Al Signor Abate Metastasio a Vienna
Lichtenwald 18 Ottobre 1743#1
Pur troppo è naturale il ritratto che del poeta, il qual mostra le sue poesie, han fatto Orazio, Boileau, Molière. Le mostrano, come voi ben dite, per accattar lodi, non per sentire l’altrui giudizio#2. Guai se, lodati venti versi, tu ne riprendi un solo. «Ah! pour ce vers, Monsieur, je vous demande grace»#3. E poi si finisce col romperla. Voi mi fate la giustizia di non ripormi in tal numero. E ben me ne sono accorto alle critiche, di che mi siete stato cortese sopra le due epistole mandatevi#4. Già io vi manderei le correzioni a’ luoghi notati: se non che, per contentar voi, io sono divenuto più difficile con me medesimo. Mi è sommamente piaciuto, che non sia dispiaciuta a voi quella voce «foglietto» collocata là dove ella è#5. Molti scrittori crederebbono rimetterci del suo nel far uso di quelle parole, che non sono per ancora registrate nel libro d’oro della lingua. Ma i grandi scrittori fanno appunto come i signori grandi che non scrupoleggiano più che tanto sulla nobiltà delle persone da ammettersi in compagnia. Basta che le parole facciano forza, immagine viva là dove sono, sieno nicchiate come in luogo loro#6. Quante voci popolesche e basse non sono usate dal nostro poeta dell’altissimo canto#7? II Petrarca così terso e grave non le ha schivate#8: e Orazio in quella sua nobilissima epistola ad Augusto vi ha intrecciato le voci «trutina», «nummi», «panis secundus», «porcus», «loculi», «asellus», «piper», e simili#9. II Davanzati nella Storia romana ha legato in oro i ciottoli d’Arno#10. In somma non si vede nei grandi autori tanta paura della bassezza, «che non è altro – dice il medesimo Davanzati – che un poco di stummia che genera la proprietà, che quando è spiritosa, quasi vino generoso, la rode»#11. Ma più di qualunque autorità mi acquieta l’approvazion vostra. «Εἶς ἐμοὶ μύριοι», come scriveva Cicerone al suo Attico#12. E già per questo come non debbo temere di avere in una delle mie epistole dato in bassezza per avere usato la voce di «foglietto», così dovrei credere di avere nell’altra fatto parlare con troppa sublimità i barcaiuoli mettendo loro in bocca quella metafora del «dare un giogo al fiume»#13. Dove io non ho certamente avuto la mira a quella inscrizione che era sul famoso ponte del vostro Danubio: «Sub iugo ecce rapidus et Danubius»#14, ma bensì alla natura medesima. Chi meglio la conosce di voi, e chi può sapere meglio di voi che dal linguaggio del popolo mettono di molto belle ed ardite maniere quando si tratta di cose che veramente lo tocchino, che le passioni in una parola rendono gli uomini poeti? «Sitire agros, laetas esse segetes», andavano per le bocche de’ contadini del Lazio#15. Quel detto comune dei nostri, «la terra ingravida», pare l’abbiano preso dal «Vere tument terrae et genitalia semina poscunt», della Georgica#16. I marinai inglesi dicono «plow the sea», come Virgilio «magnum maris aequor arandum»#17; «a well-ribbed ship», appresso a poco come Omero «νῆας ἐϋσσέλμους»#18; ed io medesimo gli ho uditi dire: «The mast is wonderful», come Orazio «malus celeri saucius Africo»#19. I padroni di barca in Grecia, come già Euripide, i thalassa †esiganesse†#20. Non crediate già per tutto questo, che dinanzi a Quintilio io voglia piuttosto «defendere delictum quam vertere»#21; che anzi, se voi continuate dopo tutto questo a disapprovar quel «giogo al fiume», io vorrò piuttosto «male tornatos incudi reddere versus»#22. Io so che vale veramente un Perù un uomo come voi, miniera di sapere, d’ingegno fervido, e di posato giudizio, e il quale «Cum tabulis animum censoris sumit honesti»#23. E quando sarà ch’esca in luce la vostra Poetica#24? Dove noi nelle nostre dubbietà potremo ricorrere come alla Pizia. II leggere la Poetica di un Metastasio sarà un leggere il Trattato di pittura del Vinci, le Memorie del Montecuccoli#25.
In Ve1757, I, p. 279; Li1764-5, VII (1765), p. 230; Cr1778-84, IX (1783), p. 22; Ve1791-4, IX (1792), p. 50, viene riportata l’indicazione «Lichtenwald, 18 ottobre 1743». La data è da ritenere senza dubbio errata riguardo all’anno, che va corretto con il 1746, ma presumibilmente anche nel giorno e nel mese, dal momento che Algarotti sembra qui rispondere ai rilievi contenuti nella lettera di Metastasio del 27 ottobre 1746 (lett. 7). Nello specifico, del gruppo di lettere scambiate dai due corrispondenti sul tema delle epistole in versi, questa è l’unica testimonianza algarottiana superstite tra le varie che l’autore aveva inviato (cfr. la lett. 8 di Metastasio del 2 dicembre 1746: «Rispondo con questa a tre vostre lettere che tutte fedelmente ho ricevute»). Al netto delle evidenti lacune del carteggio e di una tradizione testuale che per le lett. II e 7 si fonda soltanto sulle raccolte a stampa algarottiane, non è quindi semplice stabilire la corretta sequenza dei documenti. Diversi rimandi interni inducono tuttavia a ritenere che la lett. II sia in realtà successiva alla lett. 7. Nella missiva del 27 ottobre Metastasio, infatti, dà notizia di avere appena ricevuto, dopo un lungo ritardo, l’Epistola sopra il Commercio spedita da Algarotti il 20 agosto e annota diversi luoghi che ha trovato imperfetti. Non può quindi risalire al 18 ottobre la lett. II con cui Algarotti risponde alle critiche («E ben me ne sono accorto alle critiche, di che mi siete stato cortese sopra le due epistole mandatevi»). Nella lettera algarottiana, inoltre, l’autore sembra controbattere ad alcuni passaggi specifici dell’epistola di Metastasio, recuperando in particolare il tema oraziano del poeta che invia i propri versi per «accattar lodi» e sostenendo le proprie scelte stilistiche, ritenute da Metastasio eccessivamente prosastiche, come nel caso della metafora del «dare un giogo al fiume», censurata nella lettera del 27 ottobre e qui difesa.
Il tema, presente in Hor., Epist., 2, 1, 108-138 ed Epist., 2, 2, 97-140, trova il suo più celebre interprete nel personaggio di Trissotin, il poeta di scarso valore delle Femmes savantes di Molière. Contro il vizio di mendicare elogi anziché giudizi imparziali, si veda in particolare la tirata di Vadius, poeta avversario di Trissotin, nell’atto III, scena 5, vv. 987-1000. L’argomento viene recuperato da Nicolas Boileau nella seconda delle sue satire, intitolata La rime et la raison, dedicata a Molière nel 1664, e soprattutto nel primo canto dell’Art poétique (1674), che Algarotti legge forse già nel vol. II delle Oeuvres de Nicolas Boileau Déspreaux pubblicate a Dresda dall’editore Walther nel 1746 (Metastasio, invece, riceverà una copia dell’edizione solo nel 1748 tramite Giovanni Claudio Pasquini, come attesta la lettera a lui indirizzata del 27 gennaio 1748, in Lettere, III, p. 335: «Io non ho veduto il Boileau di Dresda onde poterne giudicare: provvedetemi, vi prego, d’uno a mie spese, accennatemi a chi debba io qui pagarne il valore, ed incamminatelo a questa volta con la più sollecita e più sicura occasione»). Il passo algarottiano sembra rispondere all’affermazione di Metastasio contenuta nella lett. 7 del 27 ottobre 1746: «Bisogna amarvi quanto io vi amo, e stimarvi quanto voi meritate, per rompere il proposito di non credere all’istanze degli autori che dimandano il rigoroso giudizio degli amici, per esigere panegirici in contraccambio della loro apparente sommissione».
Nicolas Boileau, L’art poétique, in Oeuvres, II, p. 22: «Ah! Monsieur, pour ce vers je vous demande grâce».
Si tratta delle epistole Sopra il Commercio e Al Signor Abate Metastasio, sulle quali vertono le osservazioni di Metastasio contenute nelle lett. 7 e 8 del 27 ottobre 1746 e del 2 dicembre 1746 e forse in altre andate perdute.
Si riferisce all’epistola Al Signor Abate Metastasio, in Algarotti, Poesie, v. 86: «Muoiono insiem con l’ultimo foglietto». Nelle lettere superstiti del carteggio non si riscontrano accenni metastasiani al tema.
Algarotti introduce qui una lunga argomentazione a difesa dell’uso dei termini prosastici in poesia a nome della chiarezza e della tenuta logica del discorso. Il tema ricorre di frequente anche negli scritti teorici, tra cui i saggi Sopra Orazio e Sopra la rima, ma risulta distante dalla sensibilità poetica di Metastasio, che si lamentava con Algarotti già nella lett. 7 del 27 ottobre 1746: «Desidererei che alcuna volta aveste un poco più di condescendenza per la ritrosia dell’orecchio italiano, avvezzo come quelli de’ Greci e de’ Latini a distinguere la lingua della poesia da quella della prosa: legame che non hanno i Francesi. Voi talvolta (benché non frequentemente) pur che una parola esprima la vostra idea, e goda la cittadinanza fiorentina, non avete repugnanza a valervene, ancorché sia essa straniera a’ poeti».
Poeta dell’altissimo canto: sintagma dantesco (Inf., IV, 95: «quel segnor de l’altissimo canto») qui riferito allo stesso Dante.
In Ve1791-4, IX (1792), p. 51, si aggiungono a testo i seguenti versi petrarcheschi: «Or vivi sì che a Dio ne venga il lezzo. / In picciol tempo passa ogni gran pioggia. / E fui anch’io alcuna volta in danza. / Rimanetevi in pace, o cari amici» (nell’ordine: Rvf, 136, 14; 66, 13; 105, 39; 328, 13). I versi sono assenti in Li1764-5 e Cr1778-84.
Hor., Epist., 2, 1, vv. 30, 123, 145, 175, 199, 270. Nel Saggio sopra Orazio, composto nel 1760, Algarotti difende l’uso letterario di termini comuni appellandosi ancora all’autorità oraziana: «Mostra che l’uso che corre a’ giorni tuoi, è nelle lingue viventi il solo signore e il re; che alla balìa di quello dee ubbidire lo scrittore, non istare all’autorità de’ libri antichi, come ne’ principati non si sta a’ vecchi testamenti de’ principi; che saviamente farà colui che adotterà quelle parole che l’uso avrà prodotte di mano in mano, ed anche saprà coniarne di novelle; purché mettendole a nicchio le renda intelligibili, purché abbiano con le altre già ricevute una certa analogia, purché sopra tutto sieno necessarie» (Algarotti, Saggio sopra Orazio, pp. 68-69).
A ulteriore difesa dell’assunto, Algarotti cita il fortunato volgarizzamento degli Annali di Tacito redatto da Bernardo Davanzati tra il 1580 e il 1596, recuperando un’espressione usata dallo stesso Davanzati in una lettera priva di data spedita agli Accademici Alterati di Firenze: «Voi udiste dire da persona gravissima, nobilissima, e piena di bontà e scienze umane e divine, che io ho ricolte tra le frombole d’Arno le gioie del parlar fiorentino, e legatele nell’oro di Tacito». (Gli Annali di Cornelio Tacito, con la traduzione in volgare fiorentino del Signor Bernardo Davanzati, Firenze, Landini, 1641, p. 248).
Lettera di Bernardo Davanzati al senatore fiorentino Baccio Valori, Firenze, 20 maggio 1599, ivi, p. 247
Cic., Att., 16, 11. Il passo ciceroniano recupera Heraclit., fr. 49: «Eἷς ἐμοὶ μύριοι, ἐὰν ἄριστος ἦι» («Uno solo è per me diecimila, se ottimo»).
Cfr. Algarotti, Sopra il Commercio, in Poesie, p. 57, v. 210: «Al fiume si dà un giogo». Come si legge nella lett. 7 del 27 ottobre 1746, Metastasio aveva espresso riserve sul passo.
Si tratta del ponte fatto costruire da Traiano sul Danubio intorno al 103- 105 d.C. all’altezza delle odierne città di Drobeta (Romania) e Kladovo (Serbia), sul quale si leggeva l’iscrizione: «Providentia Augusti vere Pontificis Virtus Romana quid non domet? Sub iugo ecce rapidus et Danubius».
Cic., Orat., 81.
Verg., Georg., 2, 324. In Ve1791-4, IX (1792), p. 53, si aggiunge il periodo: «Gli architetti per dire una volta svelta non ischiacciata, dicono “una volta che ha dell’orgoglio”». La frase è assente in Li1764-5, e in Cr1778-84.
Verg., Aen., 2, 780: «Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum». «Plow the sea»: «solcare il mare».
Hom., Od., 9, 127: «navi dai solidi scanni». «A well-ribbed ship»: «una nave ben assemblata».
Hor., Carm., 1, 14, 5. «The mast is wonderful»: «l’albero maestro è meraviglioso». In Ve1791-4, IX (1792), p. 53, si aggiunge: «o Dante “a rimpalmar i legni lor non sani”» (Inf., XXI, 9). La frase è assente in Li1764-5, VII (1765) e in Cr1778-84, IX (1783).
La trascrizione del termine «esiganesse» è palesemente corrotta e potrebbe suggerire una fusione tra l’imperfetto ἐσῆγον (3a plurale da ἐσάγω/εἰσάγω, ‘condurre’) e νήεσσι/νέεσσι, dativo plurale poetico da ναῦς, ‘nave’, ma in assenza di riferimenti più specifici non è possibile sciogliere la questione. Ringrazio Corrado Viola e Gabriele Burzacchini per le indicazioni sulla possibile derivazione del termine. Il passo «I padroni di barca in Grecia, come già Euripide, i thalassa esiganesse», attestato anche in Li1764-5, VII (1765), p. 232 e in Cr1778-84, IX (1783), p. 24, è sostituito in Ve1791-4, IX (1792), p. 53, da: «La sola cosa inanimata in inglese che sia di genere femminino è ship, che vuol dir nave, “she is a brave ship” dicono; il che è venuto dagli uomini di mare, che hanno a guisa de’ poeti animato i vascelli, come Virgilio dice nel primo “fessas naves”» (Verg., Aen., 1, 168: «Hic fessas non vincula navis»).
Hor., Ars, 442. Il Quintilio citato da Algarotti è il poeta amico di Orazio, frequentatore del circolo di Mecenate, ricordato nell’Ars poetica come un critico avveduto e sincero. La citazione algarottiana sembra rispondere all’allusione della lett. 7 del 27 ottobre 1746, in cui Metastasio, proponendosi come un amico che giudica con sincerità i versi del collega, aveva sottilmente suggerito il parallelismo tra Quintilio e sé stesso.
Hor., Ars, 441.
Hor., Epist., 2, 2, 110.
Più che alla Poetica oraziana, è probabile che Algarotti alluda qui al più impegnativo cantiere di traduzione e commento della Poetica di Aristotele che darà origine all’Estratto dell’Arte poetica, pubblicato postumo nel vol. XII (1782, ma 1783) dell’edizione Hérissant delle Opere metastasiane, pp. 3-321, su cui si veda l’edizione moderna a cura di Elisabetta Selmi (Palermo, Novecento Editrice, 1998). La prima attestazione del progetto di comporre un «trattato sopra il dramma italiano» risale alla lettera a Giuseppe Bettinelli del 14 giugno 1732 (Metastasio, Lettere a Giuseppe Bettinelli, p. 44), ma il lavoro giunge a conclusione solo un quarantennio più tardi, come certifica la lettera a Mattia Damiani del 10 maggio 1773, in Lettere, V, pp. 233-234. Una traccia consistente dell’impegno metastasiano è testimoniata dalle annotazioni e dalle redazioni manoscritte conservate in H-Bn, Quart. Ital. 7. Per la storia compositiva dell’Estratto e per gli snodi contenutistici, accanto all’introduzione di Elisabetta Selmi all’opera, si rimanda principalmente a Francesco Cotticelli, La tragedia del melodramma. Metastasio e l’“Estratto dell’Arte poetica d’Aristotele”, in L’officina del teatro europeo, a cura di Alessandro Grilli, Anita Simon, Pisa, Edizioni Plus-Università di Pisa, 2002, 2 voll., II, pp. 5-12; Carlo Caruso, Metastasio e il dramma antico, in «Dionysus ex machina», I, 2010, pp. 152-185; Alberto Beniscelli, «Un ginepraio da non uscirne sì di leggieri». Metastasio, dalle lettere all’“Estratto dell’Arte poetica”, in Goldoni «avant la lettre»: evoluzione, involuzione, trasformazione dei generi teatrali (1650-1750), a cura di Javier Gutiérrez Carou, Maria Ida Biggi, Piermario Vescovo, Paula Gregores Pereira, Venezia, lineadacqua, 2023, pp. 77-93.
Algarotti paragona in termini elogiativi la traduzione metastasiana che darà origine all’Estratto a due opere che, pur rimaste incompiute alla morte dei loro autori, sono diventate il punto di riferimento nei rispettivi ambiti del sapere come il Trattato della pittura di Leonardo da Vinci e le Memorie militari del generale Raimondo Montecuccoli: trattati che, come il futuro Estratto, si fondano sull’esperienza concreta e non solo sulla conoscenza teorica della disciplina.