#1 Al Conte Algarotti (Dresda)

Di Vienna Xbre 1746

Amico carissimo

Ho intrapreso ben quattro o cinque volte di scrivervi, ma sono tanti i debiti de’ quali voi mi caricate, e così poco discreti gli acidi miei, e gli stiramenti de’ nervi del mio stomaco e della mia testa, che non sapendo trovar proporzioni fra quel ch’io posso, e quello che vi deggio, sono andato differendo; e senza aumentare in facoltà, ho perduto il merito della diligenza. Onde per non rendermi più reo di quel che già sono, ho risoluto d’arrossir più tosto per la mia debolezza, che somministrarvi motivi onde ragionevolmente dubitare dell’amor mio e della mia riconoscenza.

      Et incominciando per ordine, vi dirò in primo luogo che mi piace molto il cambiamento fatto da voi nella lettera del Commercio usando «ingegni» in vece di «molle»: et io non trovo che facciano oscurità i due significati della parola «ingegno»#2. Nulla di meno come io so già il vostro sentimento non è meraviglia se lo riconosco immediatamente. Per assicurarmi, io ne farei pruova leggendo il passo a persona non prevenuta, et osserverei se la parola muove l’idea che si vuole, con la necessaria sollecitudine. A tutte le altre vostre ingegnose et erudite difese troverete la replica nella mia prima lettera. Et a quella delle venerabili autorità che voi producete, per sostener l’uso delle parole che sono straniere in Parnaso; io vi dirò che negli scritti de’ nostri divini Maestri v’è numero considerabile di cose da rispettarsi sempre, e non imitarsi mai. E che a dispetto della profonda venerazione che voi ed io abbiamo per il nostro Dante, non sarà possibile che ci riduciamo a scrivere:

     E quello che del cul facea trombetta#3

                                     Nessuno è reo,
     Se basta a’ falli sui
     Per difesa produr l’esempio altrui#4

Ho riletto attentamente il Congresso di Citera, e mi sono tanto compiaciuto delle sue nuove bellezze, quanto del più vantaggioso lume, in cui avete poste le antiche: me ne congratulo con esso voi. Vi consiglio di non accostar più la lima a così forbito lavoro, perché alla fine si perde il buono cercando l’ottimo, e l’eccesso di diligenza tira seco gli svantaggi della trascuraggine#5. E ve ne parlerei più lungamente, se l’impazienza di ragionar della bellissima lettera che vi è piaciuto indirizzarmi, non vincesse ogni altro mio desiderio#6.

      Sappiate dunque che io l’ho già letta molte volte, e sempre con nuovo piacere, che mi pare ch’essa si lasci molto indietro l’altra sua sorella del Commercio; che scintilla tutta d’un certo vivace fuoco poetico, onde è ripiena d’anima in ciascuna sua parte; che vi sono de’ versi che hanno subito occupato luogo nella mia memoria, e non saprei farli tacere: tanto essi vi risuonano. Come per esempio:

     Il nuovo Achille tuo, che già nel seno
     Le omeriche faville agita e versa#7.

     Né il latino ocean tentar, né il greco#8

     Giaceano a terra squallide e dolenti
     Involte ancor nell’unnica ruina#9.

                                       Né ancor avea
     Michelagnolo al ciel curvato e spinto
     Il miracol dell’arte in Vaticano#10.

                               E quella invida lode,
     Che solo in odio a’ vivi i morti esalta#11.

     Degli erranti fantasmi ordinatrice
     Aura divina#12:

et altri molti ch’io trascuro, per non trascrivere la maggior parte della vostra lettera. È frutto in somma che mi fa compiacer de’ miei presagi sul vigore del vostro ingegno quando non se ne ammiravan che i fiori. Né vi cada in mente che questo mio giudizio sia un cortese contraccambio delle lodi, delle quali con tanta profusione mi caricate. Veggo assai bene che queste potrebbero risvegliarmi quell’invidia, che non sono giunti a meritare gli scritti miei: mi compiaccio in esse della cagione che vi seduce, e trovo argomenti in loro d’esser più contento di voi che di me.

Comunque la faccenda si vada, io confesso il mio debito, ma non intenderei mai di pagarlo con la moneta adulterina di menzognere lodi, indegne di essere introdotte ne’ sacri penetrali dell’amicizia. E perché abbiate nuovi argomenti della mia sincerità, io vi dirò liberamente quanto nella vostra lettera ho incontrato capace di qualche maggiore ornamento, non bisognoso di correzione.

      Per ragion d’esempio io farei che scambiasser luogo il 5° verso col quarto, e direi:

                                                       ov'io
     Orazio non ugual d’Augusto al peso
     Le giuste lodi al mio Signor scemai#13.

e ciò solamente per approssimar quel nominativo d’opposizione all’«io» da cui egli è retto, et alleggerirne la fatica al lettore

      Dal tredicesimo sino al diciottesimo verso (tratto per altro ammirabile) io inciampo tre volte. Desidero in primo luogo che abbia il suo articolo quella «tragica Musa» come cosa non generica ma particolare#14. È vero che vi sono de’ casi ne’ quali l’articolo si trascura con eleganza; ma voi sapete meglio di me quando, come e perché, né questo è il luogo di fare una dissertazione. Secondariamente (oh qui sì che mi chiamerete la seccaggine) non mi si accomodano all’orecchio quei vostri «palchetti» profanatori d’uno de’ più nobili e poetici tratti della vostra lettera#15. E finalmente quel bellissimo aggiunto di «grato» che voi date al popolo, vorrei che fosse o in principio di verso o altrove situato in guisa, che senza dover tornare indietro con la mente facesse conoscere ch’e’ regge tutto ciò che siegue del periodo#16. E per darvi un’idea della maniera ch’io intendo di spiegare, eccovi come vorrei organizzato tutto quel passo:

                                     Al tragico tuo canto
     Dal basso pian, dagli ordini sublimi (1)
     Sonori ognor, di giusto plauso, il folto
     Popolo spettator tributi invia:
     Grato che alfin le invereconde un tempo
     Scurrili scene, or, tua mercé, pudico
     Passeggi, e grave il Sofocleo coturno.

La correzione in margine evita il pericolo di attribuir l’aggiunto «sonori» ad altro che a’ «tributi». Forse non vi piacerà la lunga trasposizione, et io non intendo difenderla: voglio solamente farvi comprendere qual sarebbe l’ordine ch’io desidererei, lasciando a voi la cura di eseguirlo a vostro talento quando così non v’aggradi#17.

      Nel verso 23 vorrei che faceste dono d’un articolo a quel: «da tua Dido infelice»; cosa facilissima col solo cambiamento dell’aggiunto, come per ragion d’esempio «dall’afflitta tua Dido»#18. Voi potrete difendere la vostra maniera, se così vi piace: troverete esempi confacenti; e chi volesse convincervi co’ grammatici, dopo aver ben riletti il Salviati, il Pergamini, et il Buommattei non saprà ancora con qual sicurezza dove possa trascurarsi l’articolo, e dove no: tanto infelicemente si sono questi studiati di darne regola certa#19. Sicurissimo è per altro che l’articolo particolareggia e determina il nome a cui si unisce. «Fiume che inondi i campi» non disegna qual fiume. Ma «il fiume inondò i campi» disegna quel tal fiume di cui si è parlato#20. Questa regola, alquante eccezioni e più ch’ogn’altra cosa l’orecchio, giudice bastantemente sicuro, mi sogliono determinare in dubbi di tal fatta.

      Nel verso 33 quel «non ti dolga l’udire…» parmi che muova l’idea di stato d’afflizione, e di bisogno di consolatore, e lusingherebbe assai più la mia umanità e seconderebbe il vero chi dicesse:

v. 33 A ragion tu non curi obliqua voce.
v. 37 Sai che di tal reo verme è pasto, e nido.
v. 38 Né meraviglia è già#21.

Nel verso 43 «Col valor che ha negli occhi» io direi «su gli occhi»: poiché «negli occhi» vuol dir «dentro»#22.

      Verso 45 «E i buon Pisoni», quel «buon» per «buoni» è licenza della quale non farei uso in picciolo componimento tanto più che «e fra’ Pisoni» sta ottimamente#23.

      Verso 55 «Che più d’uno è tra noi (bene su l’Istro ten’ pervenne il romor)». Quel «più d’uno» val «molti»: io spero che non lo siano paragonati a’ loro contrari, e se lo fossero, non mi par salubre il confessarlo. Direi dunque «Che taluno è fra noi (bene su l’Istro» ecc. Quel «bene» dovrebbe esser tronco, come «ben su l’Istro». Vi saranno pochi esempi in contrario: e quando anche ve ne fossero a dovizia, io credo che si debbano evitar al possibile le licenze che sempre accusano l’angustia dello scrittore. Che sia pervenuto su l’Istro il romore ch’han fatto i nostri Pantili#24, fa loro molto onore, e non è vero: onde se non avete motivo politico per asserirlo, io direi «Ben taluno è fra noi ritrovo, e impronto» ecc#25.

      Verso 69 «Non aureo tutto» ecc. Desidererei che la fedele e bella traduzione del verso «nil praeter Calvum et doctum cantare Catullum»#26 non fosse tanto disgiunta dal nome «Demetrio», tanto più che quell’«in tempo non aureo tutto, e pien d’opre antiche» non si conosce subito a qual oggetto si dice#27.

      Verso 95 «O di servile età povere menti!»#28 Io non mi scaglierei contro il secolo, che non è certamente del genio di Pantilio, anzi odia lo stile petrarchevole secco et esangue#29, et esclamerei piuttosto contro Pantilio, dicendo «O di mente servil miseri ceppi, lacci meschini» o comunque meglio vi piacerà.

      v. 121 «Lungo la costa e su per li valloni»#30. Questo verso mi par che cada, né so perché. Forse quel «per li» è la pietra dello scandalo: «Su pe’ valloni, e per la scabra costa» si sosterrebbe più.

      186 S’io fossi l’autore della bellissima vostra lettera, sarei vivamente tentato di terminarla con quel verso di Dante, ma in modo che il verso medesimo chiudesse il senso e non rimanesse staccato, cioè nella seguente o altra simil maniera:

                      A piena man spargete
     Sovra lui fiori: e del vivace alloro,
     Nobil mercé, dei bei sudori altrui,
     Onorate l’Altissimo Poeta#31.

Non perderete i quattro ultimi versi, che rappresentano l’invidia doma: quella immagine entrerà in altro componimento quando vi piaccia, et io sarei contento che il fine della vostra lettera lasciasse il lettore più persuaso dell’amor vostro per me, che del vostro sdegno contro Pantilio.

      Un Cavaliere d’ottimo gusto che ha trovata la vostra lettera sul mio tavolino e che l’ha tutta letta con sommo piacere, mi sono accorto ch’ha inciampato nel v. 67 «Di costoro cotale è il cicalio». Se in grazia sua volete o togliere o troncare quel vostro «cotale», eviterete che un altro non se ne offenda#32.

      Ma io abuso troppo della vostra docilità e della vostra pazienza non meno che della povera mia testa tormentata dagl’incomodi suoi. Tutto quello che ho osservato nella vostra lettera può difendersi quando si voglia: io non intendo di far da correttore, come voi sapete; anzi protesto di nuovo che il più grande argomento che io possa darvi dell’amor mio è la fiducia con la quale con voi ragiono delle vostre cose, fiducia (che avendola appresa a mie spese) non avrei con chicchesia.

      Eccovi acclusa la lettera di ritorno del povero Gorani, che avete ragion di compiangere, e per i meriti suoi, e per l’amore che vi portava#33.

      Rispondo con questa a tre vostre lettere che tutte fedelmente ho ricevute. Vi assicuro del sommo gradimento della degnissima Contessa d’Althann alla vostra gentile memoria: et abbracciandovi teneramente insieme col mio Conte di Canal, pieno di stima, di tenerezza, di riconoscenza sono e sarò eternamente

il vostro Pietro Metastasio

(1) dall'elevate logge#34

 

Nella tradizione manoscritta la lettera è variamente datata: «Xbre 1746» in A; «9bre 1746» in B; 2 dicembre 1746 in C e D. Tra i testimoni a stampa, la lettera è datata 2 dicembre in Vi1795, I, p. 242, e 1° dicembre in Ve1791-4, XIII (1794), p. 21. Quest’ultima data è ripresa in Lettere, III, p. 281, e Opere1968, p. 625. Dal momento che la data del 1° dicembre non è però attestata nella tradizione manoscritta (l’autografo A indica genericamente «Xbre 1746»), si privilegia l’indicazione del 2 dicembre che ricorre in due dei tre copialettere (testimoni C e D).

Si veda la lett. 7 del 27 ottobre 1746.

Dante, Inf., xxi, 139: «Ed elli avea del cul fatto trombetta». L’autorità dantesca, già evocata insieme ad altre da Algarotti nella lett. II («Quante voci popolesche e basse non sono usate dal nostro poeta dell’altissimo canto?»), verrà chiamata a difesa dell’uso dei neologismi e dei termini popolari anche nel Saggio sopra Orazio, p. 69: «Ora quale fra noi, dopo la ragionata sentenza di un tanto giudice, accusar vorrebbe quei gentili spiriti che nella nostra favella introdussero i primi le voci di “stelleggiare”, “aleggiare”, “coricida”, “disammirazione”, “insignificante”, e simili, quando col “raccosciare”, con l’“incielare”, con l’“indiarsi”, coll’“intuare”, coll’“illuiare”, coll’“immiare” e tant’altre, confessiamo aver Dante amplificato i confini della medesima favella?».

Metastasio, Artaserse, I, 4, vv. 218-220, con la sostituzione di «produr» per «portar».

L’autore si riferisce alla nuova edizione del Congresso di Citera pubblicata ad Amsterdam nel 1746 e ricevuta in lettura il 27 ottobre 1746 (lett. 7). Come ripeterà nelle lett. 12 e 13 del 16 settembre 1747 e del 21 aprile 1751, Metastasio consiglia con tono premuroso ad Algarotti di non abusare del labor limae e di non tornare a correggere le opere già licenziate.

Si tratta dell’epistola in versi Al Signor Abate Metastasio (cfr. la lett. 2 del 15 gennaio 1746 per il primo probabile riferimento all’opera all’interno del carteggio). Il componimento in onore di Metastasio viene pubblicato per la prima volta solo molti anni più tardi, in Francesco Algarotti, Discorsi sopra differenti soggetti, Venezia, Pasquali, 1755, pp. CCLVI-CCLXIII. Per il testo e per la storia editoriale dell’epistola si rimanda all’Appendice 2.

Algarotti, Al Signor Abate Metastasio, in Poesie, p. 12, vv. 18-19. Nelle versioni a stampa in realtà i versi recitano: «Il nuovo Achille tuo, che in trecce, e ’n gonna / Le omeriche faville in petto volve».

Ivi, p. 14, v. 60.

Ibidem, v. 70. Il passo citato da Metastasio viene accorpato in un unico verso nelle stampe: «Giaceano ancor nell’unnica ruina?».

Ibidem, vv. 74-76.

Ivi, p. 15, vv. 90-91. Le stampe riportano «sol per odio» anziché «solo in odio».

Ivi, p. 16, vv. 110-111. Da Li1764-5, vol. VIII (1765), p. 97, la lezione «degli» viene corretta in «cogli».

La proposta di inversione dei versi suggerita da Metastasio non viene accolta da Algarotti: cfr. ivi, p. 12, vv. 4-6: «ond’io, / Colpa d’ingegno, il ver troppo scemai / Orazio non ugual d’Augusto al pondo».

Il sintagma «tragica Musa» viene successivamente espunto da Algarotti.

Contrariamente all’indicazione di Metastasio, Algarotti conserva il termine: cfr. ibidem, v. 10: «Dai dorati palchetti, e dall’arena».

L’aggettivo «grato» riferito al popolo viene sostituito da Algarotti con l’espressione «leggiadra gente» (ibidem, v. 11).

Algarotti non accoglie la proposta metastasiana: «Dai dorati palchetti, e dall’arena / A te fa plauso la leggiadra gente: / Lieta, ch’omai per te l’Itale scene / Grave passeggia il sofocleo coturno» (ibidem, vv. 10-13).

Algarotti sopprime il passo e modifica il testo come segue: «Qual è fra noi, che per la via non muova / Delle lagrime dolci, allor ch’Enea / Seguendo Italia, i duri fati, e i venti, / Tronca il canape reo» (ibidem, vv. 14-17).

Emerge qui l’insofferenza di Metastasio nei confronti dei trattati linguistico-grammaticali e della critica cruscante in generale, spesso incapace di fornire chiarimenti e anzi colpevole di confondere gli scrittori e i lettori. Nello specifico, Metastasio si riferisce all’Orazione in lode della fiorentina lingua (1564) e agli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decameron (1584-1586) di Leonardo Salviati, al Memoriale della lingua (1602) e al Trattato della lingua (1613) di Giacomo Pergamini, e al trattato Della lingua toscana libri II (1643) di Benedetto Buonmattei.

Il passo non trova riscontro nella redazione a stampa dell’epistola algarottiana. Potrebbe essere stato espunto da Algarotti nella revisione del testo o potrebbe trattarsi di un esempio generico usato da Metastasio a sostegno della sua argomentazione.

Cfr. Algarotti, Al Signor Abate Metastasio, in Poesie, p. 13, vv. 27-31: «Te non muova il garrire impronto, ed acro / Di lingua velenosa. Ogni più bella / Pianta degli orti onor, speme dell’anno, / Che cuopre d’ombra l’uom, di frutta il ciba, / Di vili bruchi è nido ancora, e pasto».

Il passo cade nelle versioni a stampa.

Il suggerimento non è accolto ibidem, v. 32: «Fra i Quintilii, fra i Tucca, e i buon Pisoni».

Pantili: Pantilio, autore ignoto del I secolo a.C., è antonomasia del poeta di scarso valore e detrattore delle opere altrui sulla scorta di Hor., Sat., 1, 10, 78. Nella versione a stampa dell’epistola si legge: «Fra i Quintilii, fra i Tucca, e i buon Pisoni / Ebbe i Pantilii suoi, ebbe i suoi Fanni / Il Venosino anch’esso». (Algarotti, Al Signor Abate Metastasio, in Poesie, p. 13, vv. 32-34). Il motivo è recuperato anche nel Saggio sopra Orazio, p. 63: «Grandissimo fu il romore che gli levò incontro la plebe dei poeti. Ma egli si rideva dei clamori e del gracchiare dei Pantili e dei Fanni, contento dell’approvazione dei Quintili e di Tucca, con quei pochi che ad essi somigliavano»; ivi, p. 71: «Quindi nacque principalmente la invidia contro di lui di quella sdegnosa schiatta, com’ei la chiama, dei poeti; quindi presero a morderlo, e massimamente dietro le spalle, i Pantili, i Fanni, i Demetri, de’ quali non sarà mai spento il gentil seme». L’uso di Pantilio come antonomasia del detrattore è attestato anche nell’epistolario metastasiano, come attesta la lettera a Giovanni Claudio Pasquini del 22 luglio 1747, in Lettere, III, p. 310: «E non vi sovvengono più i Pantilii e i Mevii d’Orazio?».

Il passo «Che più d’uno è tra noi (bene su l’Istro ten’ pervenne il romor)» è soppresso nella versione a stampa e la correzione metastasiana non viene accolta.

Hor., Sat., 1, 10, 19.

Il passo non è presente nelle stampe.

Il verso viene mantenuto: cfr. Algarotti, Al Signor Abate Metastasio, in Poesie, p. 14, v. 64. Il suggerimento seguente di Metastasio viene quindi eluso dall’autore.

Sull’avversione di Metastasio e del secolo XVIII nei confronti dello «stile petrarchevole» e del concettismo secentesco si vedano in particolare la lett. 14 del 1° agosto 1751 e la lettera ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte del 27 aprile 1761, in Lettere, IV, p. 194.

Il verso viene soppresso nelle stampe.

In questo caso Algarotti segue l’indicazione metastasiana e termina il componimento con il verso dantesco (Inf., IV, 80), pur espungendo il verso «Nobil mercé, dei bei sudori altrui»: «A piena man spargete / Sovra lui fiori, e del vivace alloro / “Onorate l’altissimo poeta”» (Algarotti, Al Signor Abate Metastasio, in Poesie, p. 16, vv. 118-120). Nel passo riecheggia il modello di Verg., Aen., 6, 883: «Manibus date lilia plenis» già ricalcato in Dante, Purg., xxx, 21: «‘Manibus, oh, date lilïa plenis!’». In generale la revisione algarottiana produce un notevole snellimento dell’epistola, che, nella sua versione definitiva, riduce i versi dai più dei 186 numerati da Metastasio a 120. 

Comunicando l’inciampo nella lettura di un anonimo cavaliere, Metastasio esprime un’ulteriore riserva su un passo dell’epistola. Il verso viene soppresso da Algarotti nel testo dato alle stampe. Nel complesso l’autore sembra tenere in conto il giudizio metastasiano eliminando o rielaborando i versi che non incontrano l’approvazione dell’amico. Difende invece la propria autonomia quando Metastasio suggerisce una soluzione alternativa, rifiutando di accogliere passivamente le sue proposte.

Il generale Cesare Gorani (1712-1746) – zio di Giuseppe, autore dei Mémoires pour servir à l’histoire de ma vie – fu ucciso dai soldati francesi presso Mentone il 1° novembre 1746, durante le manovre dell’esercito austro-piemontese contro la Repubblica di Genova nell’ambito della guerra di successione austriaca. Uomo colto e appassionato delle lettere, intrattenne uno scambio epistolare con Voltaire e fu amico di Metastasio e Algarotti. Quest’ultimo gli dedicò l’epistola in versi Al Signor Conte Cesare Gorani. Generale negli Eserciti di Sua Maestà Imperiale la Regina di Ungheria, e di Boemia, in Algarotti, Poesie, pp. 31-36. Per il suo profilo si rimanda a Giuseppe Gorani, Mon oncle le Général, in Memorie di giovinezza e di guerra [1740-1763], a cura di Alessandro Casati, Milano, Mondadori, 1936, pp. 14-19.

Nell’autografo la correzione qui riprodotta in calce viene apposta nel margine sinistro della lettera. Per questo motivo poco oltre nel testo si trova il riferimento alla «correzione in margine». In Ve1791-4, XIII (1794), p. 27, la lezione «dagli ordini sublimi» cade e viene riprodotta direttamente a testo la versione «dall’elevate logge».

 

Di Vienna Xbre 1746] L’Abate Metastasio | Al Conte Algarotti. Vienna 9bre 1746 B Al Medesimo a Dresda | Da Vienna 2 Xbre 1746 C Al Medesimo | da Vienna a Dresda. 2 Decembre 1746 D

ammiravan] ammiravano B, C, D

a meritare gli scritti miei] gli scritti miei a meritar D

e ciò solamente… fatica al lettore cassato da freghi a penna in C assente in D

altrove] la correzione altrove è sovrascritta alla lezione altronde in C

co’] con B, C, D

Questa regola, alquante eccezioni, e più ch’ogn’altra cosa l’orecchio, giudice bastantemente sicuro, mi sogliono] Questa regola ha alquante eccezioni, e più ch’ogni altra cosa l’orecchie bastantemente sicure mi sogliono determinare in dubbi di tal fatta C Questa regola ha alquante eccezioni, e più che ogni altra cosa gl’orecchi bastantemente sicuri mi sogliono determinare i dubbi di tal fatta D

più ] meglio C, D

chicchesia] chi che sia B, C, D 

Conte di Canal] Conte Canal B Conte Canale C, D

di stima, di tenerezza, di riconoscenza] di stima e di riconoscenza B, C, D