Al signor Conte Algaroti a Berlino. 1° Agosto 1751 
da Vienna 

Mi è stata carissima come tutto ciò che mi viene da voi, l’ultima vostra lettera del 26 dello scorso giugno così per la vostra perseveranza nella rinnovata corrispondenza, come per il favorevole e conforme giudizio da voi, e dal Signor Voltaire pronunciato sul mio travestimento del Sorcio d’Orazio #1. Né me ne ha punto diminuito il piacere il tenero e cristiano compatimento del mio traduttor francese su la parte che mi tocca del morbo epidemico della nostra nazione contaminata dalla scabbia de’ concetti#2. Grazie al Cielo che egli ignora i sintomi della mia infermità. S’egli sapesse ch’io non m’avveggo d’averla, dispererebbe affatto di mia salute. Il falso rende reprensibili i concetti: et io non mi son mai proposto che il vero #3. Può darsi ch’io me ne sia alcuna volta inavvedutamente dilungato: ma non può essermi utile una correzione in genere che non mi addita le lucciole prese per lanterne. Pur che la verità sia il quadro, non v’è poeta né greco né latino né d’altra qualsivoglia nazione, che non si rechi a debito, non che a pregio d’adornarlo d’una bella cornice. È vero che (siccome altre volte i Goti contaminarono la nostra architettura) così dopo la metà del secolo decimo settimo la nazione che dominava in Italia introdusse nella nostra l’arditezza della sua poesia, arditezza che non era ripugnante alla natura del suo clima, fecondo in tempi più remoti de’ Seneca, de' Lucani e de’ Marziali, et accresciuta poi a dismisura dal genio fantastico della letteratura araba, colà dagli Africani trasportata e stabilita. È verissimo che s’incominciò allora fra noi a perder la misura e la proporzione delle figure: e applicati unicamente a far cornici ci dimenticammo a far quadri. Ma questa pianta straniera non allignò in guisa nel buon terren d’Italia, che non vi fosse (anche nel tempo ch’essa fioriva) chi procurava estirparla#4. Et è poi palpabile che da un mezzo secolo in qua non v’è barcaiuolo in Venezia, «non fricti ciceris emptor»#5 in Roma, né uomo così idiota nell’ultima Calabria o nel centro della Sicilia, che non detesti, che non condanni, che non derida questa peste che si chiama fra noi seicentismo#6. Onde quando io fossi ancor tinto di questa pece («quod Deus omen avertat»)#7 non so come il mio traduttore profonda la sua compassione sopra un’infermità che la nostra Italia non soffre! Ha pur troppo la sventurata di che farsi compiangere senza inventarne i motivi. Io non ho letto ancora cotesta traduzione francese delle opere mie, per una certa riprensibile mancanza di curiosità, che si va in me di giorno in giorno accrescendo; ma in gran parte ancora per delicatezza di coscienza. Io mi conosco incontentabile in fatti di traduzioni: e non ho voluto espormi a divenire ingrato a chi mi ha reputato degno di così faticosa applicazione#8. Quando la mia curiosità si aumenti, et i miei scrupoli diminuiscano; saprete quanto mi abbia dilettato quella lettura. 

      Voi vorreste de’ versi fatti da me improvvisamente negli anni della mia fanciullezza: ma come appagarvi? Non vi niego che un natural talento più dell’ordinario adattato all’armonia, et alle misure si sia palesato in me più per tempo di quello che soglia comunemente accadere, cioè fra ’l decimo, et undecimo anno dell’età mia: che questo strano fenomeno abbagliò a segno il mio gran maestro Gravina, che mi riputò e mi scelse come terreno degno della coltura d’un suo pari #9: che fino all’anno decimo sesto all’uso di Gorgia Leontino#10. m’esposi a parlare in versi su qualunque soggetto, così d’improviso, come il Ciel volea; e che Rolli, Vannini et il Cavalier Perfetti (uomini allora già maturi) furono i miei contradittori più illustri #11. Che vi fu più volte chi intraprese di scrivere i nostri versi mentre da noi improvvisamente si pronunciavano; ma con poca felicità: poiché (oltre l’esser perduta quell’arte per la quale a’ tempi di Marco Tullio era comune alla mano la velocità della voce)#12 conveniva molto destramente ingannarci: altrimenti il solo sospetto d’un tale agguato avrebbe affatto inaridita la nostra vena e particolarmente la mia. So che a dispetto di tante difficoltà si sono pure in quei tempi e ritenuti a memoria e forse scritti da qualche curioso alcuni de’ nostri versi: ma sa Dio dove ora saran sepolti; se pure son tuttavia in rerum natura: di che dubito molto. De’ miei io non ho alcuna reminiscenza a riserva di quattro terzine che mi scolpì nella memoria Alessandro Guidi a forza di ripeterle per onorarmi#13. In una numerosa adunanza letteraria che si tenne in casa di lui propose egli stesso a Rolli, a Vannini, et a me per materia delle nostre poetiche improvvise gare i tre diversi stati di Roma: pastorale, militare et ecclesiastico#14. Rolli scelse il militare: toccò l’ecclesiastico a Vannini, e restò a me il pastorale. Da bel principio Vannini si lagnava che per colpa d’amore non era più atto a far versi: e mi asseriscono ch’io gli dissi:

 

            Da ragion, se consiglio non rifiuti, 
            Ben di nuovo udirai nella tua mente 
            Risonar que’ pensier ch’ora son muti.

 

Poco dopo, entrando nella materia:

 

            Vedi quel pastorel che nulla or pare? 
            Quel de’ futuri Cesari e Scipioni, 
            Foce sarà, come de’ fiumi il mare.

 

Parlando alla mia greggia:

 

            Pasci i fiori, or che lice, e l’erbe molli. 
            D’altro fecondi in altra età saranno, 
            Che sol d’erbe e di fiori i sette colli.

 

E nello stesso conflitto, ma in diverso proposito:

 

            Sa da se stessa la virtù regnare, 
            E non innalza e non depon la scure 
            Ad arbitrio dell’aura popolare.

 

Questi lampi, ne’ quali hanno la maggior parte del merito il caso, la necessità, la misura e la rima, e ne’ quali si riconosce forse troppo lo studio de’ poeti latini non ridotto ancora a perfetto nutrimento, sa Dio fra quante puerilità uscivano inviluppati! Buon per me che il tempo non mi ha lasciati materiali onde tradir me medesimo; temo che la passione di compiacervi avrebbe superato quella di risparmiare il mio credito. Or per terminare il racconto (questo mestiere mi divenne e grave e dannoso): gravissimo perché forzato dalle continue autorevoli richieste mi conveniva correre quasi tutti i dì, e talora due volte nel giorno istesso, ora ad appagare il capriccio d’una dama; ora a sodisfar la curiosità d’un illustre idiota; ora a servir di riempitura al vuoto di qualche sublime adunanza, perdendo così miseramente la maggior parte del tempo necessario agli studi miei. Dannoso perché la mia debole fin d’allora, et incerta salute se ne risentiva visibilmente: era osservazione costante che agitato in quella operazione dal violento concorso degli spiriti, mi si riscaldava il capo, e mi s’infiammava il volto a segno meraviglioso; e che nel tempo medesimo, e le mani e le altre estremità del corpo rimanevan di ghiaccio. Queste ragioni fecero risolvere Gravina a valersi di tutta la sua autorità magistrale, et a proibirmi rigorosamente di non far mai più versi improvvisi. Divieto che dal decimo sesto anno dell’età mia ho sempre io poi esattamente rispettato. Et a cui credo di esser debitore del poco di ragionevolezza, e di connessione d’idee, che si ritrova negli scritti miei. Poiché riflettendo in età più matura al meccanismo di quell’inutile e meraviglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto che la mente condannata a così temeraria operazione dee per necessità contrarre un abito opposto per diametro alla ragione. Il poeta che scrive a suo bell’agio elegge il soggetto del suo lavoro, se ne propone il fine, regola la successiva catena delle idee, che debbono a quello naturalmente condurlo; e si vale poi delle misure, e delle rime, come d’ubbidienti esecutrici del suo disegno. Colui all’incontro che si espone a poetar d’improvviso, fatto schiavo di quelle tiranne, convien che prima di riflettere ad altro impieghi gli istanti che gli son permessi a schierarsi inanzi le rime che convengono con quella che gli lasciò il suo contradittore, o nella quale egli sdrucciolò inavveduto, e che accetti poi frettolosamente il primo pensiero che se gli presenta, atto ad essere espresso da quelle benché per lo più straniero, e talvolta contrario al suo soggetto: onde cerca il primo a suo grand’agio le vesti per l’uomo; e s’affretta il secondo a cercar tumultuariamente l’uomo per le vesti. Egli è ben vero che se da questa inumana angustia di tempo vien tiranneggiato barbaramente l’estemporaneo poeta, n’è ancora in contraccambio validamente protetto contro il rigore de’ giudici suoi: a’ quali, abbagliati dai lampi presenti, non rimane spazio per esaminare la poca analogia che ha per lo più il prima col poi in cotesta specien di versi. Ma se da quel dell’orecchio fossero condannati questi a passare all’esame degli occhi; oh quante Angeliche ci presenterebbero con la corazza d’Orlando, e quanti Rinaldi con la cuffia d’Armida! Non crediate però ch’io disprezzi questa portentosa facoltà, che onora tanto la nostra specie: sostengo solo che da chiunque si sagrifichi affatto ad un esercizio tanto contrario alla ragione non così facilmente

 

                        Carmina fingi 
Posse linenda cedro, et levi servanda cupresso#15.

 

Benché lontana mi solletica dolcemente la speranza d’abbracciarvi in queste parti. Io l’ho comunicata alla Signora Contessa d’Althann, et al Signor Conte di Canale, che più che pieni di riconoscenza alla vostra memoria andranno raddolcendo meco l’aspettazione della vostra venuta, con la lettura del libro che ci promettete. 

      Qui si è sparso che il Signor de Voltaire, desideroso di fare un giro in Italia, ne abbia ottenuto il consenso reale, e che terrà questo camino#16.Ditemi se posso ragionevolmente lusingarmene. Abbracciatelo in tanto per me e ricordategli la tenera mia costante e riverente stima. Ma perché non siate tentato di pubblicarmi per cicalone, «verbum non amplius addam»#17. Addio. 

Il vostro

 

L’autore si riferisce al volgarizzamento in terzine della satira Hoc erat in votis (Hor., Sat., 2, 6) contenente il celebre apologo che contrappone il topo di campagna al topo di città. La traduzione era stata inviata ad Algarotti insieme alla lettera del 21 aprile 1751 (lett. 13) con la richiesta che venisse letta a Voltaire per ottenerne un parere.

Nel 1751 escono i primi volumi delle Tragédies-opéras de l’Abbé Metastasio. Traduites en François par M., Vienna (ma Parigi), s.n., 1751-1761, 12 voll., a cui Metastasio allude, dichiarando tuttavia poco oltre di non avere ancora letto «cotesta traduzione». L’autore dell’Avertissement che introduce il primo volume insiste in particolare su «deux reproches»: in primo luogo «on l’accuse d’uniformité dans tous ses dénouemens», ma soprattutto «il n’est fait aucun scrupule de s’approprier les plus grandes beautés de nos Tragédies Françoises» (Tragédies-opéras, I, pp. xiv-xv). Per difendersi dalla polemica scatenata da queste affermazioni, nella lunga introduzione al IV volume (1751) il traduttore torna sull’argomento e sferra l’attacco qui stigmatizzato da Metastasio, rispolverando la vecchia accusa di retoricismo e barocchismo mossa alla letteratura italiana ai tempi della querelle Orsi-Bouhours. Scrive infatti che «il n’est pas exempt de ces concetti qu’on reproche à l’Italie; mas ils sont fort rares». E aggiunge: «C’est un reste d’habitude nationale, dont il est à espérer que le temps guérira entierement tous le bons auteurs de son pays» (ivi, IV, p. VII). Il traduttore è stato individuato in Richelet sulla scorta della lettera di Voltaire a Henri Lambert d’Herbigny, marquis de Thibouville, 21 maggio 1755, in Voltaire, Correspondance, édition par Theodore Besterman, Paris, Gallimard, 1963-1993, vol. IV (1978), p. 445, tuttavia sul nome proprio permangono dubbi: la consueta identificazione con César-Pierre Richelet non può infatti essere riferita al lessicografo vissuto tra il 1626 e il 1698 ma, al limite, a un omonimo. Sulla complessa ricezione di Metastasio in Francia e sulle traduzioni delle sue opere cfr. Fabiano, Metastasio, Voltaire, Diderot, Marmontel e l’opera francese, pp. 203-221; Sozzi, Da Metastasio a Leopardi, pp. 1-48.

In polemica con l’accusa mossa dall’autore dell’Avertissement, Metastasio sostiene l’estraneità della buona poesia italiana dal gusto corrotto del secentismo concettista e, in nome del «vero» dei sentimenti, torna a segnalare la sua personale distanza dallo «stile petrarchevole», già definito «secco et esangue» nella lett. 8 del 2 dicembre 1746. «Il libertinaggio marinista e l’affettazione petrarchevole» vengono individuati come pericoli da evitare anche nella lettera ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte del 27 aprile 1761, in Lettere, IV, p. 194.

L’accusa di barocchismo sferrata dai francesi contro la letteratura italiana a partire dalla polemica Orsi-Bouhours viene respinta da Metastasio, che individua la causa della corruzione del gusto nell’influenza della dominazione spagnola in Italia nel secolo XVII. Circoscrivendo il periodo di decadenza dello stile a quel periodo, l’autore reindirizza l’accusa sulla letteratura spagnola. A guastare la naturale «arditezza» dei letterati latini nati nella penisola iberica (Seneca, Lucano, Marziale) era stata, secondo Metastasio, la contaminazione con il «genio fantastico della letteratura araba». Sull’influenza del clima nella definizione del gusto di una nazione sembra essere attiva la memoria di Montesquieu, Lo spirito delle leggi, XIX, 8, in Tutte le opere [1721-1754], a cura di Domenico Felice, Milano, Bompiani, 2014, p. 1525: «Il clima che fa sì che una nazione ami le relazioni sociali, fa anche sì che ami cambiare, e quel che fa sì che una nazione ami cambiare, fa pure sì che essa si formi il gusto». Sul tema si sofferma a lungo anche Du Bos, Riflessioni critiche, II, XVII-XIX, pp. 285-292.

L’espressione, usata da Metastasio per indicare il popolano di bassa estrazione, rielabora Hor., Ars, 249: «Nec, siquid fricti ciceris probat et nucis emptor».

La lettera di Algarotti a Giuseppe Tartini del 22 febbraio 1754, in Ve1791-4, XVI (1794), p. 268, attribuisce a Metastasio un pensiero più caustico anche riguardo alla poesia del suo tempo: in qualche conversazione privata il poeta avrebbe infatti affermato «che noi appena fuggiti di mano alla peste siamo incappati nella carestia». 

Locuzione proverbiale latina attestata con lievi variazioni, tra gli altri, in Cicerone (Brut. Epist., 2, 2; 2, 4; Mur., 88; Phil., 11, 5; 13, 3 e 19) e in Sen., Phaedr., 623-624. La formula ricorre di frequente nell’epistolario metastasiano.

Il passo viene citato, pur in una versione notevolmente rielaborata e non attestata nei testimoni, in Joseph Friedrich von Retzer, Abozzo per servire allo scrittore della Vita del fu abate Pietro Metastasio poeta cesareo, tradotto dal tedesco, Vienna, Trattner, 1782, p. 43: «Schifai di leggerle per amore del prossimo, percioché sempre temeva di non sapere rendere grazie equivalenti a colui che faticò tanto per me», e in Id., Compendio della vita del celebre Pietro Metastasio romano […] tradotto in italiano in Roma da un Accademico Anzioso, Roma, Cannetti, 1783, p. l: «Fin adesso l’amor del prossimo mi ha trattenuto di leggerla, perché temo sempre di dover essere poco obbligato a quell’uomo che si diede tanta pena per me».

L’incontro con Gian Vincenzo Gravina qui rievocato da Metastasio è un argomento topico degli elogi e delle biografie dedicate al poeta cesareo. In alcuni casi viene recuperato direttamente il passo della lettera (cfr. Id., Abozzo, pp. 6-7; Id., Compendio, p. v; Marc’Antonio Aluigi, Storia dell’abate Pietro Trapassi Metastasio poeta drammatico, Assisi, Sgariglia, 1783, pp. 17-18), in altri l’episodio viene invece ricostruito nel dettaglio. Tra i vari esempi, si rimanda alla Vita del signor abate Pietro Metastasio, pp. 8-9, che indugia sulla curiosità di Gravina e dell’abate Francesco Maria Lorenzini, futuro custode d’Arcadia, verso «il giovanetto Pietro, il quale, in età allora di due lustri in circa, stava sopra una delle pietre che ad uso di scarpellino erano poste su quella piazza facendo ottave all’improvviso, circondato da fanciulli suoi coetanei, che gli faceano plauso», mentre per Fabroni l’incontro sarebbe avvenuto quando Metastasio si trovava nella bottega di un orefice per apprendere il mestiere (Angelo Fabroni, Elogio di Pietro Metastasio, in Elogi d’alcuni illustri italiani, Pisa, Grazioli, 1784, p. 165). La più nota ricostruzione dell’incontro e del seguente discepolato presso Gravina si legge però in Antonio Taruffi, Elogio accademico del chiarissimo poeta cesareo Pietro Metastasio, Roma, Giunchi, 1782, pp. 13-15: «uscito per avventura a ristorarsi dalla lunga applicazione del giorno, passeggiava una bella sera di state ne’ contorni del Campo Marzo quel Gianvincenzo Gravina […] quand’ecco sorpreso ad un tratto da voce soave, ed acuta, che sull’andamento di canto improvviso veniva festevolmente modulando le più fluide ottave: quel sagace estimatore di sì privilegiato talento, serbato alla nativa prontezza dell’immaginazione italiana, e insieme alla beata struttura della nostra mirabil favella, soffermossi da prima alcun poco fra lo stupore e il diletto; indi lentamente appressatosi al giocondo circolo, dal cui centro spiccavasi la grata voce, e veduto con sua novella maraviglia il picciol poeta, non seppe saziarsi di ricolmarlo e di carezze, e di encomi. E presa poi con diretti argomenti di vario genere una più sicura, e più sedata esperienza di quell’abilità luminosa che stava per soccombere al severo flagello dell’indigenza; fin da quel punto seco dispose di averne a discepolo, e in luogo di figlio il tenerlo posseditore. Del che ottenuto il più facile e volonteroso consenso dalla mal agiata famiglia, non indugiò il Gravina ad appropriarsi con suo indicibil contento il raro fanciullo; e segregandolo in certa guisa dalla plebe, e vestendone alla greca foggia l’ignobil nome gentilizio, con armoniosa e gradita eleganza chiamollo Metastasio». Su Taruffi e l’Elogio a Metastasio cfr. Duccio Tongiorgi, «Remplacer le grand Métastase». Taruffi tra Varsavia, Vienna e Roma, in La Vienna di Metastasio (1730-1782), i.c.s. 

Gorgia di Leontini (V sec. a.C.), filosofo sofista, concepiva l’esercizio dell’oratoria come arte della persuasione.

Cfr. Vita del signor abate Pietro Metastasio, p. 16: «[Gravina] si persuase allora pienamente che il suo allievo era nato per la poesia, onde incominciò in essa maggiormente a dirigerlo, sempre però sotto la scorta degli autori greci, de’ quali volea che fosse scrupoloso seguace. Allora fu, che portandolo seco nelle sue erudite conversazioni e nelle letterarie adunanze, lo produsse e lo fece esercitare nel canto all’improvviso co’ più rinomati improvvisatori di quel tempo, vale a dire col Vannini, con Rolli, col Cavalier Perfetti, e con altri». Come rileva Marco Capriotti, L’improvvisazione poetica nell’Italia del Settecento. La storia e le forme, Roma, Accademia dell’Arcadia, 2022, p. 98, allude a quel contesto anche la memoria contenuta in Valesio, Diario di Roma, IV (1978), pp. 510-511: «Questo [Bernardino Perfetti] è un valente improvisatore, il quale già otto anni sono fu in Roma in tempo di Clemente XI e qui improvisò col Rolli, Vannini e Metastasio, allievi del Gravina, gli quali, benché più giovani, non se gli mostrarono inferiori». Per la biografia di Bernardino Perfetti (1681-1747), incoronato in Campidoglio il 13 maggio 1725, cfr. Françoise Waquet, Rhétorique et poétique chrétiennes: Bernardino Perfetti et la poésie improvisée dans l’Italie du XVIIIe siècle, Firenze, Leo S. Olschki, 1992; Ead., Perfetti, Bernardino, in DBI, LXXXII, 2015, pp. 359-362, mentre per la vicenda specifica della laurea si rimanda a Silvia Tatti, L’Arcadia di Crescimbeni e il trionfo della poesia: l’incoronazione in Campidoglio del 1725, in Settecento romano. Reti del classicismo arcadico, a cura di Beatrice Alfonzetti, Roma, Viella, 2017, pp. 273-290. Sul poeta arcade Paolo Antonio Rolli (1687-1765), compositore all’improvviso anch’egli discepolo di Gravina, si rimanda a Carlo Caruso, Rolli, Paolo Antonio, in DBI, LXXXVIII, 2017, pp. 175-179. Sono invece scarse le informazioni su Paolo Vannini, il terzo improvvisatore citato da Metastasio, «defunto in Roma alli 9 di Marzo del 1718 in età di anni 33» e noto in Arcadia con il nome di Fausto Erasineo (cfr. Rime degli Arcadi. Tomo undecimo, Roma, de’ Rossi, 1749, p. [409]. La stessa raccolta contiene tre sonetti dell’autore alle pp. 103-104). Sui tre improvvisatori citati si veda anche Marco Capriotti, L’improvvisazione poetica nell’Italia del Settecento. Un catalogo, Roma, Accademia dell’Arcadia, 2022, ad nomen.

Metastasio si riferisce all’assenza in quegli incontri di tachigrafi in grado di trascrivere in tempo reale i versi pronunciati all’improvviso e allude alla diffusione di quella tecnica ai tempi di Cicerone grazie al sistema di note messo a punto dal suo liberto Marco Tullio Tirone.

Su Alessandro Guidi (1650-1712), poeta arcade con il nome di Erilo Cleoneo, protetto di Cristina di Svezia, autore della favola pastorale Endimione (1692), introdotta da un Discorso di Gravina, cfr. Luigi Matt, Guidi, Alessandro, in DBI, LXI, 2003, pp. 203-208. Per il dramma e il Discorso cfr. Alessandro Guidi, Endimione, a cura di Valentina Gallo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011; Gian Vincenzo Gravina, Delle antiche favole, in appendice il Discorso sopra l’Endimione di Alessandro Guidi, a cura di Valentina Gallo, Roma-Padova, Antenore, 2012.

Cfr. Capriotti, L’improvvisazione poetica nell’Italia del Settecento. La storia e le forme, p. 237: «cioè le tre varianti di uno stesso soggetto storico corrispondenti al travestimento bucolico (la Roma ai tempi della fondazione), al periodo antico (la Roma repubblicana e imperiale) e al periodo moderno; l’ultimo dei quali consisteva, è evidente, in un palese invito a elogiare il potere papale».

Hor., Ars, 331-332.

Nonostante i forti legami con l’Italia, Voltaire non intraprese il viaggio qui annunciato. Sull’influenza reciproca tra Voltaire e la cultura italiana si rimanda a Salvatore Rotta, Voltaire in Italia. Note sulle traduzioni settecentesche delle opere voltairiane, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», xxxix, 1970, 3-4, pp. 387-444, poi in Id., Montesquieu e Voltaire in Italia. Due studi, a cura di Franco Arato, prefazione di Rolando Minuti, Modena, Mucchi, 2016, pp. 181-271.

Hor., Sat., 1, 1, 120.

 

Al signor Conte Algaroti a Berlino. 1° Agosto 1751 | da Vienna] Al signor Conte Algaroti. | Da Vienna a Berlino 1° Agosto 1751 B 

fecondo] feconda B 

de’ aggiunto in interlinea

a far corregge in interlinea de’, cassato da un frego A a far] di far B

 che non detesti, che non condanni, che non derida] che non condanni, che non derida, che non detesti B 

profonda] fondi corretto con segni a penna sulla riga

decimo, et undecimo corregge undecimo A 

 come il Ciel volea] sa Dio come B 

a aggiunto in interlinea A 

improvvisi] all’improvviso B 

vale corregge in interlinea val, cassato da un frego A 

pensiero] pensiere B 

straniero, e talvolta contrario] straniere e talvolta contrarie corretto con segni a penna sulla riga

specie] spezie B