Illustrissimo Signor mio Padrone Colendissimo

Ricevei sabato scorso lo stimatissimo foglio di vostra signoria illustrissima ma stordito ancora dal terribil colpo della morte dell’augustissimo mio padrone non mi trovai in istato di farle risposta#1. Non ho, a dir vero, ricuperata ancor pienamente la facoltà di ragionare, ma sono ormai tanto rivenuto dal mio stupore, che mi rammento quanto deggio alla sua eccessivamente parziale amicizia, e concepisco il rossore che mi produrrebbe il differir più lungamente d’assicurarla de’ grati miei sentimenti.
          Non so qual animo più incallito nell’esercizio d’una filosofica moderazione non fosse tentato di vanagloria alla generosa offerta d’una dedica di sua mano, e di merci così preziose#2. Io, che troppo bisognoso di affaticarmi a superarle, non penso a dissimular le mie debolezze, confesso, che interamente convinto di non meritar tanto onore, ho pena di risolvermi a ricusarlo. Ma convien pure riveritissimo mio signor abbate ch’io le faccia alcune dimande. Ha ella pensato in primo luogo a se medesima? Una somigliante dedica dee farsi a qualche persona d’alto affare, che proteggendo in contraccambio gli studi suoi, entri a parte della gloria che la nostra Italia è per ritrarre da essi: et io, mercé la mia insufficienza non posso in altra guisa mostrarmi riconoscente che predicando le giuste sue lodi, delle quali per altro il silenzio a me solo recherebbe vergogna#3. Ha fatto ella poi riflessione al decoro del degnissimo autore? Soffrirà egli tranquillamente che la prima faccia del suo nobil volume sia ingombrata dal nome mio? E finalmente, poiché si tratta del mio vantaggio, ha ella considerato il danno che potrebbe quindi derivarmi? Gli scritti miei, per un concorso di fortunati accidenti, e per la mediocrità loro, incapace di meritar l’invidia d’alcuno, sono in possesso d’un certo non esaminato compatimento, il quale, come pianta di non profonde radici, si vuol poco esporre, perché non cada#4. Il distinto onore ch’ella vuol farmi, mi espone appunto a quell’esame ch’io temo, e mi pone in rischio di perdere il poco, per acquistare il soverchio. Il vantaggio dunque de’ lodevoli studi suoi, il rispetto del celebre autore, e la sicurezza mia chiedono ch’ella cangi pensiero. E dove per avventura così valide ragioni non la distogliessero dal suo primo proponimento, protesto di conoscermi immeritevole di tanto dono, e di non ambire che la permissione di sottoscrivervi.

Vienna 12 9bre 1740

Di Vostra Signoria Illustrissima Devotissimo Obbligatissimo Servitore et Amico
Pietro Metastasio

 

Si allude alla morte di Carlo VI, già annunciata in a Peroni, 20 ottobre 1740 e in a Trapassi, 22 ottobre 1740. Gori informava dello stato d’animo dell’amico nel carteggio col comune conoscente Girolamo Odam (lettera del 29 ottobre 1740).

M. fa qui riferimento, come meglio si evince nel proseguo dell’intero carteggio, alla lettera dedicatoria, destinata a M., che Gori aveva premesso all’edizione dei Sonetti e canzoni toscane (Firenze, 1741) del genovese Giovanni Bartolomeo Casaregi (1676-1755), uno dei fondatori della colonia Ligustica d’Arcadia (Eritro Faresio), nonché membro della Crusca e dell’Accademia Fiorentina, a partire dal 1717. Legati da un’amicizia di lunga durata, Gori svolse un ruolo chiave nella consacrazione nazionale delle opere del nobile genovese. In un primo momento l’etruscologo aveva caldeggiato la traduzione in versi toscani del De partu virginis sannazariano (Albizzini, Firenze, 1740), curandone la dedicatoria (rivolta al nunzio apostolico Alberico Archinto) e integrando l’edizione con alcune riproduzioni di immagini sacre. L’opera suscitò un notevole interesse, anche nello stesso M.: oltre a Damiani, 24 giugno 1741, a Damiani, 7 luglio 1742 e a Gori, 24 ottobre 1742, importante testimonianza è conservata in una lettera del 29 luglio 1741 inviata dal volterrano proprio a Gori («Il Signor Abate Metastasio mi scrive che avidissimo, ed impaziente di veder la traduzzione del poemetto De Partu Virginis»). Nel medesimo frangente Gori aveva proposto di dedicare il maggior sforzo poetico del Casaregi proprio a M.: la prassi di rivolgersi al poeta cesareo, contemplato come nume tutelare d’Arcadia e della poesia italiana per antonomasia, nonostante i rapporti non sempre armonici con l’accademia romana, non era di certo desueta, in particolare a partire dalla metà del secolo, quando gli appelli al rinnovamento filosofico-scientifico guidati dalla cosiddetta “Seconda Arcadia” si faranno più incipienti. Tra i molteplici esempi (Corilla Olimpica, Luigi Godard) si ricorda come lo stesso Gori rivolse a M. la dedicatoria proprio de Le muse fisiche di Damiani (cfr. a Gori, 17 settembre 1740), nella quale l’antiquario fiorentino esplicava le novità delle «filosofiche rime» dell’amico. Casaregi, a suo modo, si era fatto promotore di una rinnovata identità arcadica, rifacendosi al petrarchismo “ortodosso” del poeta-scienziato Eustachio Manfredi: da ricordare infatti che il genovese fu autore, assieme al concittadino Tommaso Canevari, della Difesa delle tre canzoni degli occhi, e di alcuni sonetti, e varj passi delle Rime, il cui bersaglio polemico era rappresentato dalle accuse di «oscurità» rivolte a Petrarca da parte di Muratori. Le renitenze di M. in merito ai toni affettati di Gori e alle lodi giudicate troppo ossequiose e immeritate, come già esaustivamente evidenziato da Concetta Ranieri, andrebbero forse interpretate anche alla luce di queste riflessioni, tenendo conto anche del fastidio verso l’«affettazione petrarchevole» più volte ravvisata da M. nella produzione coeva, nonché il rapporto ambivalente con Petrarca stesso, in opposizione al maestro Gravina. L’esagerata premura di Gori era stata ravvisata anche da Giovani Gaetano Bottari, in una lettera dell’11 agosto 1736, in merito alla volontà dell’etruscologo di dedicargli una tavola del Museum Etruscum: «parlando senza cirimonia, Ella potrebbe impiegare questa dedica con più proprietà in una persona illustre o per dignità, o per letteratura, o per natali». E ancora, il 5 novembre 1740, in una riflessione più generale: «Mi duole, che le dediche fruttino poco, o per dir meglio niente». Allo stesso modo il poeta cesareo inviterà garbatamente Gori a desistere quando questi tenterà di coinvolgere M. per la presentazione delle rime casaregiane a Maria Teresa (cfr. a Gori, 18 agosto 1742), probabilmente anche per il livello inflattivo che il numero di volumi con dedica verso la sovrana aveva raggiunto nel corso degli anni (cfr. a Coccia, 29 dicembre 1777). L’erudito fiorentino, probabilmente dietro la mediazione ancora una volta di Damiani (come dimostrato, oltre che in a Damiani, 24 giugno 1741, anche in a Gori, 3 luglio 1741), alla fine ridimensionerà la dedicatoria. Ma l’episodio non valse a far sì che il fiorentino dismettesse i panni di pigmalione di Casaregi, tanto che nel 1751 sarà autore di un’altra dedicatoria, questa volta destinata al cardinale Angelo Querini, alla traduzione I proverbi del re Salomone (Firenze, Stamperia Imperiale, 1751). Per maggiori approfondimenti cfr. Alberto Beniscelli, G. B. Casaregi e la prima Arcadia genovese, «La Rassegna della letteratura italiana», LXXX, 1976, pp. 362-385; Nicola Merola, Casaregi, Giovanni Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXI, 1978, pp. 176-177; Concetta Ranieri, G. B. Casaregi. Un petrarchista arcade della Colonia Ligustica, «Atti e Memorie d’Arcadia». Convegno di studi per il III centenario dell’Arcadia (Roma, 15-18 maggio 1991), III, IX, 2-3-4, pp. 201-216; Franco Arato, Il Settecento letterario, in Storia della cultura genovese, a cura di Dino Punuch, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», CXIX, XLV, 2, 2004, pp. 65-92; Marco Paoli, L’appannato Specchio. L’autore e l’editoria italiana nel Settecento, Lucca, Pacini Fazzi, 2004, passim (questioni poi riprese nel capitolo Il Settecento, ultimo secolo: conferme e inadeguatezze del sistema, in Id., La dedica. Storia di una strategia editoriale, Lucca, Pacini Fazzi, 2009, pp. 311-344).

Cfr. a Gori, 17 settembre 1740. Oltre alle solite professioni di modestia, viene il dubbio che qui M. cercasse anche di liberarsi dal ruolo di mallevadore nei confronti di Gori presso la corte imperiale.

La metafora della pianta per indicare la produttività, ma allo stesso tempo la delicatezza, della poesia è espressa più volte nel corso dell’epistolario («siamo tutti avidissimi (è vero) di frutti così leggiadri; ma siamo tutti assai più solleciti della conservazione della pianta», a Nepomucena di Montoja, 20 novembre 1750).

poi sovrascritto A

non sovrascritto a cassatura A