum aut operam insumebat inanem, / quin sine rivali teque et tua solus amares. / Vir bonus et prudens versus reprehendet inertis, / culpabit duros, incomptis adlinet atrum / transverso calamo signum, ambitiosa recidet / ornamenta, parum claris lucem dare coget, / arguet ambigue dictum, mutanda notabit, / fiet Aristarchus; nec dicet “cur ego amicum / offendami in nugis?” Hae nugae seria ducent / in mala derisum semel exceptumque sinistre». Il riferimento viene colto da Algarotti, che nella lett. II scrive: «Non crediate già per tutto questo, che dinanzi a Quintilio io voglia piuttosto “defendere delictum quam vertere”». L’assunzione della maschera di Quintilio evidenzia l’alto grado di considerazione di Metastasio nei confronti della poesia algarottiana. Come attestano altre zone dell’epistolario, pochi poeti o aspiranti tali potevano infatti contare sul medesimo privilegio: «Vorrebbe da me V.S. illustrissima correzioni, ma troppo male a me si adatta (e specialmente seco) la magistrale graduazione del Quintilio oraziano. Le chieda ad Orazio medesimo, ma in tal caso non l’assicuro immune dalla rigida sferza di lui poiché considerando egli il tenue soggetto del suo magnifico elogio, le dirà indubitatamente: “Sed nunc non erat hic locus”» (lettera a Giuseppe Aurelio Morano dell’11 gennaio 1776, in Lettere, V, p. 370).
Hor., Ars, 352-353: «quas aut incuria fudit / aut humana parum cavit natura».