Illustrissimo Signore Giuseppe Rovatti
a Modena
da Vienna 7. luglio 1766


Per istrada del signor N. N.#1 mi capitò nella scorsa settimana un gentilissimo foglio di Vostra Signora Illustrissima accompagnato da un poemetto#2 in versi sciolti, e da un picciolo dramma#3. Lessi attentamente il primo con tutte le sue annotazioni, e mi compiacqui, non già delle eccessive lodi di cui ella in esso mi onora, ma della vivacità di quell’affetto che le suggerisce, e di cui io le rendo un sincero contraccambio. Conservando dunque illibato quel candore che l’amicizia esige, et ella richiede, le dirò: che il poemetto ha per mio avviso moltissimo merito: egli è dotto, scientifico, felice, e poetico, e mirabilmente ornato in maniera che non si risente della noia che facilmente produce in versi la spiegazione di quei minuti fisici meccanismi, ch’espressi anche in libera prosa riescono rincrescevoli et oscuri. Me ne congratulo dunque seco: e per pruova del veridico mio giudizio, soggiungo francamente che mi piacerebbe di vederla meno inclinata ai latinismi non accettati#4, propensione senza fallo comunicatale dal gusto che ne regna da alcuni anni in qua in un buon tratto della Lombardia: e che se continua a prender vigore e a dilatarsi, i Cantici del ludimagistro Fidenzio#5 diverran per noi il Canzoniere del Petrarca.
          Non ho letto con minor cura il picciolo dramma intitolato l’Alceste: ho trovato in esso versificazione meno felice, né immaginazione meno poetica: e con questo elogio terminerei il mio giudizio con ogn’altro, a cui fossi meno tenuto, et affezionato di quello ch’io veramente sono a Vostra Signora Illustrissima; ma simili reticenze mi paiono tradimenti con un amico del suo merito, e che si abbandona alla mia fede. Le dirò dunque che secondo le regole che mi ha prescritte non già l’autorità de’ pedanti antichi, e moderni, ma la lunga e faticosa esperienza, maestra più d’ogn’altro sicura, il suo Alceste manca affatto di tutta la malizia drammatica. Le violente passioni ch’ella vuol mettere in moto non hanno le destre gradazioni#6 che le preparano: i caratteri sono mal provveduti di quei tratti di pennello che decidono delle fisonomie#7: la curiosità del lettore non è sospesa abbastanza#8: non trasparisce alcuna pratica degl’interni nascondigli del cuore umano#9: et il poeta, che in questa specie di lavoro dee sempre esser nascosto, e parlar sempre con la mente, e col cuore altrui, qui non si scorda mai di se stesso: et è sempre riconoscibile#10. Non si meravigli, né si turbi, mio caro signor Rovatti di questo che forse le parrà strano parere. La provincia drammatica, è la più difficile e pericolosa in tutto il regno poetico. Il gran Torquato, che ha tanto onorato l’umanità col divino suo Goffredo, ha provata questa verità con la sua tragedia del Torrismondo, che, a dispetto di tutta la venerazione dovuta a così eminente scrittore ha bisogno di trovar molta costanza ne’ suoi lettori per essere intieramente trascorsa#11. Direi molto di più se il tempo, e la salute mi permettessero di farlo. Il poco per altro che ho detto mi costa così grande sforzo per superar la mia repugnanza, che se potesse ella immaginarlo, me ne sarebbe senza fallo gratissimo.
          Non mi è giunto l’Artaserse vedovo. Se mi giungerà ne dirò il mio sentimento. Intanto le dico ch’io non sarei abile a fargli una così terribile operazione, senza distruggerlo#12.
          Mi continui l’amor suo: e mi creda che la difficile prova, alla quale ha ella esposto il mio, è il più giusto titolo di protestarmi ecc.

 

La stampa del Cappelli, evidentemente basata sull’autografo, svela il nome del portatore del poemetto e del dramma di Rovatti: un non meglio identificato «sig. Bisciolotti». Va segnalato che questa parte era stata già citata nell’undicesimo numero delle Esercitazioni filologiche di Marco Antonio Parenti (Modena, pei tipi della Regia Ducal Camera, 1844, pp. 82-83): «E niuno al certo vorrebbe accettare per un’eleganza questo principio di una lettera inedita del Matastasio [sic, poi corretto nelle edizioni successive]: Per istrada del Sig. Bisciolotti mi capitò nella scorsa settimana un gentilissimo foglio di V. S. Ill.a accompagnato, ecc.».

Il Poemetto sopra le piante.

L'Alceste.

In entrambi i copialettere A e B si distinguono, cancellati, i seguenti esempi: «come sarebbe a dire fedare, Marzio, Litio, lige e simili», ancora presenti nella stampa Cappelli, dove però «marzio» è minuscolo e al posto di «Litio» si legge «situo».

I Cantici di Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro di Camillo Scroffa, scritti in quel particolare eloquio burlesco-latineggiante che è appunto il fidenziano.

È assai probabile che l’Alceste di Rovatti fosse debitore del Demetrio; ed è significativo come trentacinque anni prima lo stesso M., scrivendo a Marianna Bulgarelli, si stupisse del successo del primo melodramma del periodo viennese, con un nuovo pubblico, poiché «essendo questa un’opera tutta delicata e senza quelle pennellate forti che feriscono violentemente, io non isperava che fosse adattata alla nazione» (lettera a Marianna Bulgarelli Benti, 10 novembre 1731; in Lettere, III, p. 58; sul primo periodo viennese e i rapporti tra la moderazione del Demetrio con gli intrighi di Issipile e Adriano in Siria si veda Alberto Beniscelli, Felicità sognate, cit., pp. 59-64). Si può avvertire qui, pur sempre con la fondamentale ricalibrazione di M. in favore di un teatro delle passioni tutt’altro che inconciliabile con il fine di utilità civile, l’eco del magistero graviniano, con il rifiuto verso i disarmonici effetti del patetismo secentesco e il loro possibile ritorno, pur sotto altre ingannevoli forme. Riguardo alla gradatio emotiva nel contesto delle teorie delle passioni settecentesche, andrà ricordato come nella lode a M. della Dissertazione anche Calzabigi avesse riservato particolare attenzione alle «diverse gradazioni del costume delle passioni, che non meno di quello de’ personaggi è importante» (Ranieri Calzabigi, Dissertazione su le poesie drammatiche del signor abate P. Metastasio, in Pietro Metastasio, Poesie, Parigi, presso la vedova Quillau, 1755, vol. I, pp. XIX-CCIV, oggi in Ranieri Calzabigi, Scritti teatrali e letterari, cit., p. 36). 

Sulla metafora del «pennello» per dipingere le «fisonomie» in ossequio all’ut pictura poesis si veda anche la lettera ad Hasse a proposito dell’Attilio Regolo: «Queste sono in generale le fisonomie che io mi era proposto di ritrarre. Ma voi sapete che il pennello non va sempre fedelmente su le tracce della mente» (lettera ad Adolf Hasse, 20 ottobre 1749; in Lettere, III, p. 430). Sempre a proposito dell’Attilio Regolo, M. scrive al contraltista Domenico Annibali: «I meno abili pittori sono assai spesso felici nel ritrarre le fisonomie caricate, per valermi del termine dell’arte, e assai spesso all’incontro si perdono i più eccellenti nel ritratto di qualche bellezza regolare, in cui nulla eccede e il tutto si corrisponde» (lettera a Domenico Annibali, 25 febbraio 1750, in Lettere, p. 492). Nella traduzione dell’Ars poetica, tra le caratteristiche naturali necessarie al poeta M. ricorda «una feconda vivacità di fantasia, pronta a formarsi le immagini che, come dipinte coi colori in un quadro, vuole il poeta che gli altri veggano rappresentate nelle sue parole» (Dell’arte poetica, in Brunelli, Tutte le opere, vol. II, p. 1276).

A proposito della necessità di tenere viva e «sospesa» la curiosità del lettore, o dello spettatore, si veda la lettera a Calzabigi del 30 dicembre 1747 in cui M. giudica Il sogno d’Olimpia: «Quando destramente non si propone alcun oggetto principale che stimoli, che sospenda, che determini la curiosità dello spettatore, non teme questi, non ispera, non desidera cosa alcuna; sempre è dissipata e vagante e non mai riunita la sua attenzione, onde facilmente si stanca siccome per l’ordinario avviene a chiunque innoltrato in incognito viaggio non sa né quando né dove possa sperar di fermarsi» (Lettere, vol. III, p. 331). Ancora nella traduzione dell’Ars oraziana, riguardo al «Semper ad eventum festinat» (v. 148), M. condanna il rischio di proliferazione di azioni parallele dalla principale, commentando che «le narrazioni, le descrizioni, gli episodii, le dispute quasi accademiche, le ricercate e numerose sentenze, non necessarie all’azione, quantunque degne per se medesime d’ammirazione e di lode, fermano il corso della favola, allontanano la catastrofe, e fanno cangiare in tedio la delusa curiosità dello spettatore» (Dell’arte poetica, p. 1265).

Rovatti non ha la «pratica» personale necessaria per parlare dei moti del cuore. È da citare ancora l’ultima parte, dichiaratamente prescrittiva, della traduzione dell’Ars, dove M. ribadisce la necessità dell’esperienza personale nel porsi come creatore sapiente nel contesto dell’analitica delle passioni: «è necessaria una naturale docilità, o si attività del cuore ad investirsi facilmente delle varie umane passioni che si vogliono in altri eccitare: effetto che non può conseguirsi da chi non le sente prima in se stesso» (Dell’arte poetica, p. 1276).  Ancora, nell’Estratto M. dichiara «certissimo che chi vuol commovere altri, conviene che abbia prima messo in moto se stesso» (Pietro Metastasio, Estratto dell’arte poetica d’Aristotile, a cura di Elisabetta Selmi, Palermo, Novecento Editrice, 1998, cit., p. 135).

È evidente come Rovatti per M. non appaia mai pervaso dall’«estro» o del «furor poetico» necessario, pur opportunamente mitigato, per trascendere le proprie qualità e arrivare alla vera poesia.

Il giudizio negativo di M. verso il Re Torrismondo di Tasso – che pure è testo cruciale per la genesi del Giustino e dell’Olimpiade; cfr. Beniscelli, Felicità sognate, pp. 89-94 – è presente anche nella conclusione dell’Estratto dell’Arte poetica, dove viene ribadita la necessità che il poeta tragico si ‘scordi’ di sé stesso: «Non so perché qui abbia taciuto Aristotile il merito più grande del tragico poeta, cioè quello di sodisfare, scrivendo, all’indispensabile impegno di scordarsi affatto di se medesimo e di non parlar mai col proprio, ma sempre col cuore altrui; arte che suppone una ben difficile conoscenza ed una non comune attività a potere assumere, a suo talento, il carattere, cioè le disposizioni dell’animo d’un personaggio introdotto; arte che produce il più esquisito di tutti i piaceri, mentre rende visibili le diverse, ne’ diversi individui, interne alterazioni degli affetti umani, de’ quali, a seconda del bisogno, investito il poeta, ne investe l’animo de’ suoi spettatori e seco dolcemente lo trasporta dove gli aggrada; arte magistralmente insegnata da Orazio nella sua Poetica […]. Ed arte, in fine, così al poeta tragico necessaria che, negletta dal gran Torquato, lo ha reso nel  suo Torrismondo tanto inferiore a se stesso, quanto nell’immortal suo Goffredo è superiore ad ogni altro» (Estratto, pp. 167-168).

Non sono state conservate le carte dell’Artaserse vedovo, ma è probabilmente sufficiente il titolo per comprendere quanto poco potesse essere gradita al poeta la scelta di eliminare il personaggio di Semira, centrale nel calibrato gioco degli affetti dell’Artaserse metastasiano, dov’è amante di Artaserse e sorella di Arbace.

 

 


 
Illustrissimo Signore Giuseppe Rovatti ] Al Signor Giuseppe Rovatti B ] Illustrissimo Signore Signor Padron colendissimo C
signor N.N. ] signor Bisciolotti C 
da un ] d’un B
suggerisce correzione di cagiona cancellato ] cagiona C
si aggiunto in interlinea B
ch’espressi ] che espressi B C
pruova ] prova B C
latinismi non accettati ] latinismi, come sarebbe a dire fedare, marzio, situo, lige e simili C
dilatarsi ] dilattarsi B
aggiunto in interlinea B
gradazioni ] degradazioni B C
cuore ] core B
intieramente ] interamente B C
gratissimo ] gratissima C
è il più aggiunto a margine B
di protestarmi ecc. ] di protestarmi di Vostra Signoria illustrissima / Vienna, 7 luglio 1766. / Devotissimo, obbligatissimo Servitore, Amico vero / Pietro Metastasio. C