Vienna 18 del 775.

Amico Dilettissimo

Mi ha recato inesplicabile contento, mio caro signor Rovatti la obbligantissima vostra lettera del 25 dello scorso dicembre. In primo luogo perché è vostra; in secondo perché non mi parla di salute, argomento sicuro che voi la godete, qual io ve la desidero perfetta; poi perché ridonda di espressioni che mi convincono della continuazione dell’amor vostro, e finalmente perché m’informa delle lodevoli vostre letterarie, indefesse occupazioni, che riempiono con invidiabili acquisti e di cognizioni, e di merito tutti i bene impiegati spazi dell’ozio vostro. Ho ammirato il vostro invidiabile coraggio nella scorsa che avete fatta nella disastrosa provincia teologica: ma vi consiglio da buono, e vero amico di non farvi lunga dimora. La temerità di que’ dotti che hanno preteso di sottoporre alla limitata umana ragione le verità incomprensibili, et infinite, han ripiene le scuole d’innumerabili paralogismi#1, fra’ quali inoltrandosi i più ingegnosi, arrischiano di deviar dal buon sentiero, con poca speranza di mai più rinvenirlo. E di questa schiera sono stati tutti assolutamente i più celebri antesignani dei desertori della vera credenza. Il sapere al quale è a noi permesso di aspirare, ha terreni immensi, e sicuri, donde può con lode, e con profitto raccogliersi; onde perché mai pretendere di sollevarsi da terra, senza le ali a ciò necessarie, et a noi dalla natura o, per meglio dire, dalla Providenza negate? Chi non è obbligato a farlo dai doveri del suo stato, io credo che operi con somma prudenza evitando un così pericoloso cimento, e contentandosi di quella sola scienza teologica della quale sufficientemente, per la nostra salute, ci provvede il catechismo romano. 
          I bellissimi versi#2 che m’inviate per saggio del componimento da voi scritto su l’eternità, son pieni di dottrina, di energia, e di quel vigore di fantasia della quale voi credete a torto che vi abbiano impoverito gl’insetti. Son sicuro che certamente anche in questo misterioso genere di poesia avreste fatti, come nel resto considerabili progressi, se vi foste tutto ad esso dedicato; ma non vi pentite di non averlo fatto. Per questo mezzo si acquista, quando riesce, il voto de’ dotti soli, ma non si guadagna mai quello del popolo, senza il quale non v’è poeta che vada all’eternità di quella fama che ambisce#3. La facoltà essenziale, e costitutiva della poesia è il diletto#4. Essa non è che una lingua imitatrice del parlar naturale, ma composta per dilettare di metro, di numero, e d’armonia, ad oggetto di sedurre fisicamente l’orecchio e con ciò l’animo di chi l’ascolta#5: e l’insigne poeta, che insieme è buon cittadino si vale di questo efficace allettamento per insegnar dilettando. Di questi necessari allettamenti appunto manca in gran parte quello stile poetico che per troppo parer robusto, pregno, conciso, e figurato, perde la felicità, l’armonia, la chiarezza e divien facilmente enigmatico, e tenebroso, affatto inutile al popolo, et abbandonato al fine alla dimenticanza anche da que’ dotti per i quali unicamente è scritto. Il dottissimo poema in verso sciolto#6 del nostro gran Torquato#7 è già sepolto fra le tenebre della obblivione, sol perché mancante de’ fisici allettamenti essenziali alla poesia#8: et il suo divino Goffredo all’incontro, perché ornato di quella perpetua armonia seduttrice che seconda sempre l’elegante ritmo delle magistrali sue stanze, vive, e vivrà finché avrà vita l’idioma italiano e nelle bocche, e nella memoria de’ letterati tutti, e di tutti gl’idioti. Sicché riconciliatevi caro amico coi vostri insetti; continuate ad accarezzarli, e non vi lasciate sedurre da quell’anglomania che regna da qualche anno in qua in alcuna parte d’Italia#9. Non tutti i frutti prosperano in tutti i terreni. Il nostro ha indole diversa da quella di cui si pretende d’imitare le produzioni, e secondando la nostra possiamo aspirare alla gloria d’essere, come siamo stati, i maestri degli altri; e saremo all’incontro infelici copisti se vogliamo cambiar natura.
          Addio mio caro amico. Conservatevi, continuate ad onorar l’Italia e voi stesso, e credetemi sempre 

Il Vostro Costantissimo
Pietro Metastasio

 

Di «paralogismi» M. ha già parlato con Rovatti nella lettera del 1° agosto 1774 e ne parlerà ancora in quella del 7 luglio 1777. È termine che ricorre anche nella traduzione dell’Estratto dell’arte poetica, sia in senso positivo, alludendo agli artifici poetici utilizzati nel dramma per produrre il «mirabile» («perché nel narrativo giudicano gli orecchi, che possono essere più facilmente sedotti dalla artificiosa narrazione e farci credere l’incredibile, ma [...] nel drammatico, essendo giudici gli occhi del falso e del vero, conviene essere più cauto nel fidarsi alla credulità dello spettatore e far uso più destro di quella specie di paralogismi poetici che fan passare per verisimile il falso»; M., Estratto dell’Arte poetica, p. 160), sia in senso negativo, come sinonimo di tentazione o traviamento verso il sofisma o il falso sillogismo («Ma le arti, che nulla operando, al solo raziocinio si fidano, sono esposte a traviar dal buon cammino, dietro la scorta degl’infiniti paralogismi a’ quali il raziocinio è soggetto, e non han mai chi le avverta»; ivi, p. 69).

Le seguenti riflessioni – che echeggiano, ancora, la poetica metastasiana riverberata nelle traduzioni da Aristotele e Orazio – appaiono più approfondite di quanto non sia, di norma, il dialogo di M. con Rovatti, a riprova di una ricezione più attenta dei nuovi versi del modenese, superiori alle prove precedenti. La lettera è anche riprodotta nel copialettere B (cod. 10274), dopo che le ultime missive di Rovatti non erano più state riportate. 

«[...] ove ben si ragioni, il voto del popolo, a riguardo della poesia, è d’un peso indubitatamente molo più considerabile che altri non crede. Il popolo è, per l’ordinario, il men corrotto d’ogni altro giudice. [...] Legge ed ascolta il popolo i poeti unicamente per dilettarsi; non se ne compiace se non quanto sente commoversi e, benché s’inganni il più delle volte quando pretende di spiegar le ragioni del suo compiacimento, non s’inganna perciò in lui giammai la natura, quando si risente dell’efficacia de’ non conosciuti impulsi che l’han commossa» (Estratto, p. 139).

«È verità incontrastabile che, se non giunge ad esser ottima, è pessima la poesia: perché alle arti, che non han per oggetto il bisogno ma il diletto degli uomini, non si perdona quella mediocrità che facilmente si soffre nelle altre, le quali son pure di qualche uso, anche se non eccellentemente esercitate» (Ars poetica, p. 1274).

«Non è, dunque, la poesia se non se una lingua artificiosa, imitatrice del discorso naturale, e fa la sua imitazione col metro, col numero e con l’armonia» (Estratto, p. 91).

Sul parere di Metatasio riguardo al verso sciolto, che pure utilizza per la sua tradizione dell’Ars poetica, si veda la lettera a Saverio Mattei del 16 maggio 1776: «Nelle materie didascaliche che avete preso in esse a trattare io credo opportuno il verso sciolto, e me ne son valuto nella mia versione della Lettera a’ Pisoni del nostro Orazio a dispetto della mia indignazione contro l’epidemico abuso che ora si fa per tutta l’Italia di questo poco musico metro, che, togliendo alla poesia il fisico incantesimo della rima magistralmente usata, riduce a scarsissimo numero quello de’ lettori; ed escludendone affatto il popolo, manca del più sicuro mallevadore dell’immortalità» (Lettere, V, p. 389). Cfr. anche la lettera a Luigi Bernardo Salvoni del 10 settembre 1777, ovviamente da intendersi al netto della manierata benevolenza verso il corrispondente: «Mi sono tanto compiaciuto nella intera lettura del vostro volume, e tutto mi ha contentato a tal segno, che mi son trovato costretto a riconciliarmi col verso sciolto, non creduto da me per l’innanzi atto ad essere impiegato se non se nelle materie didascaliche o in qualche familiarissima lettera» (ivi, p. 468); la lettera a Carlo Gaston della Torre di Rezzonico del 18 febbraio 1782: «Io sono così persuaso della necessità della rima per render più fisicamente allettatrice la nostra poesia, che non credo praticabile il verso sciolto, se non se in qualche lettera familiare o nei componimenti didascalici» (ivi, p. 709).

Le Sette giornate del mondo creato di Tasso.

Ancora l’Estratto per il giudizio sui motivi della poca felicità poetica del Mondo creato, imputabili non alla dottrina ma alla mancanza di rima: «[...] fra il vigore d’un istesso pensiero, espresso in verso sciolto o rimato, corre la differenza medesima che si vede fra la violenza d’un istesso sasso, tratto con la semplice mano o scagliato con la fionda, ma da chi sappia adoperarla. E, senza tutte coteste convincentissime ragioni, chi mai, in favore del verso sciolto, potrebbe opporsi alla dolorosa esperienza che han fatta di questa incontrastabile verità gl’insigni poemi in tal libero metro, de’ quali è fornita la nostra lingua, come l’Italia liberata del dottissimo Trissino, le Sette giornate del mondo creato dell’immortale Torquato Tasso ed altri non pochi che, pieni d’arte, di dottrina e di merito, a dispetto dell’alto credito de’ loro autori e del favor della stampa, unicamente perché mancanti di rima giaccion in una profonda dimenticanza, ignoti a tutto il mondo e non letti, per lo più, né pur da quei pochi letterati medesimi che, tal volta, li rammentano per sola pompa di erudizione» (Estratto, pp. 159-160).

Se qui M. allude alla diffusa anglomania che esplose dopo il successo della traduzione cesarottiana dell’Ossian, ma non si può dimenticare come il testo che fece di più per elevare il verso sciolto a nuova norma del poetare in Italia nella seconda metà del Settecento (contro l’ironico «giogo della servile rima» di Parini), ossia i Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori del 1757 e soprattutto le premesse Lettere virgiliane di Saverio Bettinelli, aveva ospitato, oltre al Bettinelli, Carlo Innocenzo Frugoni e Francesco Algarotti, come si è già visto l’ispiratore di tutta la poesia di Rovatti.

 

Amico Dilettissimo ] Signor Giuseppe Rovatti (Modena) B
misterioso aggiunto in interlinea B
quando riesce ] (quando riesce) B