All’Eccellentissima Signora La Signora Donna Aurelia D’Este Gambacorta De’ Principi d’Este, Duchessa di Limatola et cetera

Egli è proprio dell’umana mente rivocare in dubbio quelle cose, delle quali l’esperienza presenti, e sensibili idee alla fantasia non dipinga. Da quale universal costume condotto anche io, nel dubbioso pensiero, se le valorose donne, che l’antichità ci presenta, fossero veri soggetti, o nomi vani, e della favolosa Grecia ingegnose invenzioni; mi sono lungamente ravvolto; né sì agevolmente me ne sarei potuto per avventura disciorre, con dar credenza all’antiche memorie, se la mia in ciò felicissima sorte non mi avesse nell’eccellenza vostra mostrata non solo la pruova di questa verità; ma la certezza altresì, che in ogni secolo, et in ogni tempo si destino i sublimi, e maravigliosi spiriti, i quali par che siano all’antichità semplicemente dovuti. Quale errore in taluni, (benché eruditi, e savii intelletti) si genera, e si alimenta da un falso discorso interno, guidato dalla fallace immaginazione, che alla mente tutti quegli eccellenti, e divini soggetti, che in tanti, e sì diversi secoli fiorirono, senza idea di distanza fra loro, unitamente rappresenta. Quale unione, posta all’incontro d’una sola età, riesce senza fallo, ad ogni altra di gran lunga superiore; il che non adiviene, a chiunque, l’immenso corso dell’antichità ne’ suoi secoli dividendo, ciascuno di essi, in comparazion de’ presenti separatamente considera. Et in vero non so in qual mai altra avventurosa etade nascesse donna#1, che al par di voi tanti pregi in se stessa sì leggiadramente accogliesse. Poiché, se a que’ doni ho riguardo, che dalla man della sorte, senza opera nostra derivano; vi veggo dal chiaro sangue della gloriosissima casa d’Este#2 discesa, il quale presso a mill’anni le regie d’Europa adornando, non è fino ad ora per altre vene trascorso, che d’eroine, ed eroi: da quel sangue, di cui tanti illustri scrittori divinamente ragionarono, che, se volessi anch’io scriverne i pregi, oltre che sarebbe opra vana, e superflua; gran parte dello splendore a lui dovuto, con l’oscurità del mio ingegno involargli potrei. Né minor dono della sorte riputar deggio, a mio credere, l’esser voi accoppiata all’eccellentissimo signor don Francesco Maria Gambacorta duca di Limatola#3, e vostro degnissimo consorte, il quale alla magnificenza dell’animo suo, alla saviezza della sua mente, et al candore de’ costumi aggiunge l’illustre legnaggio della generosa famiglia Gambacorta#4, la quale per più secoli nella pisana republica i primi onori occupando, s’avvanzò a tanto, che Lotto Gambacorta#5, di quella pervenne all’assoluta signoria, et in essa i suoi successori si mantennero, finché Giovanni#6 trasportò questa nobil famiglia nel regno di Napoli, ove, per varii rami diffondendosi, con tanta gloria risplende. Tralascio la vaghezza, e maestà del sembiante, la quale, benché da voi, come frale, e caduco bene disprezzata, pur vi rende fra l’altre involontariamente distinta. 

          Se poi fisso lo sguardo in quelle qualità, che non all’industria de’ Maggiori, o alla fortuna; ma a noi medesimi dobbiamo, vi veggio di tutte quelle parti adornata, che necessarie si rendono a formar del perfetto una chiarissima idea. Poiché venero in voi la grandezza dell’animo vostro; le piacevoli maniere, che all’altezza del vostro grado accoppiate; la gentilezza delle espressioni, in cui i vostri concetti chiudete; il meraviglioso, et elevato ingegno; il saggio discernimento delle cose, et il maturo, e considerato giudizio delle medesime; e sopra ogni altro la mente purgatissima, che spogliata, per mezzo de’ più colti studii d’ogni larva volgare, e penetrando nel più cupo, e riposto seno delle filosofiche verità, tanto s’inoltra, che dell’onesto, e del giusto al primo fonte perviene. 

          Da tanti, e sì rari pregi sorpreso rimasi sin da quando ottenni, già quattro anni or sono, per la prima volta la sorte d’inchinarmi all’eccellenza vostra in qual tempo, benché per la picciolezza dell’età mia, che allora il decimo quarto anno appena trascorrea#7, non avessi potuto a parte, a parte le vostre doti considerare, e distinguere; pur la leggiadra unione, che si forma da loro alla mia mente giungendo, in me un’idea di singolare, e meravigliosa cosa destava, nel modo appunto, che accade, a chi presso ad ameno giardino passando, da diversi fiori, che s’educano in esso, una sola, et indistinta fragranza coll’odorato raccoglie. O nella guisa, che adiviene a chi, per lontana distanza da una composta varietà d’instrumenti una armonia sola comprende. E fin da allora avrei voluto in altra forma darvi testimonianza della mia venerazione, che improvisamente poetando, siccome in quel tempo facea, in qual maniera di comporre, benché tal volta più vivi, e poetici lumi suggeriti dall’Estro scorressero, di quelli, che a sangue freddo la considerazion somministri; pure come cosa non permanente, ma momentanea, e fugace, men degna del mio fine la reputava. Ma ritrovandomi ora in Napoli, né tolerando di più lungamente differire a me stesso la sorte, di mostrarvi qualche saggio del mio divoto ossequio, ho raccolto in questo picciol volume alcuni miei componimenti poetici, i quali come primi frutti del mio debile ingegno sono a voi, più, che ad ogni altra dovuti, poiché colla generosa compiacenza, che delle mie fatighe vi siete degnata mostrarmi, mi avete a tal’opra animato: quali componimenti allor meno degni di riprensione saranno senza fallo stimati, quando a chi a ciò s’accingesse, sovvenga essere eglino prodotti per entro il corso de’ studii più necessarii, e severi. 

          Il primo fra questi è un picciolo poemetto#8 fatto in occasione del felicissimo parto d’Elisabetta Augusta, quale è composto, sì per la divotione, che a quest’invittissimo Germe è dovuta da chiunque romana religione, e romane leggi professa; come ancora per sodisfare all’obbligo a me particolarmente imposto dall’onore, che godo della familiarità dell’eccellentissimo signor conte Gallas#9 ambasciadore cesareo in Roma. Viene doppo di esso una tragedia intitolata Il Giustino#10: in cui non mi sono curato di recedere dal comun uso delle mutazioni di scene, per serbar l’unità di luogo; parendomi in ciò impossibile l’imitazione degli antichi a chi voglia comporre, per il teatro presente, e non per la sola sua gloria. Quale unità di luogo fu molto facile a conservare a’ Greci, et a’ Latini, che nella loro amplissima Scena, la quale era il diametro d’un semicircolo, in cui talvolta fino a trenta mila persone si raccoglieano; e portici, e piazze, e templi, et intere città rappresentavano#11. Ma ora, che, per l’angustia del presente teatro, non si può su la nostra scena portare, che una sola apparenza; è necessario cangiarla al pari delle differenti azioni, che nascono nella favola, essendo, a mio credere, maggiore improprietà fare, che in un picciolo, et angusto sito d’una sola camera, succedano tutti gl’eventi di un ravvolto, e lungo filo di cose, di quello, che sia il cangiamento di scene#12; Il quale non era affatto dagli antichi abborrito. Anzi, siccome da i scrittori, se ne servivano nel fine degli atti della tragedia; ne’ quali, per alleggerire la mestizia, che da funesti, e tragici casi si desta, introducevano la satirica, o sia boscareccia poesia. Ed a tal fine aveano varie forme di Scene, che ductile, o versile chiamavano. La scena versile era composta di colonne triangolari; le quali si rivolgeano intorno ad un’asse, che si fermava nel suolo, et in una delle facce, colonne, e palagi, ad uso della Tragedia; nell’altra, case particolari, ad uso della comica; e nell’ultima, alberi, e campagne, ad uso della satirica rappresentazion dipingevano. La Scena ductile corrispondeva alla presente, che traendosi in dietro scuopre le apparenze nascoste#13. Or, se fu lecito agli antichi nel fine de’ loro atti cangiar le scene, non sarà gran fatto, se a noi si concederà distendere questa licenza, anche per entro il corpo della Tragedia, quando a i Greci, senza tanta necessità, se ne sono concesse maggiori. Quale è quella di fare, che il popolo rappresentato ne i cori, parli de’ più riposti arcani de’ principi#14. Ho voluto ancora farla di fine lieto, non temendo, che perciò dovesse perdere il nome di tragedia, che non dalle morti, dalle straggi, e da funesti fini; ma dal corso di fatti grandi, e strepitosi, e dalla rappresentazione di personaggi reali discende. Né perché abbia Aristotele esemplificata nell’Edipo la perfetta tragedia, perciò non può altramenti, secondo l’opinion del medesimo, che con mestizia finire: perché non ha egli nell’approvazion dell’Edipo condannate l’altre tragedie di Sofocle, Euripide, et altri divini autori di quel secolo, che alcuna delle loro favole a lieto fine condussero#15. Vi sono oltre di ciò altre composizioni più brevi, delle quali alcune hanno già avuta la sorte di passare sotto il vostro nobilissimo sguardo#16.

          Gradite adunque, o signora, questo, qualunque egli sia, lieve dono, frutto delle mie prime fatighe. Da cui non trarrò poco, quando ei sia bastevole a rendermi, appresso di voi, vivo, e sicuro testimonio della mia venerazione, et osservanza:

Napoli il dì primo agosto 1716.

Di Vostra Eccellenza Umilissimo Divotissimo et Obbligatissimo Servitore 
Pietro Metastasio.
 

 

La lettera ad Aurelia Gambacorta d’Este è la dedica prefatoria dell’edizione delle Poesie di Pietro Metastasio romano, Muzio, Napoli, 1717, prima opera a stampa del poeta, ed è rivolta «All’Eccellentissima Signora La Signora Donna Aurelia D’Este Gambacorta De’ Principi d’Este, Duchessa di Limatola et cetera».
 

Una fra le più longeve ed antiche famiglie europee, i cui capostipiti si possono individuare tra i duchi di Toscana direttamente legati a Carlo Magno, estintasi poi alla fine dell’Ottocento.
 

Francesco Maria Gambacorta (?), quarto ed ultimo duca di Limatola, sposò Aurelia a Napoli nel 1705 e fu parente di Gaetano Gambacorta principe di Macchia, coinvolto nella rivolta antispagnola del 1701 – passata poi alla storia col nome di Congiura di Macchia - avvenuta a Napoli, con la quale si tentò di rovesciare il viceré spagnolo a seguito della crisi ereditaria verificatasi con la morte di Carlo II, ultimo Asburgo del ramo spagnolo.
 

La famiglia Gambacorta, originaria di Pisa dal XIII secolo e dedita al commercio specialmente in area sarda e napoletana, annoverò importanti personalità fra i quali Andrea, più volte membro dell’anzianato cittadino e capo del governo nel 1347, e suo nipote Francesco, caduto nella congiura antifiorentina scoppiata nel 1355 con l’arrivo di Carlo IV in città, a seguito della quale i superstiti della famiglia subirono l’esilio.
 

Stando all’albero genealogico della famiglia, dovrebbe trattarsi di quel Lotto venuto a mancare presso San Miniato nel 1397.
 

M. attribuisce l’arrivo dei Gambacorta in sud Italia a Giovanni che, nato a Pisa probabilmente dopo il 1350, era simpatizzante della politica fiorentina e per questa ragione abbandonò la patria per poi cercare, negli anni immediatamente successivi, di liberarla dal dominio della famiglia Appiani. Fu in realtà, dopo la sua morte avvenuta prima del marzo 1431, il figlio Gherardo che, privato dai fiorentini della signoria del feudo di Vai di Bagno, si rifugiò presso il Ducato di Calabria, dando così vita al ramo collaterale della famiglia nel Regno di Napoli.
 

Il primo incontro con Aurelia dovrebbe essere infatti avvenuto a Napoli in un periodo non precisato del 1712 durante il viaggio in cui Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) aveva condotto M. in Calabria presso Scalea per affidarlo al cugino Gregorio Caloprese (1654-1715) affinché ricevesse lezioni sulla filosofia cartesiana di cui era un esperto cultore. Potrebbe non essere casuale il fatto che, in quello stesso anno, egli ideasse e stendesse la sua prima tragedia, Il Giustino, che avrebbe poi visto la luce nella prima edizione di poesie del M. di cui questa lettera costituisce, appunto, la dedica prefatoria. Altri incontri potrebbero esserne seguiti sia nella primavera del 1715, in occasione del ritorno di Gravina e M. in Calabria per visitare il Caloprese morente, sia nell’estate dell’anno seguente, stando alla datazione della lettera prefatoria stessa (Napoli, 1° agosto 1716).
 

Si tratta de Il convito degli Dei o vero sopra il felicissimo parto di Elisabetta Augusta. Idillio, edito per la prima volta in Poesie di Pietro Metastasio romano, cit., pp. 1-31 e dedicato alla nascita di Maria Teresa, avvenuta il 13 maggio 1717, da Carlo VI d’Asburgo (1685-1740) ed Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel (1691-1750).
 

Johann Wenzel von Gallas (1669-1719), di origine basca e tirolese, fu uno dei principali protagonisti della guerra contro i Turchi; durante la battaglia di Vienna del 1683 fu al fianco del principe Eugenio di Savoia di cui era intimo amico. Dopo aver svolto un ruolo fondamentale nella Guerra di Successione Spagnola in contesto tedesco ed aver fatto costruire una splendida residenza a Praga per lui e la sua famiglia, fu ambasciatore cesareo a Roma quindi, ai primi di luglio del 1719, passò in qualità di Vicerè austriaco a Napoli dove morì qualche settimana più tardi a causa dell’imperversare di un’epidemia di colera.
 

Il Giustino, edito anch’esso nell’edizione Muzio 1717 e di cui rappresenta il nucleo più cospicuo (pp. 33-143 su un totale di 176), costituisce il primo cimento tragico metastasiano. Ispirato all’Italia liberata dai Goti di Gian Giorgio Trissino (1478-1550), lettura fra le predilette di Gravina, la tragedia offrì l’occasione al debuttante M. di sperimentare le prime riflessioni autonome, già mature e poi confermate dalla produzione teatrale seguente, sull’arte della poesia e della tragedia mutuate dalla lettura assidua dei classici e degli scritti aristotelici nonché dell’arte poetica oraziana, non a caso oggetti di attento studio e del poeta nel corso di tutta la sua vita assieme alle riflessioni di Giraldi Cinzio sui medesimi argomenti (vedasi il suo Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie). Se infatti l’Epistula ad Pisones (Ars Poetica) fu tradotta e commentata in forma definitiva entro il 1745, l’Estratto dell’Arte Poetica, a cui M. lavorò sin dagli anni trenta del settecento come probabile confutazione delle critiche al melodramma mosse da Ludovico Antonio Muratori nel suo trattato Della perfetta poesia italiana (1706), fu continuato per almeno quarant’anni ma mai edito vedendo la luce soltanto postumo nell’edizione completa delle opere di M. edita da Antonio Zatta nel 1782 e dedicata a Caterina II di Russia (il primo cenno riscontrabile nell’epistolario è nella lettera a Mattia Damiani del 26 febbraio 1735 e numerosi altri se ne trovano in quella più tarda, ad esempio nei carteggi tardi con Saverio Mattei e Clemente Sibiliato). Altri testi fondamentali per la teorica drammaturgica metastasiana si rivelano poi «alcune pagine della Dissertazione di Calzabigi premessa all’edizione parigina del 1752 delle opere metastasiane curate dallo stesso Calzabigi, che secondo l’attribuzione di Anna Laura Bellina sono da riconoscere al poeta cesareo, le lettere a Francesco Giovanni di Chastellux del 15 luglio 1765 e 29 gennaio 1766 […] ma, è noto, molte riflessioni importanti sono disseminate nelle lettere e nelle composizioni poetiche, in particolare in alcune “feste”, ed interesse teorico e poetico rivestono anche la traduzione-commento dell’Arte Poetica di Orazio e le Osservazioni sul teatro greco» (cfr. Maria Grazia Accorsi, Teoria, poetica, morfologia del dramma metastasiano, in Il melodramma di Pietro Metastasio. La poesia la musica la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento, a cura di E. Sala di Felice e R. Caira Lumetti, Roma, Aracne, 2001, p. 22). In anni successivi, M. avrebbe via via maturato quasi una sorta di rifiuto nei confronti della sua prima creazione tragica (cfr. la lettera a Giuseppe Bettinelli del 22 gennaio 1734).
 

Cfr. Estratto dell’arte poetica, Brunelli, II, cap. V, pp. 1024-25: «Sopra tutte queste considerazioni è fondato il metodo da me, rispetto all’unità di luogo, ne’ miei componimenti teatrali costantemente tenuto. Persuaso che il verisimile non obbliga a tutte le circostanze del vero; convinto che né da’ Greci, né da’ più applauditi drammatici sino a’ dì nostri sia stata osservata la metafisica unità di luogo che or da noi si pretende; non avendola trovata prescritta da alcun antico maestro; anzi, essendo tacitamente disapprovata da Aristotile, il quale e col suo intorno ad essa profondissimo silenzio, e col non averne condannata la trasgressione ne’ drammatici de’ tempi suoi, e con l’essersi mostrato così comodo moralista intorno all’unità del tempo, non può esser sospetto di rigorismo intorno all’unità del luogo; persuaso (dico) da tante considerazioni, ho creduto di potermi valere in buona coscienza delle nostre mutazioni  di scena. Tanto più che me ne avea consigliato espressamente l’uso l’immortale mio maestro, quando io scrissi per suo comando la tragedia del Giustino (che pur troppo si risente della puerizia dello scrittore)».
 

Il tema, già cruciale e maturo per il diciottenne M. così come lo erano l’ abilità e la tecnica drammaturgica riscontrabili nei primi capolavori teatrali, verrà compiutamente sviluppato nel quinto capitolo dell’Estratto dell’Arte Poetica dove il poeta cesareo, partendo dall’unità di tempo, fonda la sua riflessione in merito a quella di luogo proprio commentando il passo in cui Aristotele sostiene che «la tragedia si sforza, per quanto è possibile, di restringere il tempo della sua azione in un solo giro di sole, o varcarlo di poco: e l’epopea non ha limitazione di tempo; benché non l’avesse per l’innanzi ne’ pur la tragedia». Su questo assurto, M. critica apertamente stimati commentatori come Scaligero e Castelvetro che lo estremizzarono senza tener conto, appunto, del “per quanto possibile” chiaramente dichiarato dal filosofo greco, per «timore di non guastar l’illusione. Falsissimo supposto che ha prodotto anche l’altro a tutta l’antichità incognito precetto della sofistica unità di luogo ristretta ad una sola scena rappresentante o camera, o sala, o piazza, o che che sia immutabile in tutto il corso d’un dramma Unità non prescritta, anzi né pur nominata né da Aristotile, né da Orazio, né da verun altro antico maestro: e contraria (come dimostreremo) alla pratica di quei Greci medesimi che son da loro (non so con quanta buona fede) eternamente citati per supposti fondamenti di così stravagante opinione» (Cfr. Estratto dell’arte poetica, cit., pp. 993-994).
 

Cfr. Jean Étienne Monchablon, Dizionario compendioso di antichità, Venezia, Coleti, 1769, pp. 359-60, volume più volte ristampato nel corso del Settecento, dove si ritrova una esaustiva descrizione assai vicina a quella qui fornita da M. e relativa ai due differenti tipi di scena realizzati sul proscenio classico, a quanto sembra ai tempi «unicamente destinato alle decorazioni e al giuoco delle macchine, che ora facevano sollevar e come sortir dalla terra le decorazioni, il che si chiamava scena versatile, ora facendo sparire una decorazione, che sembrava ritirarsi da se medesima da una parte e dall’altra su i lati del proscenium, ne faceva avanzare un’altra, che si aveva preparata di dietro; il che nominavasi scena ductile. Questo duplice giuoco di decorazioni formava una delle più dilettevoli parti dello spettacolo. Si faceva uso ordinariamente dell’aulœum, ch’era ciò che si aveva allora di più perfetto in genere di tappezzeria, per le decorazioni della scena versatile, e in generale per tutte quelle, che servivano alle rappresentazioni delle tragedie; e del siparium, sorta di tela dipinta per le decorazioni della scena ductile, e per le commedie».
 

Cfr. Estratto dell’arte poetica, Brunelli, capp.  XII e XVIII.
 

Ivi, capp. V e VI.
 

Il volume prosegue infatti con l’idillio Il ratto d’Europa seguito dalle terzine incatenate della Morte di Catone, dall’elegia L’Origine delle leggi per poi concludersi con l’ode Sopra il Santissimo Natale.