Al Signor Conte Algarotti 

a Berlino da Vienna 16 7bre 1747

Incomincio quest’anno con ottimi auspici il mio autunnale ritiro, poiché la prima lettera che viene in esso a trovarmi è quella scritta da Berlino il 18 dello scorso mese dall’incomparabile mio Signor Conte Algarotti. Benché sommamente laconica ha essa appresso di me tutto il merito di qualunque più diffusa potesse egli mai scriverne: poiché non mi fugge la giusta riflessione del cortissimo ozio che costì gli concede il ben collocato amore d’un mio troppo grande e troppo venerabile rivale. Il Marchese Mansi, ancor caldo de’ favori da voi ricevuti, me ne ha reso esattissimo conto. Egli è tornato tutto vostro, e prussiano: et ha pagata una rigorosissima usura della lettera che per lui vi scrissi; rispondendo con pazienza esemplare alle minute mie numerose, e replicate interrogazioni#1. Io vi rendo grazie del credito in cui andate ponendo appresso gli amici il mio potere su l’animo vostro: e vorrei pure offerendovi in contraccambio (siccome faccio) tutto ciò che poss’io: non offrirvi sì poco. 

      Se lo scioperato tenore della vita viennese non fosse in gran parte per me impiegato nell’ingrata occupazione che mio mal grado mi danno ancora (benché ormai meno indiscrete) le ineguaglianze di mia salute; intraprenderei certamente qualche lavoro onde far uso, e del poco che si è raccolto, e della facoltà che mi resta. Ma son io così mal sicuro di me medesimo, e sono in guisa confusi gl’intervalli con le sorprese, che non ardisco ordir tela che possa troppo risentirsi dello svantaggio degl’interrompimenti. Non è però che il Signor Conte di Canal et io abbiam rinunciato al consorzio delle Muse. Nel solito a voi noto recesso dell’angusta sua libreria, se molto non si è fatto in quest’anno; si è voluto almen far molto. Abbiamo in primo luogo assai confidentemente conversato con que’ buoni vecchi a’ quali «dedit ore rotundo Musa loqui»#2. Ora raccogliendo qualche gemma sfuggita a’ cisposi espositori; riducendo ora al suo giusto valore alcun tratto soverchiamente esaltato dalla servile temerità de’ pedanti; e facendo in somma tal uso d’una modesta libertà di giudizio, che tanto ci allontanasse dalla stupida idolatria, quanto dall’impertinente licenza del Pulfenio di Persio, «qui centum Graecos centusse licetur»#3. La Minerva ateniese non ci ha per altro alienati affatto dall’Apollo palatino. Siamo andati in tal modo alternamente temperando l’artificiosa fluidità greca con la grandezza romana (vicenda di frutto corrispondente al diletto) che abbiamo con la vicina comparazione più vivamente sentito, e come la prima soavemente seduca, e come la seconda imperiosamente rapisca. Si è travestita in terza rima la bellissima satira d’Orazio Hoc erat in votis per compiacere al mio Conte di Canale, non così avverso come son io a cotesta ingratissima specie di lavoro#4. Quel pensar con la mente altrui: dir tutto: non dir di più: e dirlo in rima; è per me schiavitù non tolerabile, se non se a prezzo del gradimento d’un sì degno amico e sì caro. Pure in questa traduzione un eccellente artefice come voi siete troverebbe per avventura di che appagarsi; poiché voi conoscereste esattamente quanto possa aver costato una certa franca et originale leggierezza con la quale essa porta, e non strascina i suoi ceppi. L’occasione di tradurre la lettera Ad Pisones mi fece già sovvenire alcune mie riflessioni non del tutto le più comuni, che la lunga prattica del poetico mestiere mi ha di quando in quando suggerite. Ho incominciato a scriverle come non affatto inutili a’ candidati di Parnaso: ma questa mia scomposta macchinetta interrompendone il filo me ne ha estremamente intiepidita la voglia. Onde non so quando, o se mai porrò mano al lavoro#5.

Il trattato di Plutarco Dell’educazion de’ fanciulli, ad istanza pure del mio Conte di Canale, che procura di rendere utili gli studi suoi a’ doveri di padre e di cittadino, è stato nella fucina medesima già in buona parte volgarizzato: ma l’opera più florida, a dir vero che succosa, non ha stimolata abbastanza la nostra avarizia per affrettarci a terminarla#6. La traduzione della Poetica d’Aristotile abbiam creduto che avrebbe fatta assai utile e decente compagnia a quella d’Orazio, già alcun tempo fa terminata#7: quando evitando con ugual cura e la licenza francese, e la superstizione italiana, si fosse da noi potuto accoppiare in guisa la chiarezza alla fedeltà, che su l’orme dell’erudito Dacier si fosse costretto Aristotile a dire, ciocché a noi fosse paruto bene ch’ei dicesse; né su quelle per l’opposto del dottissimo Castelvetro si fosse presentata al pubblico una esposizione più tenebrosa del testo #8. Ma... non vi raccapricciate caro amico al nome di Aristotile: non mi dichiarate così subito il signor Simplicio del Galileo#9: né crediate ch’io creda (siccome il vostro Malebranche suppone di chiunque non calpesta lo Stagirita) «che bastando all’Onnipotente la sola cura di crear gli uomini con due gambe abbia poi commessa ad Aristotile tutta quella di renderli ragionevoli»#10. Io non mi sento inclinato (difetto forse di coraggio) ad opinioni così vivaci: ma vi confesserò candidamente, che in mezzo agli ingiuriosi clamori delle nostre moderne scuole la sola autorità di tanti secoli che per lui han professato rispetto, ha fatto sempre nella mia mente sufficiente contrapeso a quello di chi avrebbe pur voluto inspirarmene compassione. Anzi subito, che non già per fiducia nel proprio vigore, ma per mancanza pur troppo intempestiva di condottiere, mi sono trovato in necessità di camminar senza appoggio; non ho trascurato d’applicarmi con la più esatta cura che allor per me si potesse, all’esame de’ giudizi, per autorità e per imitazione più che per proprio discernimento da me sino a quel tempo formati. E dirovvi, che a dispetto delle belle notizie fisiche, delle quali mancava il nostro filosofo a’ giorni suoi, e noi presentemente abbondiamo; a dispetto di quel misterioso genio, che trapiantato forse d’Egitto, e nel terren greco più del bisogno felicemente allignando, se non in favole et in caratteri arcani, nelle dubbie almeno, e nodose voci degli scritti suoi frequentemente si manifesta; a dispetto di quell’eccesso di metodo, in grazia di cui egli opprime talvolta l’altrui discorso, con la copia stessa degli stromenti che somministra per sollevarlo; a dispetto dico e di tutto questo, e del molto di più che si voglia, la stupenda vastità della sua mente, di tante e di sì preziose merci capace, l’impareggiabile perspicacità con la quale penetra egli, e ricerca i più riposti nascondigli della Natura; l’ordine inalterabile che regna in tutto ciò ch’egli pensa, e di cui pure è figlio, quello che oggidì s’impiega contr’esso da’ suoi contradittori medesimi; m’inspirano per lui l’ammirazione e la riverenza a quei rari talenti dovuta, che di tanto agli altri sovrastano, che onoran tanto l’umanità e che riducono i Danti Alighieri a dir di loro «Questi è il maestro di color che sanno»#11.

      Non trovai maggiori inciampi nelle sue categorie, che nelle idee di Platone, nella trepidazione degli atomi d’Epicuro, ne’ numeri di Pittagora, nella materia sottile di Renato#12, e nell’attrazione di Neuton. Né mi parve più che bastasse per pronunciar decisivamente contro Aristotile l’aver trascorsa l’arte di pensare d’Arnoldo#13, i principii e le meditazioni di Cartesio#14, l’aver a memoria il «primus Graius homo» di Lucrezio#15, il sapersi scagliare anche fuor di proposito contro i Gesuiti e contra la bolla Unigenitus#16, e l’esser proveduto delle Lettere provinciali#17, d’un Petrarca, d’un Casa, e d’un paio d’occchiali; inventario del grand’arredo che ostentava nel tempo della mia adolescenza tutta la giovane illuminata letteratura. Ma dove siamo trascorsi, vedete Amico ch’io vado invecchiando poiché comincio a compiacermi del cicaleccio. Or ritorniamo in istrada. S’è dunque et imaginata, e fervidamente intrapresa la traduzione della Poetica d’Aristotile: ma sul bel principio dell’opera ci siamo trovati intricati in un ginepraio da non uscirne sì di leggieri. Fra i luoghi dall’autore istesso (almen per noi) non limpidamente prodotti; fra quelli che la malignità degli anni, e l’imperizia de’ copisti ha mal conci e sfigurati; et i molti, ne’ quali, per se stessi chiarissimi, l’acuta vanità de’ commentatori ha introdotte contradizioni, ci siamo ad un tratto arrestati, quasi disperando di poter mai supplire a tante mancanze; et accordar pifferi così dissonanti. Ciò non ostante, io mi sento ancora inclinato a tentar di bel nuovo il guado forse nel prossimo inverno#18. Ho condotto meco in campagna il mio Attilio Regolo, i due primi atti del quale hanno ancor bisogno della lima, et il resto dell’ascia. Non vorrei più lungo tempo trascurarlo per rispetto almeno alla vostra approvazione. Ma in questa deliziosissima nostra segregazione da tutti i malanni cittadini, non siam mai disoccupati: onde temo che ei ritorni a Vienna così scarmigliato come ne venne#19. Et eccovi resa ragione degli studi nostri: della strana varietà de’ quali voi direte (e direte benissimo) che «fastidientis stomachi est plura degustare»#20: e che nuova cosa vi sembra, che richiesto di ciò ch’io faccia, io vi metta in conto tutto quello che far vorrei. Ma vi par egli forse più commendabile codesto perpetuo disfar vostro, di questo inutile voler far mio? Non finirete dunque mai di cancellare? Deh non vi studiate tanto ad iscemar con l’arte l’aurea fecondità di cui vi ha fatto dono la benigna natura. Cotesta eccedente delicatezza potrebbe degenerare in istiticheria: siccome la soverchia parsimonia in gioventù suol farsi avarizia in vecchiaia#21. La generosa ospite nostra#22, oltre le molte espressioni di gradimento per la gentil memoria che conservate di lei, mi commette di dirvi ch’ella si compiace della vostra propensione a passar con esso noi qualche tempo in queste sue ridenti campagne: ma che per le circostanze in cui siete ella non lo spera, se non quanto basta a desiderarlo. 

      Son certo che il Conte di Canale donerà a noi tutti quei momenti, de’ quali potrà defraudare onestamente il suo ministero: onde scorgerà egli stesso originalmente nella vostra lettera l’invidiabil luogo che egli occupa nell’animo vostro. Amatemi voi intanto, quanto io veracemente vi amo: donate all’inestinguibile mia sete di ragionar con voi la poca discreta estensione di questa lettera, conservatevi, e credetemi 

il vostro Pietro Metastasio

 

 

Si riferisce ai riguardi offerti da Algarotti al marchese Aurelio Mansi durante la sua visita a Berlino nell’estate del 1747 (cfr. lett. 11 del 3 giugno 1747).

Hor., Ars, 323-324. Algarotti aveva visitato la biblioteca del Canale durante il suo soggiorno a Vienna «sul finire dell’inverno del 1746» (cfr. lett. 3 del 7 maggio 1746).

Pers., Sat., 5, 190-191: «Continuo crassum ridet Pulfenius ingens / Et centum Graecos curto centusse licetur».

Si tratta di un poemetto in terzine che traduce la Satira VI del Libro Secondo di Q. Orazio Flacco. Hoc erat in votis (Hor., Sat., 2, 6), secondo l’indicazione del frontespizio che si legge nel manoscritto H-Bn, Quart. Ital. 6, cc. 1r-5r. La traduzione della satira è raccolta in Metastasio, Tutte le opere, II, pp. 1221-1226. L’autore allude qui alla frequentazione dei testi teorici greci («Minerva ateniese») e delle opere poetiche latine («Apollo palatino») condotta a fianco del Canale e agli esercizi traduttivi tanto cari al conte, svolti dal poeta con simulata insofferenza. Insieme al lavoro sull’Ars poetica a cui si accenna poco più avanti, l’impegno oraziano di Metastasio, avviato fin dagli anni della formazione graviniana (cfr. Vita del signor abate Pietro Metastasio poeta cesareo, Roma, Puccinelli, 1786, p. 13), si completa con l’Invito a cena d’Orazio a Torquato, traduzione in quartine di Hor., Epist., 1, 5, composta nel 1770, e con una Risposta ad Orazio inviata nel 1769 a David Murray (1727-1796), settimo visconte Stormont e ambasciatore britannico alla corte imperiale dal 1763 al 1772, come omaggio ai versi «scritti a nome d’Orazio» con cui il diplomatico accompagnava il dono di un’elegante edizione oraziana pubblicata da Baskerville nel 1762 (Metastasio, Tutte le opere, II, pp. 1226-1228 e, per il secondo componimento, anche Metastasio, Poesie, pp. 179-180). Sui rapporti tra Metastasio e Stormont in merito a Orazio si rimanda al commento di Rosa Necchi, ivi, pp. 542-548, e a Caruso, Metastasio e il mondo inglese, in Incroci europei, pp. 165-167.

Metastasio allude qui alle note di commento che ha cominciato ad apporre all’impegnativa traduzione dell’Ars poetica di Orazio, sulla quale cfr. la nota (3) della lett. 3 del 7 maggio 1746: «L’abate stava traducendo per divertimento l’Arte poetica d’Orazio che egli terminò nel mese di maggio del medesimo anno». L’opera risulta però ancora «bisognosa di lima» all’altezza del 1749 (cfr. le lettere ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte del 10 maggio e del 13 dicembre 1749, in Lettere, III, pp. 389-391; 448-449). L’apparato di commento, in particolare, nel 1758 è ancora in corso di perfezionamento (cfr. la lettera a Giuseppe Barbieri, 30 agosto 1758, ivi, IV, pp. 62-63) e dieci anni più tardi non è ancora pronto: «La mia traduzione in versi della Poetica di Orazio è terminata da lungo tempo. Essa esige inevitabilmente molte note ed osservazioni per le quali ho ben raccolti non pochi materiali, ma sempre mi è mancato o il tempo o la pazienza per cotesta a me ingratissima applicazione; onde son tutti ancora disordinati e confusi, né so quando saprò risolvermi a digerirli» (a Saverio Mattei, 28 novembre 1768, ivi, IV, pp. 682-683). Il cantiere delle note risulta ancora aperto nel 1773: «Mi trovava avere, già da molto tempo fa, compiuto una traduzione della Lettera d’Orazio a’ Pisoni sull’Arte poetica in verso sciolto, della quale io sono passabilmente contento, ma ora mi è paruta bisognosa di note: le ho intraprese e son già quasi terminate» (a Mattia Damiani, 10 maggio 1773, ivi, V, p. 234, ma si veda anche la lettera a Domenico Arborio di Gattinara del 2 gennaio 1773, ivi, V, pp. 207-208). La traduzione annotata viene edita insieme all’Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile nel vol. XII (1782, ma 1783) dell’edizione Hérissant delle Opere metastasiane. Sull’Orazio di Metastasio si vedano in particolare Francesco Della Corte, Metastasio e l’«Arte poetica» d’Orazio, in Atti del convegno indetto in occasione del II centenario della morte, 25-27 maggio 1983, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1985, pp. 167-186; Luciana Borsetto, Metastasio lettore e traduttore di Orazio, in Riscrivere gli Antichi, riscrivere i Moderni e altri studi di letteratura italiana e comparata tra Quattro e Ottocento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002, pp. 55-81.

Si riferisce al trattato De liberis educandis (Περὶ παίδων ἀγωγῆς) incluso nei Moralia, ma di dubbia attribuzione plutarchea. L’abbozzo di traduzione, avviato su sollecitazione del conte di Canale, non è conservato tra le carte metastasiane. Il lavoro conferma però l’interesse di Metastasio e soprattutto di Canale per le opere classiche della pedagogia politica in relazione all’ampio dibattito settecentesco sull’educazione, come dimostrano i richiami a Plutarco, Senofonte, Erasmo, Fénelon e Locke in un’ampia nota di commento al Traité de l’éducation des enfants di Jean-Pierre de Crousaz contenuta nei Comptes rendus del conte (cfr. Beniscelli, «I più sensibili effetti», p. 278).

Accanto allo sforzo traduttivo su Orazio, Metastasio ricorda qui l’impegno ancora più gravoso sulla Poetica di Aristotele da cui avrà origine l’Estratto. Sull’evoluzione del progetto dalla traduzione all’elaborazione del trattato si rimanda alle note di commento alla lett. II, nella quale Algarotti chiede notizie sullo stato del lavoro.

Metastasio esprime qui la sua insoddisfazione verso le oscurità e le pedanterie di due tra i più autorevoli commentatori dell’opera aristotelica come il segretario perpetuo dell’Académie Française André Dacier (1651-1722), autore della Poétique d’Aristote, contenant les regles les plus exactes pour juger du poëme heroique, et des pièces de théatre, la tragédie e la comédie (1692), e Ludovico Castelvetro (1505-1571), autore della Poetica d’Aristotele vulgarizzata, et sposta (1570). Insieme al trattato La pratique du théâtre (1657) dell’abate d’Aubignac, l’«erudizione» di Dacier e le «sottigliezze» di Castelvetro sono tra i principali bersagli polemici dell’Estratto, pp. 6, 53 e passim. Riserve sul Dacier commentatore di Orazio vengono invece avanzate in Algarotti, Saggio sopra Orazio, pp. 58-59.

Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galilei il personaggio di Simplicio rappresenta l’irremovibile difensore della tradizione aristotelica messa in dubbio dalle argomentazioni del copernicano Salviati.

Il passo citato da Metastasio si legge in realtà in Gottfried Wilhelm von Leibniz, Nouveaux Essais sur l’entendement humain, livre IV, cap. XVII: «Si le syllogisme est nécessaire, personne ne connaissait quoi que ce soit par raison avant son invention, et il faudra dire que Dieu, ayant fait de l’homme une créature à deux jambes, a laissé à Aristote le soin d’en faire un animal raisonnable».

Dante, Inf., IV, 131: «vidi ’l maestro di color che sanno». Dopo avere precisato in tono ironico la sua estraneità nei confronti dell’aristotelismo ortodosso, Metastasio difende la possibilità di una rivalutazione critica dello Stagirita. Come afferma in apertura all’Estratto, Aristotele è stato infatti «il primo di tutti gli antichi, fin qui da noi conosciuti, filosofi che abbia saputo fare una chiara, minuta ed incontrastabile analisi del raziocinio umano». Per questo motivo il ricorso ai suoi insegnamenti «è cura lodevole» per chiunque ed «è dovere indispensabile specialmente per li poeti, ai quali ha egli particolarmente somministrate le principali norme dell’arte loro» (Metastasio, Estratto, p. 5). Nell’esporre le ragioni fondanti della sua riflessione su Aristotele, Metastasio inizia poi a ripercorrere le tappe della propria formazione culturale operando «una coerente correzione al centro» (cfr. Beniscelli, «I più sensibili effetti», p. 250) della lezione graviniana che non rinnega, ma valuta con uno sguardo più moderato, le riletture settecentesche del materialismo lucreziano, gli insegnamenti cartesiani, la scienza di Newton e l’antigesuitismo militante della scuola di Port Royal. Le riserve di Metastasio sono comunque da ricondurre principalmente al dibattito teorico sul teatro sviluppato in Francia, come si deduce dal confronto con la lettera a Calzabigi del 15 ottobre 1754, in cui Metastasio critica l’eccessivo rigorismo dei seguaci della scuola di PortRoyal nell’applicazione di norme che non hanno «fondamento in alcun canone poetico d’antico maestro» (cfr. Lettere, III, pp. 956-957).

Renato: René Descartes (Cartesio).

Viene qui citata una delle opere cardinali del pensiero giansenista, intitolata La Logique ou l’art de penser, nota anche come Logica di Port-Royal, edita nel 1662 in forma anonima da Antoine Arnauld (1612-1694) e Pierre Nicole (1625-1695).

L’allusione riguarda i Principia Philosophiae di René Descartes, editi nel 1644 in latino e nel 1647 in francese con il titolo di Principes de la philosophie, e le Meditationes de prima philosophia pubblicate nel 1641, poi tradotte in francese con il titolo di Méditations métaphysiques.

L’autore si riferisce all’elogio di Epicuro in esordio al De rerum natura (Lucr., 1, 66) e allude indirettamente alla rivalutazione della tradizione epicureo-lucreziana che trova una delle sue più compiute espressioni nel pensiero di Pierre Gassendi. L’influenza di Lucrezio, però, è notevole anche in Gravina: sul tema cfr. Annalisa Nacinovich, I «novi raggi» della poesia arcadica: le «Egloghe» di Gravina e la lezione di Lucrezio, in Ead., «Nel laberinto delle idee confuse». La riforma letteraria di Gianvincenzo Gravina, Pisa, Ets, 2012, pp. 70-76.

Con la costituzione apostolica Unigenitus Dei Filius, promulgata l’8 settembre 1713, papa Clemente XI condannava le centouno tesi estratte dalle Réflexions morales del giansenista Pasquier Quesnel (1634-1719). La bolla fu duramente contestata dagli antigesuiti e fu oggetto di critiche anche da parte di Gravina.

Il riferimento metastasiano riguarda le Lettres provinciales di Blaise Pascal, opera antigesuitica scritta sotto lo pseudonimo di Louis de Montalte tra il gennaio del 1656 e il marzo del 1657 in difesa di Arnauld, espulso nel 1655 dalla Sorbona in seguito all’emanazione della bolla Cum occasione (31 maggio 1653) con cui papa Innocenzo X dichiarava eretiche cinque proposizioni dell’Augustinus di Giansenio.

Come si legge nel testo che introduce l’Estratto, di fronte agli insormontabili problemi di traduzione Metastasio muterà il suo proposito e nel corso degli anni opterà per la redazione di un commento ai singoli passi dell’opera: «Persuaso dunque, fin dagli anni più floridi dell’età mia, di questo inevitabile nostro dovere, proposi d’instruirmi fondamentalmente de’ dogmi poetici d’un tanto maestro, e mi parve allora sanissimo consiglio l’attingerli puri ed illibati dalla prima loro sorgente originale a costo di qualunque fatica, ma inciampando poi ogni momento, nel corso del mio lavoro, qua nella dubbiezza d’una regola capace di doppio senso, là nell’oscurità d’una per me misteriosa espressione, […] m’avvidi al fine, con somma mia mortificazione, essere stato inconsiderato trascorso di temerità giovanile l’inoltrarmi in così disastroso ed intricato cammino senza sorte e compagni. Ricorsi, dunque, ai più dotti ed accreditati espositori dell’aristotelica Arte Poetica […]. Per sottrarmi in qualche modo a tante e tante dubbiezze, e per non perder tutto miseramente, fra queste, il frutto delle applicazioni da me in tale studio impiegate, mi determinai a fare un rigoroso esame di me medesimo e, riandando da bel principio tutta l’Arte Poetica di Aristotile, estrarne esattamente, capitolo per capitolo tutto ciò che a me era paruto limpidamente d’intenderne: confessar candidamente tutte le mie incertezze ne’ passi oscuri; accennare quai savi e delicati riguardi esiga or da noi l’uso di alcuno di questi, forse quando furono dettati utilissimi, precetti, mercé l’enorme visibilissimo cambiamento de’ nostri, in così lungo tratto di tempo, dagli antichi costumi; palesare quali regole e quali pratiche teatrali siano state da’ moderni legislatori ai drammatici greci e ad Aristotile istesso gratuitamente attribuite; procurar di formarmi, a seconda delle occasioni che il testo ne somministra, una più chiara e distinta idea della natura della poesia, dell’imitazione e del verisimile, di quella che comunemente ne abbiamo; e concludere che (trattandosi di dogmi poetici) non può esser conteso a veruno il citar, quando bisogni, qualunque più venerata umana autorità al supremo tribunale della ragione» (Metastasio, Estratto, pp. 5-7).

L’Attilio Regolo, composto in omaggio a Carlo VI nel 1740 su istanza dell’imperatrice Elisabetta, quell’anno non fu messo in scena per l’improvvisa morte del sovrano. Venne rielaborato più volte da Metastasio ed eseguito solo un decennio più tardi, a Dresda, presso la corte di Augusto III. La rappresentazione si tenne all’Hoftheater il 12 gennaio 1750 sulla partitura di Johann Adolf Hasse, al quale l’autore aveva minuziosamente descritto i caratteri in una lettera del 20 ottobre 1749 (Lettere, III, pp. 427-436, su cui cfr. Mellace, Johann Adolf Hasse, pp. 266-271). L’opera metastasiana incontrerà il favore di Algarotti, che in una lettera del 15 ottobre 1752 a Carlo Innocenzo Frugoni scriverà: «L’Attilio Regolo è pretto romano dal capo alle piante; non vi ha inzeppamento di amoretti e di frasche alla moderna; e ciascuno il vede veramente “inter moerentes amicos egregium properare exulem”» (Ve1791-4, IX, 1792, p. 227). Sulle vicende dell’Attilio Regolo cfr. Metastasio, Drammi per musica, III, pp. 131-195, 551-557. 

Sen., Epist., 1, 2: «Fastidientis stomachi est multa degustare». L’espressione viene usata più volte nell’epistolario metastasiano negli scambi di lettere con Giuseppe Rovatti e con il fratello Leopoldo Trapassi.

Metastasio rimprovera affettuosamente ad Algarotti l’abitudine di tornare sulle proprie opere, comprese quelle già edite, per correggerle e ampliarle.

Si riferisce come di consueto a Marianna Pignatelli, contessa d’Althann.

 

 

Al Signor Conte Algarotti | a Berlino da Vienna 16 7bre 1747] Al Signor Conte Algarotti | Da Vienna a Berlino. 16 Septembre 1747 B

tornato corregge la lezione tormentato, cassata da un frego A

pagata] pagato B

Abbiamo in primo luogo corregge la lezione Abbiam in primo luogo, cassata da segni a penna A

La Minerva ateniese non ci ha per sezione di testo cassata e trascritta nella riga precedente per evitare l’a capo A

cotesta corregge in interlinea la lezione questa, cassata da un frego A

tollerabile corregge la parte di parola tollera, cassata da un frego A

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volgarizzato] volgarizzata B

Aristotile] Aristotele B

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Aristotile] Aristotele B

ciocché] ciò che B 

si fosse viene eliminata da segni a penna la ripetizione si fosse A

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han corregge la lezione hanno A han] hanno B 

formati] formato B 

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Neuton] Neutonne B 

Aristotile] Aristotele B 

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grand’arredo] grande arredo corretto sovrascrivendo sul testo

 Aristotile] Aristotele B 

sì di corregge la lezione di sì A 

 la lezione viene cassata e riscritta identica in interlinea

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ministero corregge in interlinea mestiere, cassato da segni a penna

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