Vienna 5. 9bre 767.

Amico carissimo

La vostra gratissima scrittami di villa il 18 dello scorso ottobre non mi ha trovato, è vero, fra le imposte fatiche poetiche né tra le feste nuzziali, ma fra i pianti d’una perdita inaspettata che abbiam fatto della reale sposa#1 e fra i palpiti della minacciata funesta catastrofe d’una seconda tragedia nella persona d’un’altra adorabile arciduchessa#2 che non prima di ieri è stata dichiarata fuori di pericolo dalla facoltà medica. Onde vedete che fra i lavori e le agitazioni siamo sempre alle mani coi malanni, e mentre spunta l’un, l’altro matura. Con tutto ciò mi sono sommamente compiaciuto della suddetta ultima vostra lettera, nella quale regna al solito la virtuosa vostra ammirabile docilità, mallevadrice sicura de’ felici e gloriosi viaggi che voi siete per fare nell’immenso mare delle lettere. Vedrò con estremo piacere a suo tempo il poemetto già terminato: e ve ne dirò il parer mio con quel candore che il mio, e l’amor vostro esigono, non che permettono. Approvo, anzi ammiro la vasta, e sublime idea dell’altra opera che meditate: e vi consiglio a fermarvi in essa, senza divagarvi in altre applicazioni. In questa potete fare lodevole uso non meno della dottrina che de’ vostri talenti poetici. Ma convien fermarvisi e rimanervi senza divagarsi altrove: fastidientis stomachi est plura degustare#3. Né basta per le lunghe imprese questa costanza: è necessario che il lavoro non sia interrotto, ma che il passo sia lento, affinché possa esser durevole. I grandi viaggiatori vanno a picciole giornate, e non corrono per la posta#4. Se saprete metter freno a quell’impeto che vi trasporta, verrete gloriosamente a capo e di questa e d’altre lodevoli fatiche, altrimenti dissiparete inutilmente quelle forze delle quali la natura vi ha parzialmente proveduto. Ch’io vi scriva versi? Ah, mio caro signor Rovatti, voi mi credete ancora in quella invidiabile età che abbisogna di dispensa per i libri proibiti. Io sono in quella che non solo non è solleticata dalle Muse, ma ne fugge il commercio: e non lo soffre che per dura indispensabile necessità, quando il preciso debito ve lo costringe. Sat prata biberunt#5.
          Addio, mio caro signor Rovatti. Conviene che il cardinale Piccolomini#6 abbia incontrata difficoltà insuperabile per la nota dispensa perché non ne scrive più parola. Addio di nuovo. Continuate ad amarmi et a credermi con la dovuta corrispondenza

Il Vostro Devotissimo Obbligatissimo Servitore et Amico
Pietro Metastasio

La Partenope era stata rappresentata per la prima volta a Vienna, al Burgteather, il 9 settembre del 1767 con la musica di Hasse; allo spettacolo assistettero anche i Mozart (cfr. Alberto Basso, I Mozart in Italia: cronistoria dei viaggi, documenti, lettere: dizionario dei luoghi e delle persone, Roma, Accademia nazionale di Santa Cecilia, 2006, p. 578); Maria Giuseppina era morta di vaiolo il 15 ottobre. Il 1767 fu a corte un vero annus horribilis per il vaiolo: a maggio era morta Maria Giuseppa di Baviera, moglie di Giuseppe II, e la stessa Maria Teresa si ammalò gravemente. Si ipotizza che Maria Giuseppina avesse contratto la malattia nella cripta dei Cappuccini, dove era andata con la madre a pregare sulla tomba della cognata, che però non era stata sigillata (cfr. Edward Crankshaw, Maria Theresa, London, Bloomsbury, 2011).

L’arciduchessa Maria Elisabetta, considerata la più bella tra le figlie di Maria Teresa, venne contagiata dalla sorella; sopravvisse ma ne uscì sfigurata, diventando poi badessa delle canonichesse nobili di Innsbruck. Il medico scozzese John Moore, padre dell’omonimo generale, raccontò nel 1780: «One of the unmarried arch-duchesses, who formerly was thought the most beautiful, has suffered considerably by the small-pox. A lady of the court told me, that as soon as this princess understood what her disease was, she called for a looking-glass, and with unaffected pleasantry took leave of those features she had often heard praised, and which she believed would be greatly changed before she should see them again» (John Moore, A view of society and manners in France, Switzerland, and Germany, London, W. Strahan and T. Cadell in the Strand, 1780, vol. 2, p. 408; sul vaiolo a corte cfr. anche Donald R. Hopkins, The greates killer. Smallpox in history, Chicago and London, The University of Chicago Press, 2002, pp. 62-65).

La massima di Seneca («Fastidientis stomachi est multa degustare; quae ubi varia sunt et diversa, inquinant non alunt», Sen. epist. 2, 4; ma nel Commentarium di Pietro Alighieri la forma riportata è «Fastidientis stomaci est stincte comedimus et bibimus, ut plura degustare»; cfr. Il «Commentarium» di Pietro Alighieri, a cura di Roberto Della Vedova e Maria Teresa Silvotti, Firenze, Olschki, 1978, p. 126) è usata più volte da M. nell’epistolario. Si vedano le lettere a Leopoldo Trapassi del 2 febbraio 1737 (Lettere, III, p. 148); a Francesco Algarotti, 16 settembre 1747 (Lettere, III, p. 325); a Giuseppe Rovatti, 4 ottobre 1775.

Espressione idiomatica che significa ‘subito’, ‘in breve tempo’.

Verg. ecl. 3, 111: «Claudite iam rivos, pueri: sat prata biberunt». È la stessa egloga che aveva citato (forse erroneamente) Rovatti nella lettera precedente.

Enea Silvio Piccolomini, fratello di Tommaso Piccolomini.