Vienna 24 Xbre 767.

Amico Carissimo

Ho attentamente letta mio caro signor Rovatti la vostra festa#1: et ho trovate in essa infinite cose dette e pensate da uomo erudito et ingegnoso, e per questa parte me ne congratulo con esso voi siccome sono gratissimo alla vostra amicizia, che fra le lodi della nostra eroina#2 ha saputo trovar luogo per le mie, che accetto come pegni d’amore ma non già come frutti del merito. La vostra parzialità esige da me candore; onde sicuro per esperienza della vostra esemplare docilità vi dirò sinceramente che le particolari bellezze del vostro componimento non suppliscono alla mancanza di interesse del tutto insieme. Non si propone alcun fatto a rappresentare, alcuna questione a decidere; onde la Festa non ha corpo, non curiosità: tutto diventa ozioso, e può levarsene a caso quantunque, e dovunque si voglia senza pregiudicare all’integrità dell’opera: la quale, ben al contrario, dovrebbe, per esser perfetta, rassomigliare ad una statua d’eccellente artefice, dalla quale non può togliersi una minima parte, senza scemarla di qualche membro necessario#3. Questa integrità, et unità si desidera in qualunque componimento non men di prosa, che di verso: ma nelle cose drammatiche più che in ogn’altra, perché queste (come il nome esprime) rappresentano azioni per loro natura.
          Vi ho incontrato oltre a ciò due o tre inavvertenze grammaticali ben facili a rimediare, e ch’io vi comunico per prova della mia diligenza. Il vostro Giove dice e quivi ancora parlando del luogo in cui egli si trova: e la particella quivi significa sempre il luogo dove non è la persona che parla#4. La vostra Venere dice e a’ Dei simile: non si trova in autori classici i Dei, de’ Dei, a’ Dei; ma sempre gli Dei, degli Dei, agli Dei. Siccome né pure i sdegni che usa il vostro Fato in vece di gli sdegni. Le altre correzioni della composizione drammatica dell’anno scorso#5 mi paiono savie et utili; ma non ho potuto confrontarle col manoscritto, perché questo è fra le mani d’una damina dilettante di poesia che ancora non me ne ha fatta restituzione.
          In quanto poi alla stampa di questi componimenti, io caro signor Rovatti, non mi affretterei. Lasciateli nel vostro scrigno per alcun tempo#6, e dimenticatevene: a sangue freddo forse rileggendoli poi troverete voi medesimo che sono capaci di maggior perfezione:

          Delere licebit
          quod non edideris: nescit vox missa reverti
.#7

          Felice voi che non siete, come son io, nella dura necessità di pubblicare i miei frettolosi lavori, appena usciti dal guscio! Onde potete valervi con profitto dell’avvertimento che dà Orazio a’ Pisoni
 
          Vos, o
          Pompilius sanguis, carmen reprehendite, quod non
          multa dies et multa litura coercuit, atque
          praesectum decies non castigavit ad unguem.
#8
    
          Aspetto, con sicura speranza di compiacermene moltissimo, il vostro poemetto sulle piogge. La poesia scientifica mi pare che sia la vostra vocazione. Ogni terreno ha la sua indole particolare. Uno è più caro a Bacco, l’altro a Cerere, l’altro a Pomona#9. E secondando la natura, non dubito che trarrete dal vostro preziosi frutti, purché sappiate sottoporre a prudente e moderata misura il vostro fervore studioso.
          Addio caro signor Rovatti. Gradite la mia affettuosa paterna sincerità: e credetemi invariabilmente

Il Vostro Devotissimo Obbligatissimo Servitore
Pietro Metastasio

 

La festa degli dèi.

Maria Teresa d’Austria, destinataria del componimento, che pur presenta – come di consueto – diverse lodi a M.

Nell’Estratto Metastasio, parlando dell’unità dell’azione drammatica, utilizza ancora la similitudine della statua e delle sue parti: «Dunque, non volendo (come io non voglio) supporre difetti in Omero, né contraddizioni in Aristotile, convien credere che un bel panneggiamento d’una statua, benché possa essere omesso senza distruzione della medesima, ne divenga una legittima parte, purché possano i riguardanti riconoscere, sotto quel panneggiamento, l’esatte proporzioni del nudo» (Estratto, p. 87).

«Quivi, avverbio di luogo; in quel luogo, intendendosi di quel luogo, di cui si favella, ma dove non è chi favella», si poteva leggere nella più recente edizione del Vocabolario della Crusca, la quarta (Vocabolario degli Accademici della Crusca, in Firenze, appresso Domenico Maria Manni, 1735, vol. 4, Q-S, p. 25).

Il trionfo del Parnaso.

M. utilizzava volentieri la metafora dello scrigno: «Il mio Estratto della Poetica d’Aristotile e la versione in versi dell’Epistola d’Orazio a’ Pisoni, con tutte le sue note, dormono tranquillamente nel mio scrigno, e non mi sento ancora stimoli così efficaci che bastino a vincere la mia forse viziosa repugnanza ad affrontare il giudizio del pubblico» (a Mattia Damiani, 3 gennaio 1774; Lettere, V, p. 275).

Ancora l’Ars Poetica (Hor. ars 389-390), peraltro parafrasata da M. in un noto luogo dell’Ipermestra, in chiusura della prima scena del secondo atto: «Voce dal sen fuggita / poi richiamar non vale; / non si trattien lo strale / quando dall’arco uscì» (Tutte le opere, cit., I, p. 1042).

Hor. ars 291-294.

Rispettivamente quelli ideali per le vigne, per i campi coltivati, per i frutteti.

 

Amico Carissimo ] Signore Rovati (Modena) B