Ad un Amico#1

Vienna, 18 Settembre 1734#2

Amico carissimo

Non me l’avrei mai creduto, amatissimo signor Peppe, mai ne’#3 miei giorni. Che coscienza pelosa! Sanità! Tanti mesi non aver da far altro che canzonare il prossimo, e non venirvi mai voglia di scrivermi una letterina per compassione? Che ve ne possiate vergognare. Se fosse il tempo de’ capocerri#4 (sia detto in fondo di mare); ah ma io so che state più forte del cantiniere de’ zoccolanti: considerate se rosico catenacci... A proposito de’ catenacci: il padre Timoteo Sabbatini, che è qui con suo fratello vescovo d’Appollonia, ed inviato del Serenissimo di Modena#5, mi ha commesso cento volte di salutar voi, e tutti di casa vostra a suo nome, ma siccome il nostro carteggio patisce di accidenti epiletici, non mi è mai riuscito di farlo. Questa volta mi è pur sovvenuto. Aspettate, che credo di aver trovata la ragione per cui non mi scrivete. Fosse mai un puntiglio di segreteria per non avervi io una volta risposto ad una lettera di buone feste? Eh? Che dite? Per certo che ci ho colto. Oh poveretto me! Adesso mi succede come a’ pifferi di Lucca, che andarono per sonare, e furon sonati#6. Avete ragione. Me ne pento: carità, compassione; sono uno smemorato, un trascurato, merito peggio. Non lo farò mai, mai, mai più. Orsù, facciamo una cosa che ci possa stare il povero, il ricco, e quel che siegue. Patti, e pagati non#7 se ne parli più, e torniamo da capo.

          Ma che buona tartara#8 eh? Non è un incanto? Quelle son opre altro che mie#9, che mi fanno sudare l’animella razionale, e#10 vegetativa, e poi non me ne vedo un bene. Almeno la tartara si sbriga presto, è roba tenera, e va giù che uno non se ne accorge, e se ne possono far cento in un giorno. Ma un’opera? Madre di Dio! Che seccatura di polmoni! Lo dica il signor Pulvini Falliconti#11, ch’è stato sempre l’ortolano di Parnasso: non vi maravigliate del mio buon umore, e se ne volete saper la cagione, ricordatevi, come stanno allegri i galeotti a Civitavecchia. In mezzo a tanti malanni la natura si aiuta quanto può: e#12 si fa il callo al preterito, come le scimmie, e i ballarini da corda. Mille, e poi mille riverenze alla gentilissima signora Catarina#13. Amatemi, comandatemi, e credetemi
 

Il destinatario della lettera, che può essere identificato con certezza in Giuseppe Peroni dall’appellativo «Signor Peppe» e dal riferimento a «Catarina», viene espressamente individuato nella tradizione a stampa a partire da Ro1784.

La stessa datazione è attestata in Ro1784; Ni1786-7; Fi1787-9; Tr1795. In Carducci1883, pp. 67-69 e in Brunelli, III, pp. 92-93, la data viene congetturalmente spostata al 18 settembre 1733. La modifica, sulla quale tuttavia non è possibile sciogliere definitivamente la riserva, viene qui accolta per il rapporto di contiguità tematica con la lettera a Peroni del 4 dicembre 1733.

Sulla scorta della tradizione a stampa settecentesca, si corregge il refuso de’ con ne’. La lezione de’, tuttavia, è attestata anche in Tr1795, II, p. 107.

In senso figurato significa grattacapi, grane (Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della lingua italiana. Supplemento 2004, direttore Edoardo Sanguineti, Torino, Utet, 2004, p. 189). Nel linguaggio tecnico indica la zona cervicale degli animali, in particolare dei cavalli, ai quali rimandano anche le espressioni «cantiniere de’ zoccolanti» e «rosico catenacci». Il lemma ricorre anche nella lettera a Peroni del 4 dicembre 1733.

I due fratelli erano originari di Fanano, nel Modenese, ed erano figli del nobile Domenico Sabbatini. Il padre cappuccino Timoteo morì nel 1736 e fu sepolto nella Chiesa de Cappuccini di Modena. Giuliano Sabbatini (1684-1757) fu vescovo di Apollonia dal 1726 e vescovo di Modena dal 1745. In virtù delle sue qualità diplomatiche, nel 1725 fu inviato a Vienna dal duca di Modena Rinaldo I d’Este e divenne ambasciatore straordinario presso Carlo VI. Tornato a Modena nel 1739, divenne consigliere di Stato del duca Francesco III e nel 1741 partecipò a una legazione in Francia presso Luigi XV. Aggregato all’Arcadia con il nome di Ottinio Corineo, fece parte di numerose accademie, cimentandosi nella scrittura letteraria e teatrale. Fu autore della tragedia Chelonide (1724). Altri testi furono pubblicati accanto a quattro volumi di opere religiose nella raccolta postuma di Prose e poesie italiane e straniere (1765). Sui Sabbatini cfr. Matteo Al Kalak, Sabbatini, Giuliano, in DBI, LXXXIX, 2017, pp. 420-422.

Espressione proverbiale che significa mettere in atto un imbroglio e rimanerne scornati (Battaglia, Grande Dizionario, cit., XIII, p. 440).

La lezione non è sostituita da né in Ro1784; Ni1786-7; Fi1787-9; Tr1795.

Torta (Battaglia, Grande Dizionario, cit., XX, p. 747), con possibile allusione a uno spettacolo teatrale noto al corrispondente (cfr. Brunelli, III, p. 1192)

La lezione altro che mie è sostituita da altro che le mie in Ni1786-7; Fi1787-9; Tr1795 e nella tradizione successiva.

Sulla scorta della tradizione a stampa settecentesca, si corregge la lezione o con e.

Si tratta dell’impresario teatrale Giuseppe Polvini Faliconti (1673-1741). Nato a Camerino e giunto a Roma all’inizio del Settecento per svolgere la professione di procuratore legale, Polvini Faliconti entrò in contatto con il cardinale Pietro Ottoboni, che tra il 1721 e il 1724 gli affidò la gestione del teatro della Pace. Successivamente passò al teatro Capranica e, dopo il ritorno al teatro della Pace nel 1729, approdò nel 1731 al teatro Argentina, mentre l’edificio era ancora in costruzione. La chiusura dei principali teatri romani imposta da Clemente XII nel 1733 in seguito alla “guerra dei palchetti” provocò tuttavia la fine anticipata di quell’esperienza. Tra il 1734 e il 1737 fu chiamato da Ferdinando Minucci a gestire il teatro Tordinona, appena fatto riscostruire dal papa. Qui organizzò l’allestimento di diversi drammi metastasiani (L’Olimpiade e il Demofoonte nel gennaio-febbraio 1735, l’Adriano in Siria nel dicembre 1735, il Ciro riconosciuto e Il Temistocle nel gennaio-febbraio 1737). Tornato al teatro della Pace nel 1738 e poi all’Argentina, Polvini Faliconti continuò tra cause e debiti la sua attività di impresario fino alla morte, che avvenne il 22 gennaio 1741. Su di lui si vedano Saverio Franchi, Drammaturgia romana. II (1701-1750), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997, passim; Saverio Franchi, Patroni, Politica, Impresari: le vicende storico-artistiche dei teatri romani e quelle della giovinezza di Metastasio fino alla partenza per Vienna, in Metastasio da Roma all’Europa, a cura di Franco Onorati, Roma, s.n., 1998, pp. 7-48, poi in I Quaderni del San Pietro a Majella, a cura di Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione, vol. I, Napoli, Edizioni San Pietro a Majella, 2020, pp. 87-118; Saverio Franchi, Orietta Sartori, Polvini Faliconti, Giuseppe, in DBI, LXXXIV, 2015, pp. 662-664; Orietta Sartori, Nomen omen: Giuseppe Polvini Faliconti impresario del Settecento romano, in «Recercare», XXIX, 2017, 1-2, pp. 101-150.

Sulla scorta della tradizione a stampa settecentesca, si corregge la lezione oh con e.

Si tratta della sorella di Giuseppe Peroni (n. 1693), moglie dal 1736 di Pier Leone Ghezzi.