Illustrissimo Signor Signor Padrone Colendissimo#1

Ieri 25 maggio mi fu consegnata da un garbato, et erudito giovane modanese chiamato il sig. Gio. Benincasa#2 una al solito gentilissima lettera di vostra signoria illustrissima data di Modena il dì 2 d’aprile. Non le accuso con l’esattezza di questa cronologia la tardanza del Sacro Portatore, che avrà avuto le sue solite ragioni per differirmene il piacere, ma evito una taccia di rustica negligenza in risponderle, che potrebbe tirarmi addosso l’ignoranza del fatto istorico.
          Le sono gratissimo, per la parte che a me ne tocca, della violenta attrazione che esercitano sopra il suo desiderio i gelidi Trioni#3, e duolmi di non essere io atto a rompere quei forti ostacoli che ne impediscono gli effetti. Per calmare intanto le fastidiose agitazioni che soffre per avventura l’animo suo nel violento stato in cui si trova,
rilegga la prego attentamente il filosofico apologhetto che il nostro divino messer Lodovico Ariosto ci ha lasciato in una delle sue Satire: dove rappresenta il dannoso inganno d’un popolo innocente, che supponendo di poter giungere a toccare la luna, ascese a costo d’intolerabile fatica fin su la cima d’un’altissima montagna, sopra di cui
parea dal basso ch’ella si appoggiasse: et ivi se ne trovò più lontano che mai#4. Lo rilegga, mio caro signor Rovatti, e gli creda.
          La certezza del sincero affetto che l’ha prodotto, mi ha fatto soffrire l’attentato ch’ella ha commesso introducendo in Parnaso altri doni che di fronde e di fiori; si guardi per altro, in avvenire, da simili diaboliche tentazioni: e non offenda mai più quel candore d’amicizia e di stima con cui sono

Di Vostra Signoria Illustrissima
Vienna, 26 maggio 1766

Devotissimo Obbligatissimo Servitore
Pietro Metastasio

Anche di questa lettera non si possiede l’autografo, ma venne pubblicata, come ricorda William Spaggiari, da Antonio Cappelli nel 1864 insieme a quella successiva del 7 luglio 1766 (cfr. Spaggiari, Scheda per l’epistolario di Metastasio, pp. 102-103, n. 8). Le lettere (insieme a due di Goldoni e due di Alfieri) «scritte di tutto pugno da chi forma la gloria del nostro Teatro e che maestrevolmente discorrono del medesimo, appartengono ad una preziosa collezione di autografi antichi e moderni di genere puramente letterario italiano posseduta dell’egregio mio amico sig. Carlo Riva, ad eccezione della seconda lettera del Goldoni» (Due lettere di Carlo Goldoni, due di Pietro Metastasio e due di Vittorio Alfieri ora per la prima volta pubblicate, Modena, Tipografia Cappelli, 1864, p. 3).

Con buona probabilità si tratta del fratello di Bartolomeo Benincasa (1746-1816), figura singolare di diplomatico, militare, scrittore, librettista (soprattutto per il dramma serio Il disertore del 1784, con un’introduzione sulla necessità di riformare il dramma lirico), traduttore nonché corrispondente di M. almeno a partire dal 1767. Bartolomeo si trovava a Vienna al seguito del marchese Montecuccoli, ministro del duca Francesco III d’Este presso la corte austriaca, e vi rimase fino al 1780, anno del suo trasferimento a Venezia; dopo alterne vicende in Italia e in Inghilterra, compreso una tormentata storia d’amore con Giustiniana Wynne e l’attività, grazie ai contatti della Wynne, come confidente degli inquisitori di Stato di Venezia, fu tra i fondatori del Monitore Cisalpino e in seguito entrò a far parte della cerchia di Francesco Melzi d’Eril. Fu l’ispirazione del romanzo di Giuseppe Compagnoni, co-fondatore del Monitore, Vita ed imprese di Bibì, uomo memorando del suo tempo, Milano, Sonzogno, 1818 (cfr. Gian Franco Torcellan, Benincasa, Bartolomeo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 8, 1966, pp. 518-522; si veda anche Eros Maria Luzzitelli, Il viaggio d’Ippolito Pindemonte verso la «virtú» ed i suoi editi moderati. I rapporti epistolari con Bartolomeo Benincasa, in «Critica storica», XIX, 4, 1982, pp. 545-640). Non abbiamo notizie precise invece sui viaggi di Giovanni Benincasa, anche se è presumibile che accompagnasse il fratello durante la sua prima visita viennese: secondo la Cronistoria dei teatri di Modena di Alessandro Gandini, in una nota di Luigi Francesco Valdrighi, a meno di omonimie «Benincasa Giovanni sostenne cariche giudiziarie in Carpi, Reggio, Modena e Correggio; a Massa Carrara ed a Milano risiedette poi qual ministro della duchessa Maria Teresa Cibo d’Este e di sua figlia l’arciduchessa Maria Beatrice. Tornato in Modena all’epoca della rivoluzione vi morì di 72 anni il 7 gennaio 1799. Giovanni ebbe molti fratelli, fra quali Bartolomeo uomo di lettere del quale Augusto Bazzoni nell’Archivio Storico Italiano narra le strane avventure, Francesco vescovo di Carpi, e Fra’ Angelico da Sassuolo generale dell’ordine de’ Cappuccini ed arcivescovo di Camerino» (Alessandro Gandini, Cronistoria dei teatri di Modena dal 1539 al 1871, Modena, Tipografia sociale, 1873, parte I, p. 126), anche se la qualifica di «giovane» utilizzata da M. può apparire un po’ incongrua per un uomo di 39 anni (il riferimento a Bazzoni riguarda Augusto Bazzoni, Un confidente degli Inquisitori di Stato, in «Archivio Storico Italiano», s. III, vol. XVIII, 78, 1873, pp. 41-42).

I «trioni» sono le sette stelle che costituiscono l’Orsa Minore, o anche collettivamente le stelle dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore; M. utilizza l’espressione per indicare il settentrione e più in generale Vienna e l’impero rispetto all’Italia. Cfr. Torquato Tasso, Ger. Lib., XI, 25, 198-199: «Là dove ai sette gelidi Trioni / Si volge e piega all’Occidente il muro», e Pietro Metastasio, Ezio, atto I, scena II: «Signor, vincemmo. Ai gelidi trioni / il terror de’ mortali / fuggitivo ritorna […]». Di «gelidi trioni» il poeta parla più volte, quasi a mo’ di formula proverbiale, nell’epistolario, soprattutto quando, nelle conversazioni con Leopoldo, si lamenta dei rigori invernali (lettere nn. 239, 329, 789, 813, 932, 950, 1133, 1234, 1241, 1287, 1375, 1550). Rovatti, come si desume anche dalla lettera del 9 luglio 1766 a M., aveva manifestato il desiderio di recarsi di persona nella capitale austriaca per conoscere l’anziano poeta, forse in un poscritto o in un’aggiunta alla lettera del 2 aprile 1766 non rintracciabile nella minuta.

Il riferimento è al celebre apologo del monte che «è la ruota di Fortuna» nella terza delle Satire ariostesche, per la precisione ai vv. 208-231 (si veda Satira III, a cura di Ida Campeggiani, in Ludovico Ariosto, Satire, a cura di Emilio Russo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019, pp. 95-129, e la lettura della stessa autrice in Ida Campeggiani, L’ultimo Ariosto. Dalle Satire ai Frammenti autografi, Pisa, Edizioni della Normale, 2018, pp. 31-100).